La Libia oggi: una matrioska di clan, vendette, patti violati e promesse di altre ritorsioni

Fa sempre piacere quando le analisi che conduci vengono confortate da quanto scritto da chi consideri un maestro su quel tema specifico o su quell’area del mondo.

La Libia oggi: una matrioska di clan, vendette, patti violati e promesse di altre ritorsioni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

19 Maggio 2024 - 00.48


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Fa sempre piacere quando le analisi che conduci vengono confortate da quanto scritto da chi consideri un maestro su quel tema specifico o su quell’area del mondo. La peggior cosa, nel giornalismo come nella vita, è l’autoreferenzialità, anticamera dell’invidia. Questo vale, per tornare al mestiere, soprattutto nel campo giornalistico, popolato da saccenti tuttologi che un giorno si scoprono super esperti di virus, ai tempi del Covid, salvo poi riciclarsi in strateghi di guerra, anche da parte di chi una guerra non l’ha vista neanche col binocolo. Nello Scavo di guerre ne ha raccontate dal campo, con equilibrio e carica emozionale che ha saputo trasmettere a chi lo leggeva. Un dono, non di molti. Come la voglia di andare in profondità, di scavare dentro la notizia, di non affidarsi alle veline dei palazzi del potere. Sulla Libia, Scavo è assieme a pochi altri, ne cito due, Sergio Scandura e Nelly Porsia, ad aver rivelato verità “inconfessate” e inconfessabili, senza fare sconti a nessun politico di turno, sia di destra che di centro o di sinistra. 

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Una conferma è nell’articolo che segue, pubblicato su Avvenire, il quotidiano della Cei di cui Marco Tarquinio (per inciso, ottima scelta Elly Schlein candidarlo nelle liste Pd alle europee, un grande valore aggiunto) è stato direttore con la schiena dritta e Scavo inviato di punta ancora, per fortuna nostra e dei tanti che lo apprezzano, in servizio.

Quel viaggio tra realtà e Istituto Luce

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Scrive Scavo: “L’8 maggio Giorgia Meloni era a Tripoli. Poi quasi a sorpresa, in volo per Bengasi, per discutere con il generale Haftar, il signore della guerra in Cirenaica che non vuol saperne di accordarsi per riunificare il Paese. Qualche tempo prima, sia in Cirenaica che in Tripolitania, una serie di sabotaggi contro impianti petroliferi erano suonati come avvertimento all’Italia. “Solo tensioni interne”, si affrettavano a minimizzare alcune fonti governative tripoline. Il giorno dopo gli emissari di Haftar erano già in volo per Mosca.

È la Russia a fornire manovalanza armata che ormai tiene in piedi i maggiorenti locali. Si chiama “Africa Corps”, la nuova veste dei mercenari “Wagner”, dopo che la compagnia è stata ufficialmente soppressa in seguito all’eliminazione del suo fondatore Evgenij Prigozhin e di buona parte del vertice che aveva tentato di ribellarsi a Putin.

La Libia del dopo Gheddafi era un sistema di potere scandito dalle faide. Oggi è una matrioska di clan, vendette, patti violati e promesse di altre ritorsioni. Il 16 aprile l’inviato Onu a Tripoli ha gettato la spugna. Il diplomatico senegalese Abdoulaye Bathily prima di sbattere la porta ha inviato al Consiglio di sicurezza Onu una lettera di fuoco. «Nonostante gli sforzi per rispondere alle preoccupazioni e promuovere il dialogo politico in Libia, ci sono resistenze, aspettative irragionevoli e indifferenza da parte delle istituzioni libiche», ha scritto. Le elezioni avrebbero dovuto svolgersi un paio di anni fa, ma il presidente milionario Dbeibah ha sempre trovato il modo per far saltare il tavolo ogni volta prima dell’indizione del voto. Dal 2021 resta al potere (l’inchiesta scattata con l’accusa di avere comprato i voti dei grandi elettori è stata insabbiata) e oggi ha le chiavi per influenzare la politica in Europa con le solide due armi: la minaccia dell’invio di un massiccio numero di migranti, la gestione diretta dei rubinetti di petrolio e gas. «Le posizioni radicate degli attori principali ostacolano significativamente i progressi nel processo politico», scriveva Bathily nella lettera passata sotto silenzio. Tra le accuse vergate dal diplomatico Onu vi è quella rivolta alle «influenze straniere». Tripoli è una preda che nessuno può farsi sfuggire. Ottenerne il controllo significa disporre di straordinarie risorse energetiche a 500 chilometri dalle coste europee (Italia) e al contempo mettere piede in un Paese decisivo per le sorti dell’intera Africa del Nord e fino al Sahel. Nessuno può farselo sfuggire, nessuno spartire il bottino. Fonti diplomatiche italiane confermano che durante la visita dell’8 maggio Giorgia Meloni «ha rimarcato l’importanza di far progredire il processo politico, preservando l’unità delle istituzioni libiche, e di lavorare per porre fine alla presenza di forze straniere sul suolo libico». Messaggio portato anche al generale dell’Esercito nazionale arabo di Libia, Khalifa Haftar. «L’Italia – ribadiscono le stesse fonti – vuole essere presente in tutta la Libia, lavorare con tutti i diversi attori libici, dove tuttavia è significativa la presenza di milizie russe». 

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Da Mosca rispondono mettendo sul piatto tonnellate di rubli con cui comprare la fedeltà di ex fedelissimi di Tripoli, pronti adesso a saltare il fosso. Si spiegherebbero anche con queste nuove ambizioni gli scontri tra fazioni a Zawyah, dove imperversa il clan al-Nasr, che controlla la “sicurezza” del principale stabilimento petrolifero libico, la gestione diretta della più grande campo di prigionia statale per migranti, e il porto da cui salpano merci di contrabbando, petrolio di frodo, armi ed esseri umani. 

Per regolare i conti basta un pretesto. È successo mentre Meloni era ancora a Tripoli. Una battaglia ufficialmente scoppiata per vendicare l’uccisione di due giovani libici. «Questi conflitti in corso evidenziano la fragilità della situazione della sicurezza nella regione – ha scritto l’Agenzia Nova, bene informata sulle questioni libiche -, sollevando preoccupazioni per un’ulteriore escalation e per l’impatto sulle comunità locali». I gruppi di Zawyah hanno sempre mantenuto rapporti con gli emissari dei governi italiani. Non sempre relazioni facili e stabili, ma vista la presenza di aziende “Made in Italy” nell’area, i canali non sono mai stati chiusi. A patto di non fare domande su come si gestisce il flusso migratorio. Neanche l’Onu ottiene mai l’autorizzazione al libero accesso nelle strutture detentive della zona, nonostante due dei principali responsabili dei campi di prigionia statali (il comandante “Bija” e suo cugino Osama al-Khuni, direttore delle prigioni) siano sottoposti a sanzioni internazionali e indagati per crimini contro i diritti umani dalla procura di Agrigento.

Pochi giorni prima del viaggio di Meloni, il parlamento italiano aveva votato anche il rifinanziamento del sostegno alle autorità libiche, «allo scopo – spiega il Servizio Studi del Senato – di incrementare la capacità di raccolta informativa in merito alle attività della Guardia costiera libica, al traffico di petrolio dalla Libia e al traffico di esseri umani». 

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Giusto il tempo di rientrare a Roma, che il 13 maggio sul tavolo del governo italiano arriva una notizia da Bengasi. «Una delegazione presidenziale e governativa libica – si legge – è oggi a Mosca per discutere di cooperazione militare ed economica con la Russia».

Più chiaro di così…

Mercenari all’opera

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Altro contributo di spessore è quello di Giulia Filpi per Africa. La rivista del continente vero. “Un’indagine condotta dalla rete investigativa ‘All Eyes on Wagner’ e pubblicata la scorsa settimana rivela che la Russia starebbe trasferendo truppe e combattenti in Libia da tre mesi e che la regione di Jufrah sarebbe al centro della strategia del Cremlino nel nuovo assetto politico.

Mosca, si legge sul sito d’informazione Libya al-Ahrar, con base a Doha, sta rafforzando la sua strategia in Nord Africa attraverso un crescente coinvolgimento in Libia, evidente dal 2019 sotto forma di unità paramilitari (precedentemente note come Gruppo Wagner), che ha subito un’accelerazione improvvisa dall’inizio dell’anno.

Il resoconto di ‘All Eyes on Wagner’ rivela “la consegna di attrezzature e veicoli militari dalla Siria alla Libia, che costituisce il lato più evidente di questo intervento in aumento”. Secondo l’organizzazione, attualmente ci sono 1.800 russi sparsi in tutto il Paese, con due navi da sbarco della Marina russa che hanno lasciato la base navale siriana di Tartus e sono arrivate al porto di Tobruk il 6 aprile con attrezzature e armi, confermando “la quinta consegna” di questo tipo a Tobruk in 45 giorni.

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Fonti diplomatiche occidentali hanno confermato al quotidiano francese Le Monde questo incremento dell’influenza russa in Libia, stato chiave nel Nord Africa e punto di incontro tra il Medio Oriente e il Nord Africa. Il quotidiano cita un diplomatico europeo secondo cui questa mobilitazione “riguarda più le attrezzature che i combattenti”, aggiungendo che questi recenti movimenti in Libia fanno parte di una “penetrazione russa” per “stabilire governi fedeli a Mosca in tutto l’est e l’ovest dell’Africa. Resta solo il Ciad a dividere l’Africa in due parti”, Paese che tuttavia è anch’esso oggetto di forte interesse da parte della Russia. Il rapporto francese ritiene che se la Libia è cruciale in questa strategia russa in Africa, è perché funge da piattaforma per il dispiegamento di attrezzature e combattenti verso i Paesi vicini: il Sudan nella guerra civile, il Niger, il Mali e il sud del Burkina Faso guidati da consigli militari vicini al Cremlino, e forse il Ciad.

Il nodo strategico del nuovo assetto russo nel Continente si trova a Jufrah, a 350 chilometri a sud del Golfo di Sirte, dove le attrezzature e i militanti da Tobruk giungono prima di essere reindirizzati verso i teatri regionali di interesse per Mosca. Il rapporto sottolinea che “la Russia non è più timorosa di mostrare il suo coinvolgimento diretto in Libia”, come afferma l’analista presso il Royal United Services Institute for Defence and Security Studies, Jalil Harshawy: “Quando Wagner è entrata in Libia nel 2019 supportando le forze dell’Esercito nazionale libico nell’attacco a Tripoli, Mosca ha ufficialmente negato”, ma quell’epoca è finita, poiché “il viceministro della Difesa russo Yunus-Bek Evkurov ha compiuto quattro visite a Bengasi, la base politica e militare del generale Haftar, da agosto 2023”. 

Haftar stesso si è recato a Mosca alla fine di settembre, incontrando il presidente Vladimir Putin. Da allora, la presenza russa è diventata più evidente, e il ministero della Difesa russo ha assunto il controllo del ramo africano del gruppo di mercenari già noto come Wagner, decapitato dopo l’uccisione del suo capo Evgeny Prigozhin nell’agosto 2023, diventando il “nuovo Corpo d’armata africano”. Gli Stati Uniti e l’Europa devono poi affrontare altre due sfide: da un lato, temono che la presenza militare russa possa consolidarsi sulla costa sotto forma di base navale a Tobruk o Sirte, minacciando direttamente le forze della Nato nel Mediterraneo. Quello di una base russa a Sirte è un progetto vecchio che Mosca non è riuscita ad imporre all’ex leader Muammar Gheddafi. Gli investigatori di ‘All Eyes on Wagner’ indicano che la città è ora sotto il controllo di Khalifa Haftar, all’ombra del quale le forze paramilitari russe locali godono di libertà d’azione.

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Durante le esercitazioni militari delle forze dell’Esercito nazionale libico il 16 marzo, sono stati esposti i sistemi missilistici russi Pantsir presso la base aerea di al-Qardabiya, vicino a Sirte. Oltre al suo potere militare nell’est, nel centro e nel sud del Paese, la Russia sta partecipando anche a un’intesa attività diplomatica a Tripoli, dove il suo ambasciatore, Aidar Aghanin, che parla arabo, sta svolgendo molte riunioni con politici libici di tutte le fazioni”.

Così Filpi. Chiosa finale: chi narra delle magnifiche e progressive sorti dell’Italia meloniana in Nord Africa, con tanto dello strombazzato “Piano Mattei”, non conosce vergogna. 

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