Jenin, Gerusalemme: cronaca di una escalation annunciata

La strage di Gerusalemme. Cronaca di una escalation annunciata. Annunciata dai propositi bellicosi e colonizzanti del governo di ultra destra israeliano

Jenin, Gerusalemme: cronaca di una escalation annunciata
Scontri a Jenin
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

28 Gennaio 2023 - 19.21


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Il massacro di Jenin. La strage di Gerusalemme. Cronaca di una escalation annunciata. Annunciata dai propositi bellicosi e colonizzanti del governo di ultra destra israeliano. Annunciata dall’emergere di una nuova generazione di “shahid” (martiri) che non rispondono più ai comandi delle fazioni storiche palestinesi: al-Fatah, Hamas il Jihad islamico. in Israele non c’è tregua. Un attacco a colpi di arma da fuoco è avvenuto a Gerusalemme, alle pendici delle mura della Città vecchia nel rione a popolazione mista di Silwan (Città di Davide). Due israeliani, padre e figlio, sono stati feriti da un palestinese di 13 anni residente a Gerusalemme est, poi “neutralizzato” dalla polizia.

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L’emittente Kan lo ha identificato come Muhammad Aliyat. Le persone rimaste coinvolte nell’agguato, avvenuto 14 ore dopo quello condotto presso una sinagoga, sono un ragazzo di 22 anni definito “in condizioni gravi” e un 45enne. Entrambi sono stati portati in ospedale. Anche in questo caso il portavoce del movimento islamico palestinese di Hamas, Hasem Kassem, è intervenuto elogiando l’attacco, una “azione eroica” che rappresenta”una conferma” di come continuerà “la resistenza in tutti i Territori occupati”, oltre a essere “una risposta ai crimini commessi dall’occupante contro il nostro popolo nei luoghi sacri”.

Intanto, dopo l’attentato alla sinagoga di Gerusalemme est, costato la vita a sette persone, la polizia israeliana ha arrestato 42 persone nel quartiere dell’attentatore 21enne ad At-Tur, a Gerusalemme est, tra cui membri della sua famiglia, vicini e conoscenti dell’uomo, per essere interrogati. Inoltre 22 palestinesi affiliati al Jihad Islamico detenuti in un carcere nel nord di Israele sono stati trasferiti in isolamento dopo aver festeggiato per l’attentato.

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L’attentato alla sinagoga è arrivato all’indomani di una notte ad alta tensione dopo i fatti di Jenin con razzi lanciati da Gaza nel sud di Israele e attacchi in risposta dell’aviazione israeliana. La Jihad islamica ha rivendicato il lancio dei 7 razzi partiti dall’enclave palestinese verso le zone ebraiche a ridosso della Striscia, dove erano appena risuonate le sirene di allarme mandando i residenti dei rifugi. La maggior parte dei razzi sono stati intercettati dal sistema di difesa antimissili Iron Dome e gli altri sono caduti in zone aperte. In risposta, l’aviazione israeliana ha colpito, a più riprese, obiettivi di Hamas (considerata responsabile di tutto quello che origina da Gaza) nella Striscia. Tra questi, una “importante” base nel nord e una struttura sotterranea per la costruzione dei razzi nel campo profughi di Maghazi, nella parte centrale di Gaza. Il portavoce del Jihad Tarek a-Salmi da parte sua ha spiegato che si è trattato di un “avvertimento” destinato ad Israele per chiarire che le fazioni armate di Gaza seguono da vicino gli sviluppi in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha ribattuto che le forze di sicurezza israeliane hanno avuto l’ordine di “prepararsi all’azione con una varietà di misure offensive e obiettivi di alta qualità nel caso fosse necessario continuare ad agire”. Un monito ribadito dal premier Benjamin Netanyahu: “Mi impegno di fronte a voi quale primo ministro dell’unico Stato ebraico – ha detto per il Giorno della Memoria – che noi resteremo vigili, forti e non permetteremo mai che la Shoah si ripeta”. “Ancora oggi – ha aggiunto – c’è chi, a giorni alterni, fa appello alla nostra distruzione. Noi però non ci faremo prendere dalla paura e non permetteremo a quei tiranni di intimidirci”. 

Ora toccherà agli Stati Uniti lavorare. Dopo le visite del capo della Cia William Burns e del Consigliere della Sicurezza nazionale Jake Sullivan, ad arrivare lunedì nella regione sarà Antony Blinken. Il segretario di Stato Usa vedrà sia Netanyahu sia il presidente palestinese Abu Mazen, che dopo Jenin ha interrotto il vitale coordinamento di sicurezza con Israele.

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Un’Autorità senza autorità

A darne conto sono le analisi di due delle firme più autorevoli di Haaretz: Jack Khoury e Alon Pinkas.

Scrive Khoury: “Giovedì, dieci palestinesi sono stati uccisi in un raid militare israeliano nella città cisgiordana di Jenin e negli scontri che ne sono seguiti. Poche ore dopo, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha compiuto l’unico passo a disposizione di Ramallah che potesse influenzare la realtà sul campo o generare una risposta internazionale: ha annunciato l’immediata cessazione del coordinamento della sicurezza dell’Autorità Palestinese con Israele.

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Per anni, la leadership palestinese ha chiesto senza successo l’intervento delle istituzioni internazionali, in particolare della Corte penale internazionale. Ma le immagini emerse giovedì dal campo profughi di Jenin vanno oltre tali appelli. Se l’Autorità palestinese avesse adottato lo stesso approccio, avrebbe aggravato la rabbia e la sfiducia del popolo palestinese nei confronti di Abbas e del suo governo. Per l’opinione pubblica palestinese, il coordinamento della sicurezza con Israele è sempre stato visto come un coltello piantato nella schiena. Gli appelli a porvi fine sorgono a ogni occasione e di solito vengono accolti con un rifiuto da parte di Abbas, che una volta ha descritto il rapporto di sicurezza come “sacro”. Anche quando l’Autorità palestinese ha annunciato l’interruzione della cooperazione in seguito a determinate crisi, non è passato molto tempo prima che venisse ripristinata. Questa volta, però, Ramallah non ha avuto scelta e, in ultima analisi, è consapevole quanto l’opinione pubblica palestinese che questo rapporto di sicurezza non è tra due entità uguali con capacità e risorse parallele. Israele, ovviamente, è anche ben consapevole dello squilibrio di potere in questo rapporto e ha reso chiaro il suo punto di vista sulla questione attraverso il suo comportamento nell’ultimo anno. Senza tenere conto del suo “partner”, l’Idf ha condotto un raid dopo l’altro a Nablus, Balata, Jenin e in varie altre città e villaggi della Cisgiordania, compreso il quartiere di Abbas. Le capacità tecnologiche di Israele le consentono di intraprendere ampie operazioni in territorio palestinese senza alcun coordinamento, mentre la controparte è costretta a coordinare anche le questioni più semplici, come i viaggi di Abbas fuori Ramallah. Poiché entrambe le parti conoscono la verità, è difficile per entrambe credere che questa cessazione reggerà davvero – ma la leadership palestinese sa che se riuscirà a rispondere con successo alle richieste del suo popolo, ciò influenzerà tutti gli strati della vita in Cisgiordania.


L’interesse di Washington a mantenere la sopravvivenza dell’Autorità Palestinese è un ulteriore ostacolo al successo della mossa, e questo non è sfuggito ad Abbas. La dichiarazione di giovedì non era diretta solo a Israele, ma anche alla comunità internazionale e all’amministrazione Biden in particolare. È stata rilasciata poco prima della prevista visita del Segretario di Stato americano Antony Blinken in Israele e in Cisgiordania e due giorni dopo un incontro tra il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Re Abdullah II di Giordania ad Amman. Per Abbas, la mossa e il suo tempismo sono un’opportunità per mettere la questione palestinese all’ordine del giorno di tutti e testare la volontà dell’amministrazione Biden di intervenire a favore del popolo palestinese. La prossima settimana determinerà il destino del passo. Se riuscirà in qualche modo a rallentare o fermare il deterioramento della situazione o ad attirare l’attenzione degli Stati Uniti e della comunità internazionale, si dimostrerà significativo. Il primo banco di prova sarà venerdì, dopo le funzioni di preghiera alla Moschea di Al-Aqsa sul Monte del Tempio a Gerusalemme, dopo che nelle prime ore del giorno sono stati lanciati razzi in Israele dalla Striscia di Gaza, provocando un attacco dell’Idf in risposta”.

L’analisi di Khoury precede di poche ore la strage alla sinagoga.
Obiettivo strategico

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Così lo declina Alon Pinkas sul quotidiano progressista di Tel Aviv: “Uno dei paradossi più eclatanti che il conflitto israelo-palestinese produce periodicamente è la decisione israeliana di imporre sanzioni all’Autorità palestinese. L’ultima è apparentemente un’azione punitiva, in risposta alla petizione presentata dai palestinesi (con successo) all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per chiedere alla Corte internazionale di giustizia di esprimere un parere sulle conseguenze legali dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi.
Perché si tratta di un paradosso? Perché, chiaramente, le azioni di Israele stanno di fatto scrivendo la relazione della Corte Internazionale di Giustizia per loro, convalidando essenzialmente la richiesta palestinese di un’occupazione de facto che potrebbe diventare un’annessione de jure.


Ma c’è un paradosso più grande, con implicazioni molto più ampie e durature: attraverso azioni persistenti, Israele sta indebolendo l’Autorità palestinese fino a portarla all’insolvenza e all’implosione, un evento che trasformerebbe l’occupazione parziale in occupazione totale. Quanto è intelligente e preveggente? Molto, se si guarda all’attuale coalizione di governo in Israele. Il gabinetto israeliano ha deciso venerdì scorso di trattenere 139 milioni di shekel (circa 40 milioni di dollari) dall’Autorità palestinese, di sospendere la libertà di movimento per gli alti funzionari, di trattenere i fondi appartenenti alle famiglie dei terroristi e di adottare altre misure.
L’approccio palestinese alle Nazioni Unite può aver infastidito e frustrato Israele, e la decisione dell’Onu è stata inficiata dalla solita ipocrisia di facciata. Ma si è trattato di una mossa diplomatica e legale, né di terrorismo né di lotta armata. È qualcosa che Israele dovrebbe essere in grado e pronto ad affrontare diplomaticamente. Dopotutto, se non c’è occupazione o se si tratta di una condizione temporanea imposta a Israele dalla realtà e dall’intransigenza palestinese, non dovrebbero esserci problemi a contestarla con argomentazioni solide. Se non fosse che Israele potrebbe aver esaurito tali argomenti. Ventinove anni dopo l’istituzione dell’Autorità palestinese in virtù degli Accordi di Oslo e 28 anni dopo la firma del Protocollo di Parigi che regola le relazioni economiche tra Israele e la neonata Autorità palestinese (allora considerata una fase preambolo di uno Stato in fieri), non esiste un’economia palestinese indipendente. A tutti gli effetti, Israele e i territori palestinesi sono un’unica unità economica, con lo spaventoso spettro di poter diventare un’unica unità politica.


Sebbene Israele non controlli il bilancio o gli stanziamenti palestinesi, esiste una moneta – lo shekel israeliano – un sistema doganale e un regime di commercio estero. Il 55% delle importazioni palestinesi proviene da Israele, mentre l’80% delle scarse esportazioni palestinesi è destinato a Israele. L’intero volume del commercio palestinese passa attraverso il sistema israeliano: porti, aeroporti e punti di confine sia tra Israele e l’Autorità palestinese, sia tra Israele e Giordania ed Egitto.

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Circa 80.000 palestinesi sono impiegati nei cantieri israeliani e altri 15.000 nei servizi. Di fatto, non esiste un’economia palestinese indipendente da quella israeliana. Ma l’intreccio dell’economia non dovrebbe nascondere gli enormi divari e le disuguaglianze: Il PIL pro capite palestinese si aggira tra i 3.000 e i 3.600 dollari (la cifra varia), mentre il PIL pro capite israeliano è 15 volte più grande, tra i 50.000 e i 52.000 dollari.
Il bilancio annuale dell’Autorità palestinese è di 5,7 miliardi di dollari, ma la grande storia qui non è economica o di numeri. Si tratta di una mega-politica, con ripercussioni di vasta portata sulla sicurezza. Fin dalla sua nascita, la principale fonte di reddito dell’Autorità palestinese è stata rappresentata dalle donazioni straniere: un totale di 20 miliardi di dollari dalla metà degli anni ’90. Circa il 65% del bilancio attuale è costituito da donazioni di denaro. Circa il 65% del bilancio attuale è costituito da tasse che Israele raccoglie e rimborsa all’AP. Gli anni del Covid hanno visto un calo delle donazioni straniere annuali, da 1 miliardo di dollari a circa 190 milioni di dollari. È difficile che le donazioni europee o saudite tornino ai livelli precedenti alla pandemia. L’Autorità palestinese, il più grande datore di lavoro dei territori con 140.000 lavoratori, pagava già solo il 75% del salario mensile. Ora sta pagando meno del 50%, cercando di evitare licenziamenti di massa.


Una sanzione israeliana di 40 milioni di dollari non porterà alla rovina finanziaria. Tuttavia, insieme alle repressioni militari, alle dichiarazioni enfatiche sulle intenzioni di annessione, all’impedimento della costruzione palestinese nell’Area C (che comprende il 60% della Cisgiordania) e all’assenza di un “processo di pace” o di un qualsiasi rivestimento diplomatico, l’Autorità palestinese si sta avvicinando non solo alla rovina finanziaria e alla bancarotta, ma anche alla delegittimazione politica.


Per alcuni anni, gli ambienti della sicurezza e della politica israeliani hanno ipotizzato uno scenario apocalittico in cui l’Autorità palestinese, in un atto di sfida, si dissolva intenzionalmente, chieda l’annessione a Israele in un unico Stato binazionale e rivendichi diritti e affrancamento politico. Israele considera questo scenario come una possibilità minima, ma improbabile e irrealizzabile. Tuttavia, un’implosione dell’Autorità palestinese produrrà gli stessi risultati: un ritorno alla piena occupazione, comunque Israele scelga di definirla.

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Si comincia con l'”internazionalizzazione” del conflitto, offrendo una via diversa a un conflitto irresolubile e insostenibile che ha raggiunto un’impasse politica. Questo è il senso dell’appello alle Nazioni Unite e delle due indagini separate presso la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Una volta poste le basi legali, mentre il mondo è ancora indifferente, le tensioni economiche e le pressioni politiche e militari israeliane mineranno efficacemente l’Autorità palestinese fino a disintegrarla. Il risultato inevitabile sarebbe un ritorno ai giorni pre-Oslo, dal 1967 al 1993, di pieno controllo, responsabilità e, sì, occupazione israeliana. Il nuovo governo israeliano esclude qualsiasi possibilità di soluzione a due Stati o di un processo politico significativo e si impegna a costruire altri insediamenti, ad aumentare l’interfaccia militare con la popolazione palestinese, ad annettere la maggior parte dell’Area C e a diminuire significativamente la cooperazione con l’Autorità palestinese, che considera un’entità terroristica.


Questa, ovviamente, è una politica legittima. Può essere avventata, miope e politicamente e demograficamente disastrosa, ma è perfettamente legittima. Dopo tutto, sono stati eletti sulla base di questi principi. Quindi, perché questo mascheramento e questo doppio senso? Accettatelo. Lasciate che l’Autorità Palestinese si sgretoli e affermate la sovranità. A meno che, ovviamente, non abbiate troppa paura di farlo”.


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