«…Ogni innocente, ogni bambino di Gaza morto è una pietra che colpisce il cuore morale di Israele». Lo ha detto l’ex premier israeliano Ehud Olmert, a dar conto dell’impotente indignazione di molta opinione pubblica israeliana – e di quella Occidentale – sul massacro di 14mila bambini palestinesi di Gaza, ora che il numero complessivo dei morti in soli sei mesi ha di gran lunga superato i 30mila.
Ma se metà Israele si indigna come e più di Olmert, e manifesta per la pace, l’altra metà si mostra cinicamente indifferente, insensibile anche al destino degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas, e sostiene le politiche criminali del premier Benjamin Netanyahu – tutt’altro che isolato – augurandosi lo sterminio dei gazawi, ovvero dei palestinesi attendati nel “cimitero” virtuale di Gaza Sud.
Libro e moschetto
Se ne parla poco ma, nei territori arabi occupati militarmente da Israele, da decenni si combatte una seconda “guerra”, diciamo demografica, ai palestinesi. Che significa? Significa che nel 1950 Israele aveva 1.370.000 abitanti mentre ora se ne contano quasi dieci milioni e per un quinto sono palestinesi d’Israele, che è uno Stato laico e multietnico.
Riducendo la questione all’osso, in quel Medio Oriente il tasso di fertilità degli ebrei e degli arabi israeliani è di circa tre figli per coppia (uno dei più elevati del mondo “occidentale”); sicché in Israele si hanno 411 abitanti per chilometro quadrato, ma il dato raddoppia se escludiamo le inabitabili zone desertiche. Di questo passo, sommando le nuove nascite all’arrivo degli immigrati (40mila nel solo 2023), nel 2050 lo Stato d’Israele conterà 13 milioni di abitanti, stipati in un fazzoletto di terra poco più grande della Puglia.
Cresce la popolazione di Israele, e in particolare si espande esponenzialmente la componente ultra-ortodossa e ultra-forcaiola degli Haredim, dediti prevalentemente allo studio della Torah, l’Antico testamento, e del Talmud, il “grande libro” delle norme etiche, giuridiche e rituali del popolo ebraico: ebbene, tra gli Haredim siamo a sette figli per coppia, il doppio della peraltro elevata media nazionale. Questi fondamentalisti religiosi (i fautori del primato etnico di Israele) sono tra i più convintamente guerrafondai; ma se molti di loro vengono esentati dalla leva militare (32 mesi per gli uomini, 24 per le donne) e quindi dal combattere, la percentuale dei cadetti al corso per allievi ufficiali educato nel sistema scolastico sionista ortodosso, negli ultimi trent’anni è passata dal 2,5 al 40 per cento.
Lo “spazio vitale”
Dunque Israele cerca spazio, e dal 1977 – sostanzialmente da quando governa la destra del Likud – lo trova incentivando la colonizzazione di territori confinanti della Cisgiordania e dell’altipiano del Golan, a spese della sempre più esigua e vessata comunità palestinese e siriana che in quelle terre ancora risiede.
Passando ai numeri, i millenovecento coloni israeliani del 1977, dieci anni dopo sono diventati cinquantamila, nel 2008 trecentomila e 417mila nel 2021, senza però dare conto degli israeliani insediatisi a Gerusalemme est, la futuribile capitale dello Stato di Palestina.
L’anno scorso in Cisgiordania sono stati creati ventisei nuovi avamposti illegali israeliani, dieci dopo il 7 ottobre. Ma 750mila coloni ebrei vivono ormai stabilmente in trecento insediamenti oltre i confini del 1948. Sono enclave sioniste in un territorio, la Cisgordania, che ora si presenta a “macchie di leopardo”, con qualche zolla amministrata dall’Autorità palestinese, ovvero da Fatah (la componente più moderata del movimento), ma ovunque comanda Israele.
Il governo di Netanyahu riconosce ai nuovi immigrati che scelgono di vivere negli insediamenti fuorilegge un assegno mensile di 500 euro per due anni, sconti sulle tasse e cinque anni di spese ultra-ridotte per l’affitto di una casa, nonché lo sfruttamento delle terre fertili e di altre risorse naturali, in particolare delle falde idriche (i 470mila coloni trapiantati in Cisgiordania consumano sei volte più acqua dei 3 milioni di palestinesi circostanti). Insomma, nei territori occupati i diritti degli israeliani prevalgono di gran lunga su quelli dei palestinesi ghettizzati; in una parola, è apartheid.
Divisi al loro interno, sottoposti a occupazione militare e senza più terra né acqua né mezzi di produzione, insomma senza più diritti, i palestinesi rappresentano per Israele in generale e per i coloni in particolare un flessibile bacino di manodopera a basso costo (li pagano il 35 per cento del salario minimo israeliano), da sfruttare nel settore edile oppure agricolo.
Diritto e rovescio internazionale
Il 60 per cento della Cisgiordania, la sua parte più fertile, è sotto stretto controllo israeliano (è la cosiddetta “zona C” degli accordi di Oslo sottoscritti nel 1993 e nel 1995 dal governo israeliano e dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina). Nella regione, quasi tutte le richieste di nuove costruzioni avanzate dai palestinesi vengono artatamente respinte, e per ogni concessione edilizia si contano abbattimenti venti volte più numerosi (dal 2004 a oggi, nella sola Gerusalemme est quattromila persone hanno avuto la casa pretestuosamente abbattuta). Vietato ai palestinesi l’accesso agli insediamenti; nella “zona C” è loro impedito persino il pascolo del bestiame.
Queste temperie repressive (nei fatti, una “pulizia etnica”) mirano ad allontanare le popolazioni locali e a indebolire il loro legame con la terra-madre, così da narcotizzare la prospettiva di uno Stato palestinese (parrebbe il fine, ora che governa la destra fondamentalista). Insomma, i coloni rappresentano oggi uno dei principali ostacoli all’indipendenza della Palestina.
E il diritto internazionale? Con la risoluzione 446, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha denunciato l’illegalità degli insediamenti israeliani. Non da meno, all’articolo 49 comma 6 della quarta Convenzione di Ginevra – riconosciuta da Israele – leggiamo che «la potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua popolazione civile nel territorio da essa occupato». Sono disposizioni sacrosante, ma è ciò che da cinquant’anni, dalla Guerra dei sei giorni, Israele sistematicamente disattende.
La comunità internazionale (Paesi arabi inclusi) si mostra dunque impietosa nell’ammonire verbalmente Israele, ma poi lascia fare: gli Stati uniti e l’Europa importano i prodotti delle colonie invece di boicottarle (e così le finanziano, favorendone la proliferazione). E poco importa se di nuovo gli israeliani ammazzano, di nuovo abbattono le case, di nuovo affamano i palestinesi per costringerli ad andarsene (a Gaza come in gabbia, dentro a una guerra terrorista che li vorrebbe tutti morti). Nel frattempo Gaza l’hanno rasa al suolo, e massacrati i suoi abitanti. Così, per rivederla tornare una città abitabile dovremo attendere forse la fine del secolo. Ovviamente salvo imprevisti.
Due Stati sovrani
Nei mesi scorsi il presidente di Pax Christi Italia mons. Giovanni Ricchiuti sul conflitto in corso a Gaza ha usato toni forti: ha parlato di genocidio, dicendosi «felice che il Sud Africa abbia avanzato la richiesta di portare Benjamin Netanyahu al tribunale internazionale dell’Aja. Durante la seconda guerra mondiale», ha detto l’emerito arcivescovo, «i tedeschi in Italia dicevano che per ogni loro soldato ucciso ne avrebbero ammazzati dieci. Qual è l’obbiettivo, se non eliminare questo popolo, farlo fuori tutto?» osserva Ricchiuti, concludendo che questa guerra è «accompagnata da un’informazione allineatissima in difesa di Israele».
Tanto allineata che la storia di Tal Mitnik – un diciottenne israeliano che si è rifiutato di combattere – ha trovato spazio su alcuni media israeliani e meno in Italia. Secondo questo ragazzino «Non c’è soluzione militare a un problema politico» e «l’attacco criminale su Gaza non riparerà il massacro che Hamas ha compiuto il 7 ottobre». Dice poi che bombardare indiscriminatamente la striscia, compresi gli ospedali, produce solo ulteriore odio. Mitnik ha ragione. Ma come uscire dal caos attuale?
La soluzione è nota da molto tempo: quella di “due popoli, due stati” preconizzata nel 1993 a Oslo. Tutti la invocano, eppure nessuno davvero la vuole. Nel settembre 2008 si era ormai a un passo dall’accordo: il 93,5 per cento della Cisgiordania ai palestinesi con l’eccezione delle aree più densamente colonizzate, quel 6,5 per cento da compensare con altri territori; lo smantellamento delle colonie in territorio palestinese; fare di Gerusalemme una “città aperta”, con la parte ovest ebraica capitale di Israele e la parte est araba capitale della Palestina. Lo aveva proposto Ehud Olmert, in gran segreto, nel settembre 2008 ad Abu Mazen, ma questo accordo il presidente della Palestina non si sentì di sottoscriverlo. Lo stallo sembra quindi far comodo a molti ma non a chi muore, israeliano o palestinese che sia.
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