Israele-Iran: prove generali di una guerra che incombe

Le prove generali sono già scattate. Israele si prepara alla “madre di tutte le guerre”: quella con l’Iran.

Israele-Iran: prove generali di una guerra che incombe
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

11 Aprile 2024 - 16.09


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Le prove generali sono già scattate. Israele si prepara alla “madre di tutte le guerre”: quella con l’Iran.

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Prove generali

A darne conto, con la consueta profondità alitica e documentale, è Pietro Batacchi, direttore di “”(Rivista Italiana Difesa): “In settimana Israele ha provato quello che potrebbe essere un attacco a lungo raggio contro obbiettivi strategici in Iran, nel caso Teheran reagisca all’attacco israeliano a Damasco del 1° aprile. Si è trattato di un’esercitazione, coordinata con le forze americane nell’area e la Guardia Nazionale Cipriota, e condotta sull’Isola di Cipro. L’esercitazione ha simulato attacchi a lungo raggio contro obbiettivi collocati in profondità in un territorio nemico, da parte di aerei dell’Aeronautica Israeliana decollati da basi situate nello Stato Ebraico. Nell’attività sarebbe stato coinvolto almeno uno Squadrone di caccia e aero-rifornitori. 

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Un messaggio chiaro a Teheran: si segnala la propria disponibilità all’escalation, sperando che questo dissuada la reazione iraniana, e nel contempo ci si addestra per uno scenario tremendamente complesso. Innanzitutto, le distanze. Cipro dista da Israele nel punto più vicino 250 km, mentre la distanza minima tra Israele e Iran è più di 4 volte tanto. Questo significa che, in caso di attacco all’Iran, gli aerei israeliani dovrebbero tra andata e ritorno compiere ben più di 3.000 km, con diversi rifornimenti in volo, 2-3 a tratta. 

Poi, le rotte. La prima, quella più probabile, è quella settentrionale: in questo caso gli aerei israeliani si “infilerebbero” lungo il confine tra Iraq e Siria, e attraverserebbero il Kurdistan iracheno, dove l’influenza dello Stato ebraico è tradizionalmente forte. Poi, la rotta centrale, attraverso Giordania e Iraq centrale. Infine, la rotta meridionale, attraverso l’Arabia Saudita. In quest’ultimo caso, però, salterebbe del tutto il riavvicinamento tra Teheran e Riad, e quest’ultima si esporrebbe alla reazione diretta dell’Iran.

Non solo, poi c’è il problema degli obbiettivi: tanti, dispersi su un territorio enorme e ben protetti, da una contraerea ridondante (che non è quella siriana), e ospitati spesso in bunker sotterranei e in strutture ricavate dentro le montagne. E ciò vale soprattutto per i potenziali bersagli legati al programma nucleare. È il segreto di pulcinella: Teheran ha abbastanza materiale fissile per approntare qualche ordigno nucleare in pochissimo tempo. Non si può escludere che non lo abbia già fatto. E non dimentichiamo le capacità maturate in questi anni nel campo della missilistica, balistica e da crociera.

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Insomma, stiamo parlando di un’operazione estremamente complessa, con risvolti politici enormi, e con risultati militari che potrebbero non essere quelli desiderati. Israele dovrebbe mettere in campo risorse importanti: un elevato numero di caccia di attacco e di scorta, aerorifornitori, velivoli per la ricognizione e l’attacco elettronico, ecc. Un conto è bombardare Gaza o il Libano, senza contrasto aereo, sul breve e brevissimo raggio, e con rotte “facili” e ben oliate, un conto bombardare l’Iran. L’Aeronautica Israeliana si addestra da anni a questo scenario – con esercitazioni a Cipro, in Grecia, ecc. – ma le incognite e i rischi sono tanti, talmente tanti che crediamo sia indispensabile l’aiuto di qualcuno”, conclude Batacchi.

E quel “qualcuno” a cui fa implicito riferimento il direttore di Rid, è l’alleato americano.

Gli Stati Uniti e i loro alleati ritengono che un attacco con missili o droni da parte dell’Iran o da gruppi filoiraniani a Israele sia ‘imminente’. Lo riporta l’agenzia Bloomberg citando alcune fonti, secondo le quali il potenziale attacco – possibilmente usando missili ad alta precisione – potrebbe avvenire nei prossimi giorni. I target israeliani che potrebbero essere colpiti sono militari o governativi.

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Brett McGurk, inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente, avrebbe chiesto ai ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Iraq di mediare tra Iran e Israele. Secondo l’agenzia di stampa Reuters – ripresa dai media internazionali – lo riferisce una fonte a conoscenza della vicenda, rimasta anonima. McGurk ha chiesto ai ministri degli Esteri di contattare il ministro degli Esteri iraniano e di trasmettere il messaggio che l’Iran deve allentare le tensioni con Israele. Secondo la fonte i ministri degli Esteri sarebbero già in contatto con l’Iran. Il ministro degli Esteri iraniano ha confermato di aver avuto ieri un colloquio con i suoi funzionari dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Qatar e dell’Iraq. Secondo Reuters, la Casa Bianca ha rifiutato di commentare la questione.

Il sostegno degli Stati Uniti alla difesa di Israele contro la minaccia rappresentata dall’Iran e dai suoi proxy è incrollabile. Lo ha detto il presidente Usa, Joe Biden, durante una conferenza stampa congiunta a Washington con il premier giapponese, Fumio Kishida. «Abbiamo ribadito il nostro sostegno ad un cessate il fuoco e ad un accordo per la liberazione degli ostaggi, funzionale al rafforzamento dell’assistenza umanitaria alla popolazione civile nella Striscia di Gaza», ha aggiunto. 

Ciò che interessa Netanyahu è la prima parte della dichiarazione. Per il resto, parole e consigli che scivolano via come l’acqua. 

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Il piromane in azione

Si tratta di Benjamin Netanyahu. Di cosa si tratti lo delinea con dovizia di particolari, su Haaretz, Uri Misgav: “Due decisioni decisamente squilibrate hanno portato Israele sull’orlo della fine del mondo come lo conosciamo. L’assassinio di alti funzionari dell’ambasciata iraniana a Damasco e l’uccisione dei figli e dei nipoti di Ismail Haniyeh sono stati atti di aggressione proattivi, progettati per vanificare qualsiasi possibilità di accordo sugli ostaggi e di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. L’obiettivo era quello di trascinare Israele in una guerra di distruzione totale per prolungare il dominio di Benjamin Netanyahu.

Il disastro del 7 ottobre è molto peggiore di quello del 6 ottobre e la guerra di Netanyahu è molto peggiore della guerra dello Yom Kippur. Nel 1973 Israele subì attacchi simultanei a sorpresa da parte di due eserciti regolari, armati e addestrati dai sovietici. Queste irruppero attraverso le linee nel Sinai e nelle alture del Golan, furono rapidamente bloccate e sconfitte nel giro di due settimane e mezzo.

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Nel 2023, i terroristi di Hamas invasero il Negev occidentale su camion e motociclette, occuparono comunità e avamposti militari, uccisero 1.200 civili e soldati, violentarono, saccheggiarono, bruciarono e portarono 240 ostaggi nella Striscia di Gaza.

Mezzo anno dopo, gli obiettivi della guerra non sono stati raggiunti e la situazione di Israele è solo peggiorata. Hamas non è stato distrutto, la maggior parte degli ostaggi non è stata restituita, alcuni di loro sono morti in prigionia, il nord è stato evacuato e viene bombardato e Israele è più odiato e isolato che mai.

Questa è una catastrofe per Israele. Ma non si tratta di un’altra guerra dello Yom Kippur.

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Dopo la guerra dello Yom Kippur ci si è chiesti: Come è potuto accadere a noi? Il presidente Ephraim Katzir stupì tutti quando dichiarò: “La colpa è di tutti”. Non era vero allora e non è vero oggi.

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il suo governo sono responsabili del disastro e, sotto di loro, lo è l’establishment della sicurezza. I suoi vertici hanno aggravato il crimine quando, nel tempo trascorso dal massacro, non hanno battuto sul tavolo.

I leader delle Forze di Difesa Israeliane, del servizio di sicurezza Shin Bet e del Mossad non sono riusciti a fermare con i loro stessi corpi una lunga guerra senza una strategia diplomatica e obiettivi realistici, il sacrificio degli ostaggi, l’abbandono del nord e la decimazione e l’affamamento della Striscia di Gaza in una misura che renderà Israele un lebbroso.

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Complice della responsabilità e dello sfacelo sono Benny Gantz e i suoi, che hanno detto a se stessi e al loro pubblico che stavano salvando Israele, mentre in realtà hanno salvato Netanyahu.

Come è successo a noi? Una ragione importante è che Israele non è più una democrazia. Si veste come tale solo il giorno delle elezioni. Netanyahu e i suoi collaboratori hanno creato negli ultimi anni un sistema di governo sofisticato e vago.

Una sorta di governo unipersonale che ha tratti tirannici e persino reali, basato sull’indebolimento e l’elusione del gabinetto, della Knesset, del sistema giudiziario e della stampa libera. Un’attenta analisi dei calendari degli impegni del Primo Ministro per il 2023, rivelati la scorsa settimana, lo dimostra chiaramente.

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Ad esempio, sono stati inseriti 26 incontri privati con il Ministro degli Affari Strategici Ron Dermer, rispetto ai soli tre con il Ministro della Difesa Yoav Gallant (uno dei quali dedicato al suo licenziamento).

Dermer è una nomina personale, una figura ombra che non è stata nemmeno eletta alle primarie del partito. Netanyahu si è anche incontrato spesso con il capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Tzachi Hanegbi, e con i suoi consiglieri per i media. Ha costruito per sé un gabinetto ristretto, che rende superflui il gabinetto di sicurezza e il gabinetto completo.

E Netanyahu non ha lavorato molto, contrariamente a quanto si dice. Tra l’inizio di agosto e il 7 ottobre ha dedicato solo 21 giorni interi al lavoro in Israele. Altri 21 giorni sono stati i fine settimana, durante i quali ha lavorato al massimo parzialmente. Ha trascorso 10 giorni a Cipro e negli Stati Uniti, con un orario piuttosto arioso. E ben 17 giorni di vacanza in Israele, compresa una settimana nel lussuoso hotel di Neve Ativ, che si è conclusa con l’invasione di Hamas.

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Prima e dopo il massacro, si è recato al lavoro in ritardo, per lo più dopo essersi truccato i capelli e il viso. Solo in un settore ha dimostrato diligenza: le interviste ai media stranieri. Netanyahu ha rilasciato 33 interviste di questo tipo, contro le quattro concesse ai media locali (Canale 14, Jerusalem Post, Radio Darom).

Cinquant’anni fa, Golda Meir si dimetteva da primo ministro alla luce del rapporto della Commissione Agranat sulla guerra dello Yom Kippur e della rabbia dell’opinione pubblica.

Tutto questo, nonostante ci fossero già state le elezioni generali nel dicembre del 1973, in cui aveva ottenuto una solida maggioranza e un mandato rinnovato. Netanyahu non sogna di dimettersi, né di indire elezioni. Non ha un sostituto ufficiale e le sue condizioni di salute, sia fisiche che mentali, sono nascoste al pubblico. Se non si troverà presto il modo di sfuggire alla sua morsa, la nostra fine sarà come quella delle nazioni che sono state rapite da psicopatici: Rovina”.

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