Palestina 1948-2025: la Nakba non è finita

Hanin Majadli conosce la tragedia palestinese, la vive oltreché raccontarla. E nel farlo svela verità ingombranti, scomode. Dando voce ai senza voce né diritti. Per questo, non smetterò mai di ringraziarla

Palestina 1948-2025: la Nakba non è finita
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

26 Dicembre 2025 - 17.32


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Hanin Majadli è una grande giornalista. E ancor più una grande donna. Nei suoi reportages c’è un carico di umanità che impreziosisce le analisi e le considerazioni politiche. 

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Hanin conosce la tragedia palestinese, la vive oltreché raccontarla. E nel farlo svela verità ingombranti, scomode. Dando voce ai senza voce né diritti. Per questo, non smetterò mai di ringraziarla

Verità scomode, come quella che è ben sintetizzata dal titolo che Haaretz fa al j’accuse di Majadli.

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La Nakba non è finita nel 1948

Scrive Majadli: “Negare la Nakba palestinese significa negare non solo il passato, ma anche il presente. La negazione non è dovuta a una disputa sulla narrazione: gli israeliani negano la Nakba non perché sia avvenuta o meno, ma perché sta ancora avvenendo.

Quando l’esercito israeliano sradica centinaia di ulivi in Cisgiordania  “per motivi di sicurezza”, si tratta di una nakba, una catastrofe, non di una metafora o di un ricordo storico.

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E non è una reazione al terrorismo palestinese: l’obiettivo è quello di espandere la giurisdizione di un insediamento vicino. Né accade perché l’esercito si è “trasformato” in un esercito di coloni: non ha mai smesso di servire la politica di giudaizzazione dell’area e di espulsione dei palestinesi da essa.

Questa settimana, un condominio nel quartiere di Wadi Kadum a Gerusalemme Est è stato raso al suolo, lasciando improvvisamente senza casa circa 100 persone. L’area era stata isolata fin dal mattino; sono entrati i bulldozer, i residenti sono stati aggrediti e due di loro – un giovane e un adolescente – sono stati brevemente arrestati. Tutto questo è successo perché l’edificio non aveva un permesso di costruzione. Non aveva un permesso di costruzione perché lo Stato non rilascia permessi di costruzione agli arabi.

Martedì, la polizia ha disperso violentemente una festa di Natale a Wadi Nisnas, Haifa, interrompendo una danza dabke e arrestando un “Babbo Natale, un DJ e il proprietario di una bancarella. Anche questo fa parte della Nakba.

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Una settimana prima, a Jaffa, una donna araba incinta e i suoi figli sono stati aggrediti dai coloni. La violenza non si è esaurita con l’aggressione stessa. La polizia ha arrestato non solo i sospetti ebrei, ma anche decine di giovani arabi che hanno osato manifestare per protestare.   Non è un caso: se la polizia arrestasse solo gli ebrei, si potrebbe pensare che tutti i cittadini israeliani siano uguali. È importante per lo Stato che sappiamo che non è così.

Un mese fa, la Corte Suprema ha approvato la demolizione di un villaggio beduino nel Negev e lo sfollamento dei suoi abitanti   per facilitare l’espansione della città di Dimona. È così che continua la logica dello sfollamento iniziata nel 1948, con l’imprimatur giudiziario – non con bombardamenti o ordini militari, come a Gaza, ma nelle aule dei tribunali civili.

Sempre più testimonianze emergono dai campi profughi di Jenin e Tulkarm, in Cisgiordania, secondo cui Israele impedisce il ritorno   migliaia di residenti che sono stati sfrattati o sfollati durante le operazioni militari all’inizio di quest’anno, nell’ambito di uno sforzo volto a determinare un cambiamento demografico. Ancora una volta, si tratta di giudaizzazione accompagnata dallo sfollamento dei palestinesi.

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Altre notizie sull’occupazione: in Cisgiordania,i coloni non smettono di attaccare   pastori, contadini, famiglie e intere comunità. Pistole, spray al peperoncino, incendi dolosi, danni alla proprietà. Massacrano pecore, sradicano alberi e feriscono persone. Tutto ciò che è etichettato come palestinese è considerato un bersaglio lecito. La situazione è più terribile che mai. Non si tratta di “attriti” o “violenza stagionale” dovuta alla raccolta delle olive, né delle “erbacce selvatiche” dei “giovani delle colline”. Si tratta di una politica, elaborata e ratificata dai militari: se l’esercito fosse infastidito da essa, l’avrebbe fermata molto tempo fa.

Un’altra notizia: cinque coloni hanno fatto irruzione nella casa di una famiglia nel villaggio cisgiordano di Samu’a, spruzzando spray al peperoncino su una donna e i suoi tre figli e ferendoli. Hanno anche ucciso almeno due pecore e ferito una terza. Anche questo non è stato un evento eccezionale.

Ecco come si presenta la Nakba quando continua e quando i migliori israeliani ne sono complici. La Nakba non è finita nel 1948; sta avvenendo a Gaza, a Gerusalemme Est, a Jaffa, nel Negev e nei villaggi, nei campi e nei campi profughi della Cisgiordania”, conclude Majadli.

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1948-2025: la Nakba non è finita.

Come Israele, anche il regime dell’apartheid sudafricano ha bandito i giornalisti stranieri. Ora è più difficile nascondere la verità.

Di forte impatto storico-politico è il report di Dan Sagir. Che sul quotidiano progressista di Tel Aviv annota: “All’inizio di marzo, il governo israeliano ha preso una decisione crudele: bloccare l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, sostenendo che “il rifiuto di Hamas di accettare il piano Witkoff” non gli lasciava altra scelta. Il tentativo di affamare la popolazione civile come strumento di negoziazione è fallito clamorosamente: in breve tempo i magazzini alimentari si sono svuotati e la fame ha cominciato a diffondersi in tutta la Striscia. Immagini raccapriccianti di civili affamati, compresi bambini piccoli, sono state diffuse in tutto il mondo. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è stato costretto a intervenire e a fare pressione su Israele affinché ripristinasse la fornitura di aiuti e si adoperasse per porre fine alla guerra.

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Israele è stato accusato di aver commesso crimini di guerra   all’Aia e la vicenda è stata al centro dell’attenzione dei media internazionali. Come se non bastasse, il governo Netanyahu è stato accusato di aver cercato sistematicamente di nascondere e negare le sue azioni e le implicazioni delle sue politiche. Il tentativo di oscurare la realtà non è iniziato quest’anno: Da quando è scoppiata la guerra nell’ottobre 2023, ai corrispondenti stranieri è stato quasi completamente vietato l’ingresso a Gaz,  tranne in casi eccezionali e sotto la stretta scorta dei rappresentanti dell’unità del portavoce delle forze di difesa israeliane, che hanno impedito la copertura mediatica indipendente. Tuttavia, nella pratica si è scoperto che anche il tentativo di bloccare le notizie sugli eventi nella Striscia era destinato al fallimento, data la continua presenza di alcuni giornalisti non affiliati e la lunga portata dei social media.

La propaganda, i tentativi di bloccare le testimonianze e l’imposizione di una narrazione unificata: tutto questo mi ha riportato indietro di quattro decenni, ai giorni in cui seguivo la repressione della lotta dei neri in Sudafrica sotto il regime dell’apartheid. Nell’estate del 1984 sono arrivato in quel Paese per raccogliere materiale per il mio dottorato sulla lotta della popolazione nera contro il dominio della minoranza bianca e la sua richiesta di pieni diritti civili nella loro patria comune. Prima di partire, ho proposto a Haaretz di inviare articoli dal campo sul regime che avrei indagato.

L’occasione non si è fatta attendere: all’inizio di settembre, circa tre mesi dopo il mio arrivo a Johannesburg, è scoppiata un’ondata di rivolte e manifestazioni contro il regime, la terza protesta dall’istituzione dell’apartheid nel 1950. Per due anni sono stato testimone esterno della battaglia dei neri e degli sforzi del regime per reprimere la loro rivolta. Ne ho scritto per Haaretz e ho trasmesso servizi su Kol Yisrael e successivamente su Army Radio.

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Durante la seconda metà del 1985, il governo sudafricano ha vietato alle troupe televisive straniere, ai giornalisti e ai fotografi che lavoravano per la stampa di documentare e riferire sugli scontri tra i neri e le forze di sicurezza bianche. Le restrizioni alla libertà di stampa erano giustificate dal fatto che “le telecamere infiammano gli animi” e che a volte non si trattava di vere e proprie rivolte, ma di “spettacoli messi in scena dai giovani” per le telecamere. Inoltre, di tanto in tanto, i portavoce del regime sostenevano che i media stranieri non fornivano una copertura equa di ciò che stava accadendo in Sudafrica. Lo scopo di queste misure era ovvio: garantire che i resoconti delle manifestazioni e degli atti di repressione scomparissero dai giornali e dagli schermi televisivi di tutto il mondo.

Quando divenne chiaro che il silenzio non funzionava, il regime passò alla fase successiva: espellere i giornalisti stranieri provenienti dai paesi occidentali, ovvero Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele. Il primo ad essere espulso fu il corrispondente di Newsweek Ray Wilkinson, in seguito a un articolo di copertina che aveva scritto sul settimanale americano sui disordini in Sudafrica il 16 settembre 1985. Come altri corrispondenti stranieri, mi precipitai ad acquistare quel numero, la cui distribuzione era stata vietata nel Paese, per capire perché lo scrittore fosse stato espulso. L’articolo descriveva la nuova generazione di giovani neri, istigatori delle rivolte nelle township, determinati a continuare la lotta fino alla vittoria, indipendentemente dal prezzo sanguinoso che avrebbero dovuto pagare.

Il reportage di Newsweek non differiva sostanzialmente dalle centinaia di articoli pubblicati in quel periodo sul Sudafrica dalla stampa internazionale, compreso Haaretz. I corrispondenti stranieri tendevano ad amplificare le voci di protesta in tutte le loro forme, comprese le espressioni estreme ascoltate tra i giovani neri. Ma a Pretoria vedevano gli eventi in modo diverso e questa volta reagirono con furia. In risposta alla copertura mediatica in tutto il mondo, le autorità dichiararono: “È ora che il governo riesamini l’ospitalità che offre ai giornalisti che partecipano a una campagna organizzata di menzogne contro il Sudafrica”.

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Altri quattro giornalisti furono successivamente espulsi dal Sudafrica: Wim de Vos, un fotografo olandese che lavorava per la CBS; Richard Manning, un altro reporter di Newsweek; Michael Bjork, corrispondente della BBC; e Peter Sharp, cameraman della rete britannica ITN. La minaccia alla libertà di stampa era palpabile. In fondo a un articolo che pubblicai all’epoca sulle restrizioni imposte alla copertura dei disordini, aggiunsi una nota personale: “Infine, una piccola nota: cercherò di continuare a trasmettere ai lettori di Haaretz un quadro il più accurato possibile degli eventi e delle loro implicazioni, nonostante la pressione che sento, come altri corrispondenti, di essere ‘equilibrato’ in un Paese squilibrato”.

E poi sono stato espulso anch’io. Nel giugno 1986, dopo due intensi anni passati a seguire il regime dell’apartheid e la rivolta dei neri contro la loro esclusione dal sistema politico, il governo sudafricano ha revocato il mio permesso di lavoro come giornalista. Mi fu ordinato di lasciare il Paese entro 48 ore. La lettera esplicativa inviata dal ministro degli Interni sudafricano all’ambasciatore israeliano affermava: “…non solo il signor Sagir ha pubblicato articoli che hanno causato gravi danni alla Repubblica del Sudafrica, ma ha anche promosso attivamente gli obiettivi e le finalità dell’Anc [il Congresso Nazionale Africano, ora partito al governo], ed espresso sostegno ai suoi leader nei suoi servizi giornalistici”.

Durante il periodo in cui ho scritto e trasmesso dal Sudafrica, mi sono deliberatamente astenuto dal discutere la delicata questione degli stretti legami tra Israele e il regime dell’apartheid – relazioni instaurate durante il governo di Yitzhak Rabin dopo lo Yom Kippur del 1973, che sono diventate sempre più strette negli anni successivi del governo del Likud. Per un po’ ho creduto, forse ingenuamente, che lo stretto legame tra i due paesi mi garantisse una certa protezione. Ma mi sono reso conto di essermi sbagliato. È possibile che a un certo punto Pretoria sia giunta alla conclusione che i commenti e le valutazioni che pubblicavo su Haaretz potessero minare le relazioni tra i due paesi e che, ai loro occhi, la mia espulsione fosse un prezzo relativamente trascurabile da pagare.

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Proprio come in Sudafrica, anche in Israele i tentativi di controllare la narrazione sono diventati uno strumento strategico. La politica mediatica adottata dal governo di Gerusalemme durante la guerra di Gaza riecheggia chiaramente quella del Sudafrica: in entrambi i casi, è stato compiuto uno sforzo costante per nascondere i fatti e manipolare la “vera storia”, o almeno per rielaborarla e riformularla prima della pubblicazione sui media locali, al fine di plasmare la coscienza pubblica. Ma oggi tale manipolazione è molto più difficile da attuare di fronte ai media internazionali e all’opinione pubblica globale.

Nel caso sudafricano, la dichiarazione dello stato di emergenza e l’impedimento dell’ingresso dei giornalisti sono riusciti in una certa misura a ridurre la copertura delle reti televisive occidentali, ma l’impatto di tali politiche è stato più limitato sulla stampa scritta. In Israele, quattro decenni dopo, la chiusura della Striscia di Gaza ai corrispondenti stranieri non ha impedito affatto la diffusione delle notizie da lì, certamente non su reti popolari come al- Jazeera. 

La copertura mediatica è diventata appannaggio dei giornalisti di Gaza – che a volte hanno pagato con la vita, dopo essere stati uccisi dall’Idf con l’accusa di essere membri di Hamas – ma ciò non ha fermato la diffusione delle notizie.

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Al contrario, i media locali israeliani, nella maggior parte dei casi, si sono accontentati dei resoconti del portavoce dell’IDF sui combattimenti. Il pubblico è stato esposto solo in misura limitata alle immagini crude trasmesse in tutto il mondo. A quanto pare, il governo israeliano ha ancora difficoltà a comprendere che in un’epoca in cui tutti hanno un cellulare con una fotocamera in tasca e possono caricare immagini sui social media – e talvolta persino trasmetterle a testate straniere – qualsiasi tentativo di imporre con la forza un blocco alla copertura giornalistica è destinato a fallire.

Tre mesi prima di essere espulso, ho pubblicato un articolo su Haaretz sui disordini ad Alexandra, una township nera adiacente a uno dei quartieri più esclusivi di Johannesburg: “Abbiamo visitato un garage di proprietà di un soldato bianco veterano che aveva un’arma in suo possesso. Ci è stato detto che aveva sparato per respingere gli aggressori e i lanciatori di pietre, uccidendo diversi giovani. I civili non si preoccupano di usare pistole che sparano proiettili di gomma o gas lacrimogeni; sparano per uccidere”.

La storia del proprietario dell’officina che ha sparato e ucciso i ragazzi non è apparsa sulla stampa locale, per il semplice motivo che ai giornalisti non era permesso entrare nella township durante le rivolte e quelli che erano riusciti a ottenere testimonianze avevano paura di pubblicarle. Allora come oggi, i consumatori dei media internazionali – in quel caso, i lettori di Haaretz – sapevano più dei cittadini del Paese stesso. Questa è forse la lezione più importante di tutte: i governi possono censurare, espellere testimoni, plasmare una realtà virtuale che si adatti alle loro esigenze, ma alla fine la verità verrà a galla. Se non da qui, allora da lì. E se non oggi, allora domani”, conclude Sagir.

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Peggio che in Sudafrica. È l’apartheid imposto da Israele in Palestina.

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