Giorgio La Pira: visione, pace e diplomazia nel novecento

Rievocare la figura di Giorgio La Pira oggi ci riporta a un mondo novecentesco. Che per tanti versi non esiste più.

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20 Febbraio 2024 - 01.32


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di Antonio Salvati

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Rievocare la figura di Giorgio La Pira oggi ci riporta a un mondo novecentesco. Che per tanti versi non esiste più. Lo stesso La Pira appare, con il suo modo di pensare e di agire, un uomo fuori dal nostro tempo. Un tempo, quello odierno, in cui si ha la sensazione concreta di vedere e sapere tutto, a qualunque distanza sia collocato da noi. Infatti, fatti ed eventi lontani ci raggiungono. Tutto si può vedere e tutto sembra più chiaro: presente e futuro.

Eppure – come avrebbe scritto Karol Wojtyla, in una poesia, negli anni della sua vita polacca – siamo in un tempo di mancanza di sostanziose visioni del futuro. Oggi è difficile individuare uomini dai pensieri lunghi in grado di guardare oltre le contingenze presenti. Spesso manca il pensiero.

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Lo avvertiva già Paolo VI nel lontano 1967: «Il mondo manca di pensiero». Lo avvertiamo nei paesi europei, dove siamo troppo concentrati sul presente, distratti dal futuro, anzi spaventati da esso. Ci sfuggono i confini reali del presente e del futuro. E leggere il presente e guardare al futuro diventa difficile. Per questo è utile tornare sulla figura del Sindaco Santo, un uomo che qualificò Firenze e inventò, una politica di visione, dimostrando che pochi uomini e donne uniti possono impegnarsi per incontrare l’altro, anche se ostile.

Con la sua vita straordinaria dimostrò che una comunità unita a una visione appassionata del mondo come quella fiorentina, nonostante la debolezza materiale, può interpretare le esigenze profonde del mondo, farsi crocevia delle genti, luogo simbolico e reale di pace e di civiltà a fronte dell’imbarbarimento. Il mondo ha bisogno di una Gerusalemme ideale. Quella reale, lo sappiamo, è lacerata. Non a caso, La Pira parlava di una Firenze con funzione vicaria rispetto a Gerusalemme. E’ un modello e un paradigma che si ripropone a tante comunità umane. L’ “universale” della pace, la sua «inevitabilità», in questa «nuova stagione del mondo» (come scrisse in una lettera del 1964) è la visione sulla quale La Pira spese la sua esistenza. E come si evince dal titolo dell’ultimo volume di Augusto D’Angelo, Bisogna smettere di armare il mondo. Giulio Andreotti-Giorgio La Pira. Carteggio (1950-1977) (Polistampa, Firenze 2024, pp. 294, € 23,00) Il cardinale Matteo Zuppi, nella prefazione, sostiene che l’affermazione «bisogna smettere di armare il mondo» rappresenta «un imperativo da tenere nel cuore e nella mente in un periodo come quello in cui siamo immersi, di facile corsa al riarmo». L’imperativo è contenuto in una breve lettera di La Pira ad Andreotti dell’11 agosto 1977, scritta quasi al termine della sua vita (La Pira sarebbe morto il 5 novembre di quell’anno). Fa parte dell’Archivio Andreotti, donato all’istituto Sturzo, che insieme alla Fondazione La Pira, hanno consentito allo storico Augusto D’Angelo di raccogliere ben 165 lettere, accompagnate da un saggio molto interessante per meglio capire che cosa sia stata la Dc, e che cosa tenesse insieme personalità distanti, apparentemente opposte.

Il carteggio tra Andreotti e La Pira è contrassegnato in parte dal problema tanto urgente della pace. Una pace – sottolinea Zuppi – che si fa sempre tra nemici, «ed ha bisogno di ascolto, pazienza, studio, fatica, costruzione e creatività, perché bisogna saper immaginare percorsi che non esistono o sentieri che si sono smarriti e non si ricordano più».

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C’è bisogno di speranza, di tanta speranza. Spes contra spem, come amava ripetere sempre La Pira. Per il Sindaco di Firenze, il nemico da battere era la corsa agli armamenti nucleari: non solo un terribile rischio per l’umanità, ma la rappresentazione stessa del male. Un esercizio di volontà di potenza, che per La Pira era un problema di fronte al quale tutti gli altri problemi del mondo passavano in secondo piano, come scrive in alcune lettere a Andreotti. L’impegno per il dialogo e il disgelo tra i due blocchi hanno caratterizzato l’impegno di La Pira. Una missione che, a oltre quaranta anni di distanza dalla sua morte, e a più di venti dalla fine della Guerra Fredda, mantiene la sua attualità, visto che gli arsenali sono ancora pieni e c’è chi pensa di crearne di nuovi.

Le guerre contemporanee, tranne poche eccezioni, hanno trovato soluzione attraverso la trattativa, oppure si sono eternizzate. Ma oggi pare – rileva preoccupato Zuppi – che la pace sia uscita dai radar della politica internazionale e della diplomazia. Si è «fatta più forte l’idea che l’unico approccio nei confronti del nemico sia la sua sconfitta militare». Ha osservato Andrea Riccardi che La Pira «a partire da un forte sentimento interiore, fatto di fiducia nel Dio che guida la storia, di speranza, di orrore per la guerra e di coscienza della forza del male e dell’inimicizia, lesse instancabilmente piccoli e grandi avvenimenti di ogni giorno». Seppe abilmente costruire una visione della storia, «partendo da una mappa mentale, cercando di individuare orientamenti, punti di conflitto, risorse positive, varchi di speranza, comunanze possibili e differenze irriducibili», sostenuto dall’idea che «l’incontro è lo strumento per cambiare il corso della vicenda storica in un intreccio tra volontarismo dell’azione e fiducia in Dio».

Andreotti e La Pira sono state – si diceva – due personalità con caratteri assi diversi, seppur profondamente accumunati dalla necessità di tradurre in risposte politiche l’ispirazione cristiana. Entrambi erano consapevoli che, tra l’altro, era necessario coinvolgere altre sensibilità politiche nella costruzione di una città, di un Paese e di una realtà internazionale più umane. Evidentemente Giulio Andreotti non era Giorgio La Pira. Mentre per il sindaco di Firenze la politica deve rispondere con immediatezza ai bisogni della povera gente, per Andreotti la politica deve accompagnare equilibri in evoluzione, e le istituzioni sono chiamate a mediare tra le tensioni che gli sviluppi generano (con la preoccupazione per la conservazione della centralità della DC).

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La profezia di La Pira e la concretezza di Andreotti si sono spesso intrecciate nella storia della Repubblica e degli orizzonti internazionali. La loro corrispondenza contribuisce – certo – ad evidenziare certe distanze, ma su molte grandi tematiche si rilevano punti di forte convergenza riguardo agli obiettivi. Come ha osservato Andrea Riccardi: «Andreotti e La Pira erano differenti ma c’era un’unità di intenti.

La Pira partendo dalla profezia agganciava la realtà, Andreotti aveva un approccio realista, non amava i toni alti, ma questo non vuol dire che non avesse una carica ideale. Il profeta La Pira e il realista Andreotti si avvicinano molto in tante battaglie». Senza dubbio La Pira è stata una figura speciale con una sola parola nel cuore, la parola pace. E per essa ha saputo percorrere strade insormontabili, in grado di dialogare con i potenti dell’epoca e di stabilire con essi preziose intermediazioni. Oggi assistiamo – come più volte ha sottolineato Mario Giro – alla crisi del multilateralismo, alla fatica della diplomazia a trovare soluzioni per i conflitti in corso. Il grande merito di La Pira è stato quello di aver lavorato per individuare canali alternativi.

Qualcuno ha parlato di diplomazia dal basso o di lucida follia, come quando intraprese quel viaggio folle in Vietnam, assai rocambolesco (senza visto), arrivando ad incontrare quel “diavolo” di Ho Chi Minh. Un gesto rappresentativo della sua diplomazia di Palazzo Vecchio (dove nacquero anche i trattati di pace che portarono all’indipendenza dell’Algeria), lavorando per pace contro ogni speranza con l’arma della preghiera. Significativamente D’Angelo ricorda l’impegno di La Pira, e la sua richiesta di aiuto ad Andreotti, per sostenere i monasteri di clausura femminili per rafforzare e diffondere l’ampia rete di preghiera che sostenesse la pace.

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La preghiera come strumento spirituale e concreto per difendere il mondo dalla minaccia della guerra e da quella nucleare. Pochi ricordano che è stato il primo uomo occidentale a recarsi a Mosca, la Mosca sovietica, durante la guerra fredda. Con quel viaggio crebbe la sua autorità personale. Non era semplice per un cattolico all’epoca recarsi a Mosca e parlare del Vangelo. Invitò a Firenze il sindaco di Mosca, lo fece incontrare con l’arcivescovo Dalla Costa. Nei decenni successivi il suo ruolo è stato riconosciuto da Gorbaciov.

Per La Pira era fondamentale la convinzione che, nell’età nucleare la guerra non poteva più aver voce in capitolo. Doveva affermarsi – diceva – l’età del «negoziato globale». La sua battaglia per la diminuzione delle armi nucleari ha trovato accoglienza in quanto scrive Papa Francesco nella Fratelli Tutti quando afferma che «l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario». Un uomo legato – per riprendere le parole di Zuppi – alla visione del «noi», tesa alla edificazione del bene comune, radicata in quell’esperienza che portava a guardare alla realtà a partire da quelle che Papa Francesco ha definito le «periferie esistenziali» dalle quali tutto si comprende meglio. La Pira è stato un maestro della lectio pauperum, introducendo generazioni di giovani a quella Bibbia che sono i poveri, e Andreotti fu tra quelli. Ed è lì, nell’esperienza comune di un mistico prestato alla politica e di un politico cristiano che ne ha riconosciuto la validità di tante intuizioni, che è possibile trovare le radici di quello che in Fratelli Tutti viene definito «l’amore politico».

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