L'Armenia ora diffida della Russia: paura per il "patto caucasico" tra Putin e Erdogan

Tra Armenia e Russia, alleati all'interno dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva c'è gelo: Erevan ritiene che (in presenza dell'aggressione all'Ucraina) la presenza dei militari russi non garantisca la sicurezza. E inoltre...

L'Armenia ora diffida della Russia: paura per il "patto caucasico" tra Putin e Erdogan
Il premier armeno Nikol Pashinyan con Vladimir Putin
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Gennaio 2023 - 19.12


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La critica è blanda, ma non poteva essere altrimenti. Perché in gioco c’è il futuro degli armeni del Nagorno-Karabakh e forse anche di più. La grande paura, che sottende a quelle parole, è che gli armeni vengano sacrificati sull’altare di un patto di spartizione delle aree d’influenza nel Caucaso tra lo zar di Mosca (Vladimir Putin) e il sultano di Ankara (Recep Tayyp Erdogan).

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“Nessuno nega che i peacekeeper russi oggi garantiscano la sicurezza dei residenti del Nagorno-Karabakh, ma sappiamo anche di episodi in cui gli azeri hanno violato gli accordi nella zona di responsabilità delle forze di pace, ad esempio a Parukh, ma non si è vista alcuna reazione da parte loro”: lo ha dichiarato il premier armeno Nikol Pashinyan, ripreso dalla Tass. “Non stiamo criticando le forze di pace russe, ma esprimiamo la nostra preoccupazione per le loro attività e queste preoccupazioni hanno radici profonde”, ha affermato Pashinyan secondo l’agenzia di stampa statale russa. Il governo armeno accusa l’Azerbaigian di bloccare una strada che collega l’Armenia al Nagorno-Karabakh. 

Ma fuori dal “diplomatichese” è sempre più chiaro che le relazioni tra la Federazione Russa e l’Armenia siano se non in crisi di certo in una fase tumultuosa.  L’Armenia ritiene «inopportuno» svolgere quest’anno sul proprio territorio esercitazioni dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), a guida russa. Lo ha annunciato lo stesso Pashinyan, ripreso dai media di Mosca. Il ministero della Difesa russo aveva precedentemente dichiarato che proprie unità avrebbero partecipato alle manovre pianificate per la fine del 2023. La decisione giunge in un clima di tensione, dopo che Yerevan ha criticato le forze russe per non aver garantito il libero transito lungo un corridoio che collega l’Armenia alla regione contesa del Nagorno-Karabakh.

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Nell’autunno del 2020 ci sono stati sanguinosi combattimenti tra armeni e azeri nel Nagorno-Karabakh, dove si stima che abbiano perso la vita oltre 6.500 persone. Un accordo di cessate il fuoco tra Armenia e Azerbaigian è stato siglato nel novembre del 2020 con la mediazione di Mosca. In base al documento, l’Azerbaigian ha mantenuto i territori conquistati e l’Armenia gli ha ceduto anche altre zone del conteso Nagorno-Karabakh e dei territori limitrofi. Sempre sulla base dell’accordo, inoltre, la Russia ha inviato circa 2.000 soldati nel Nagorno-Karabakh, con l’obiettivo ufficiale di far rispettare la tregua. A metà settembre si sono registrati altri combattimenti alla frontiera, nei quali si stima che siano morte oltre 280 persone e che i due Stati si accusano a vicenda di aver provocato il conflitto.
Partita a due

 Per Tigrane Yégavian, esperto di geopolitica, l’Azerbaijan e il suo alleato turco vogliono disintegrare lo stato armeno. Scrive il Figaro (30/12). In Italia l’intervista è stata tradotta e pubblicata da Il Foglio.

Le Figaro – Il blocco da parte degli azeri del corridoio stradale che lega l’Artsakh/Nagorno Karabakh   e l’Armenia ha mostrato che il conflitto, congelato dal 2020, non era risolto. Cosa vogliono rispettivamente gli azeri e gli armeni dell’Artsakh?

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Tigrane Yégavian : La priorità degli azeri è mettere fine alla presenza armena nell’Artsakh. Il blocco del corridoio di Lachin e l’interruzione provvisoria delle forniture di gas puntano a spingere gli abitanti dell’Artsakh ad abbandonare quelle terre, e, di riflesso, a porre fine alla presenza russa, il cui mandato si giustifica con il mantenimento di una presenza armena su quel territorio. Baku non è soddisfatta della situazione ereditata dal cessate-il-fuoco del novembre 2020, perché i due obiettivi non sono stati raggiunti. L’Artsakh non è ancora stato annientato e l’Armenia si rifiuta di cedere un corridoio extraterritoriale transitante dalla città di Meghri, che porterebbe a compimento la giunzione panturchista tra l’Azerbaijan, la sua enclave del Nakhchivan e per estensione la Turchia. Il Nagorno-Karabakh è stato certamente oggetto di una grande erosione (2900 chilometri quadrati circa), ma si mantiene ancora attorno all’asse Stepanakert-Martakert. Inoltre, la maggior parte delle popolazioni che si sono mosse in Armenia durante la guerra è ritornata nell’Artsakh provocando un boom di costruzioni di nuovi edifici. Esiste ancora un governo del Nagorno-Karabakh dallo statuto incerto, ma di fatto sotto protettorato russo, presenza che gli azeri considerano come una forza di occupazione. Infine gli azeri approfittano del nuovo rapporto di forza che è a loro favorevole e dell’indebolimento della Russia per costringere l’Armenia a cedere questo famoso corridoio nel sud. Dal canto loro, gli armeni dell’Artsakh non hanno rinunciato al loro sogno di essere un giorno riunificati alla madre patria: ma la loro principale battaglia resta quella del diritto all’esistenza su una terra in cui abitano senza discontinuità da tremila anni a questa parte. Con il blocco del corridoio di Lachin, il regime di Aliyev esercita una forma di terrorismo di stato e testa nuovamente la comunità internazionale stabilendo un parallelo con il corridoio di Meghri, come se il Nakhchivan collegato alla Turchia via terra e all’Azerbaijan per via aerea (attraverso lo spazio aereo armeno!) fosse nella stessa situazione dell’Artsakh. Ilham Aliyev non ha paura del ridicolo mandando un contingente di sicari travestiti da attivisti per l’ambiente quando sappiamo che la società azera non ha praticamente più i mezzi per farsi sentire. E che dire dei danni ambientali causati dagli incendi delle foreste del Nagorno-Karabakh causati dai bombardamenti al fosforo bianco nel corso dell’ultima guerra del 2020? 

Lei ha detto a più riprese che non è solo l’Artsakh a essere minacciato, ma anche l’Armenia. Non è un po’ esagerato? Pensa veramente che l’Armenia possa “sparire”?

Se tiene conto dei numeri ridotti delle loro popolazioni, l’Armenia e l’Artsakh stanno già affrontando una minaccia esistenziale. Gli eventi avvenuti dal 2020 ad oggi sono lì per ricordare che il genocidio del 1915 continua a fuoco lento, seguendo modus operandi diversi: ingegneria demografica, blocco energetico, atti terroristici, provocazioni quotidiane… l’Azerbaijan e il suo alleato turco fanno di tutto per mettere fine alla presenza armena nell’Artsakh, che alcuni considerano come lo scudo dell’Armenia. La vasta offensiva militare scatenata da Baku lo scorso settembre ha dimostrato che senza il Nagorno-Karabakh, l’Armenia è priva di profondità strategica e incapace di difendere le sue frontiere seghettate, ereditate dalle erosioni avvenute sotto Stalin. La stretta striscia montagnosa del Syunik è troppo vulnerabile e sottomessa a provocazioni quotidiane. La sua popolazione è conosciuta per la sua tenacia e per il suo carattere indomito, non cede al panico, ma si sente abbandonata da tutti. Se i giovani del Syunik se ne andassero, ci sarebbero delle forti probabilità che l’Armenia venga tagliata fuori dall’Iran e totalmente asfissiata.

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Fin qui l’intervista.

Una storia di conflitti

Ne scrive Fabrizio Vielmini su Il Manifesto del 16 dicembre 2022: 

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“Dopo il crollo dell’Urss, la regione è rimasta per 26 anni separata de facto da Baku. Nel frattempo l’Azerbaigian è divenuto una potenza petrolifera in grado di esercitare una crescente pressione militare sui vicini, fino a debellarli decisamente a seguito di una guerra durata 44 giorni nell’autunno 2020.

La pulizia etnica degli armeni del Karabakh è stata evitata dall’intervento della Russia che ha dispiegato in Karabakh una forza d’interposizione di 2000 uomini. Per trent’anni Mosca ha approfittato del conflitto armeno-azero per fare dell’Armenia la propria principale base in direzione del Medio Oriente. Dopo il dispiegamento del 2020, le posizioni russe sembravano destinate a rafforzarsi. Il conflitto in Ucraina ha però rimescolato le carte.

Con la Russia in difficoltà, l’Azerbaigian ha ripreso l’iniziativa. Dopo uno stillicidio di scontri, a metà settembre gli azeri hanno scatenato un’offensiva che li ha portati a conquistare parti del territorio armeno falciando oltre 200 militari nemici. Questa settimana si è aggiunta la nuova tattica delle «proteste civili» ad ostruire il cordone ombelicale che connette gli armeni del Karabakh alla madrepatria, il cosiddetto Corridoio di Lachin.

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Con ogni evidenza, Baku vuole chiudere la partita del Karabakh forzando gli armeni a sottoscrivere un accordo di pace che sancisca la definitiva rinuncia ad ogni pretesa sulle terre riconquistate. In secondo luogo, l’Azerbaigian vuole che l’Armenia acconsenta all’apertura sul proprio territorio di un secondo corridoio che lo colleghi all’exclave del Nakichevan e tramite questa alla Turchia, alleata e nume tutelare del regime azero della famiglia Aliev.

Il tutto crea una situazione estremamente pericolosa per gli interessi strategici russi nel Caucaso. Qui, come nelle altre marche di confine del defunto impero sovietico, la Russia veda la propria potenza erodersi in seguito all’avventata invasione dell’Ucraina.

La presenza della Turchia di Erdogan dietro gli azeri costringe i russi a subire le mosse del tandem dei due paesi turcofoni. Il comportamento del contingente russo in Karabakh, privo di regole d’ingaggio precise e quindi finora incapace a reagire ai gruppi civili azeri e a rimuovere il blocco, esemplifica l’impasse in cui Mosca si è venuta a trovare nella regione.

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Priva di garanzie e con l’acqua alla gola (la popolazione armena è meno di un terzo di quella azera, il suo Pil, un decimo), Erevan è impegnata in una frenetica ricerca di alternative ai russi. In tale situazione cercano d’inserirsi statunitensi ed europei, il cui braccio di ferro con Mosca si allarga a tutte le repubbliche ex-sovietiche.

Bruxelles, che aveva vissuto come uno smacco l’adesione di Erevan all’Unione eurasiatica di Mosca nel 2013, moltiplica le iniziative di dialogo fra i due belligeranti ed ha dispiegato una missione di 40 osservatori dal lato armeno della linea del fronte. Tuttavia l’Europa è anche più che mai interessata al gas ed al petrolio dell’Azerbaigian e dunque è difficile che possa fare la differenza su questo teatro, al pari di tutte le altre iniziative Ue nello spazio post-sovietico.

Anche gli iraniani, preoccupati come i russi dal consolidamento dell’asse turco fra Turchia ed Azerbaigian, stanno cercando di rafforzare le proprie posizioni sulle incertezze armene. Al vertice dei paesi turcofoni di Samarcanda di novembre, il presidente Aliev ha accusato l’Iran di opprimere la sua popolazione azera (il 20% dei cittadini iraniani).

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Dal canto suo, Baku persegue il clero pro-iraniano sciita, confessione a cui fa riferimento l’85% della popolazione dell’Azerbaigian. Un ulteriore elemento di tensione deriva dal fatto che, oltre che ai turchi, l’Azerbaigian ha permesso anche agli israeliani di dislocare infrastrutture militari sul proprio territorio.

La molteplicità delle linee d’attrito  – conclude Vielmini – continua a fare del Caucaso un campo minato geopolitico”.

Annota Aldo Ferrari, Ispi Head, Russia, Caucaso e Asia Centrale:

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“Se quella che il Cremlino definisce ‘operazione militare speciale’ in Ucraina fosse stata gestita meglio e con successo dalle truppe russe ora forse non ci troveremmo ad osservare il riaccendersi di un conflitto potenzialmente destabilizzate per tutto il Caucaso centrale. Invece, l’evidente difficoltà dei russi sul fronte nord-occidentale dell’Ucraina ha finito col minare il ruolo egemonico della Russia nel Caucaso meridionale: Mosca, con ogni probabilità, non potrà intervenire in difesa dell’Armenia e l’Azerbaigian  ha colto l’attimo”.

“La bonarietà che contraddistingue i rapporti tra Putin ed Erdoğan non è cambiata nonostante le guerre in Siria, in Caucaso e in Libia, in cui Turchia e Russia sono riuscite a collaborare nonostante sostenessero schieramenti opposti. Questa dinamica si è mantenuta anche in Ucraina.[…] La politica turca nei confronti della Russia non cambierebbe radicalmente nemmeno se Erdoğan perdesse il potere. Nessun partito politico turco, infatti, vorrebbe uno scontro con Mosca. Eppure Putin sa bene che non sarà facile ricreare un rapporto come quello che ha plasmato con Erdoğan negli ultimi vent’anni. “Conosce le sue debolezze e il suo modo di fare politica”, spiega Mitat Çelikpala, professore dell’università Kadir Has di Istanbul. Per questo motivo Putin potrebbe decidere di dare una mano al suo amico, magari con uno sconto sul gas, un’iniezione di contante o il via libera per una nuova offensiva turca contro i ribelli curdi in Siria”.

Sono alcuni passaggi di un lungo articolo-analisi di The Economist (tradotto e pubblicato in Italia da Internazionale) sulle relazioni tra Putin ed Erdogan. Una mano che si potrebbe estendere ora anche al Caucaso meridionale. 

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