L'Afghanistan talebano: Ong senza donne mentre il mondo chiude gli occhi

L’Afghanistan in mano a un regime oscurantista, misogino. L’Afghanistan talebano dove per le donne che rivendicano autonomia, dignità, diritto allo studio e al lavoro,  non c’è posto

L'Afghanistan talebano: Ong senza donne mentre il mondo chiude gli occhi
Donne in Afghanistan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Dicembre 2022 - 14.34


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L’Afghanistan abbandonato. L’Afghanistan tradito. L’Afghanistan dimenticato. L’Afghanistan in mano a un regime oscurantista, misogino. L’Afghanistan talebano dove per le donne che rivendicano autonomia, dignità, diritto allo studio e al lavoro,  non c’è posto. Se non come appendice dell’uomo. E per quante, eroicamente, si ribellano la sentenza è il carcere o la morte per lapidazione. 

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Fuori dalle Ong

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, si unisce ai responsabili di altre organizzazioni umanitarie nel chiedere alle autorità de facto dell’Afghanistan di revocare la direttiva che limita la possibilità per le donne a lavorare con le organizzazioni non governative.

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“Impedire alle donne di svolgere attività umanitarie è una grave negazione della loro umanità. Non farà altro che provocare ulteriori sofferenze e disagi a tutti gli afghani, soprattutto alle donne e ai bambini. Questo divieto deve essere revocato”, ha dichiarato Grandi.

Più di 500 donne lavorano con le 19 Ong partner dell’Unhcr in Afghanistan, assistendo quasi un milione di donne e ragazze. Le ultime restrizioni costringeranno l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati a interrompere temporaneamente le attività fondamentali a sostegno della popolazione afghana, in particolare di donne e bambini.

Oltre a fornire aiuti umanitari fondamentali, il personale femminile è in prima linea nel trovare soluzioni per gli afghani colpiti da quattro decenni di conflitti e persecuzioni, tra cui milioni di rifugiati e sfollati interni. Circa 3,4 milioni di persone sono attualmente sfollate all’interno dell’Afghanistan e altri 2,9 milioni sono sfollati fuori dal Paese come rifugiati.

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“Limitare fortemente i diritti delle donne afghane e il loro coinvolgimento negli sforzi umanitari e di sviluppo rischia di spingere altre famiglie a fuggire oltre confine come rifugiati. Inoltre, diminuisce le prospettive di soluzioni a lungo termine per coloro che sono già sfollati, come la decisione di tornare volontariamente a casa per ricostruire le proprie vite”, ha dichiarato Grandi.

In tutte le 34 province dell’Afghanistan, le donne hanno guidato e partecipato attivamente alla risposta umanitaria, permettendo all’Unhcr di raggiungere oltre sei milioni di afghani dall’agosto 2021. Con tante altre restrizioni imposte alle donne, questo nuovo decreto avrà un impatto devastante sulla popolazione afghana, che si stima sia composta da 40 milioni di persone.

Dopo il divieto imposto dai talebani alle donne che lavorano per gruppi non governativi in Afghanistan, alcune donne dello staff affermano che sono determinate e cercheranno di continuare il loro lavoro. Il divieto ha spinto le agenzie umanitarie internazionali a sospendere le operazioni nel Paese e ha costretto decine di gruppi più piccoli a interrompere o ridurre il proprio lavoro. Ciò aumenta la possibilità che milioni di afghani rimarranno senza aiuti essenziali, inclusi cibo, istruzione e assistenza sanitaria, questo inverno. L’agenzia che coordina lo sviluppo e il lavoro di soccorso in Afghanistan stima che molti dei suoi 183 membri nazionali e internazionali abbiano sospeso, interrotto o ridotto le loro attività e servizi umanitari dall’entrata in vigore dell’ordine.

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 Stop ai programmi

Le Nazioni Unite hanno annunciato di aver temporaneamente sospeso diversi programmi di aiuto in Afghanistan a causa della mancanza di personale femminile; la decisione dopo che i talebani hanno posto il divieto alle donne di lavorare nelle organizzazioni non governative, il che ha già spinto diverse Ong a lasciare il Paese in segno di protesta. “Alcuni programmi delicati hanno già dovuto essere temporaneamente interrotti per mancanza di personale femminile”, si legge in un comunicato firmato dai responsabili delle principali agenzie umanitarie dell’Onu e da altre Ong presenti in Afghanistan. E questo perché le donne sono “fondamentali in tutti gli aspetti della risposta umanitaria in Afghanistan”, poiché  possono accedere a “popolazioni che i loro colleghi uomini non possono raggiungere”, quindi la loro partecipazione ai programmi di aiuto “non è negoziabile e deve continuare”. I responsabili dei programmi umanitari in Afghanistan si sono rammaricati del fatto il bando dei talebani “abbia conseguenze immediate” in un Paese dove più di 28 milioni di persone hanno bisogno di assistenza; ma hanno anche assicurato che continueranno a coinvolgere le autorità nei loro programmi, pur senza ignorare il limite di non poter contare sulle donne nei loro team di lavoro. “Cercheremo di continuare le attività salvavita urgenti a meno che non vengano impedite, e nel frattempo valuteremo meglio la portata, i parametri e le conseguenze di questo ordine per le persone che assistiamo”.

 Da quando sabato scorso i talebani hanno vietato alle donne di lavorare nelle Ong e nelle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, diverse organizzazioni -come Save the Children, Care, il Consiglio norvegese per i rifugiati e l’International Rescue Committee (Irc)- hanno sospeso i loro programmi in Afghanistan. Nel frattempo, molte altre organizzazioni rimangono indecise, in attesa che l’Afghan Aid Agencies Coordinating Body, composto da un centinaio di organizzazioni afgane e 83 internazionali, prenda una decisione. Il divieto da parte dei fondamentalisti è arrivato pochi giorni dopo che i talebani avevano escluso le donne dall’università, estendendo il divieto all’istruzione secondaria femminile imposto non appena sono saliti al potere nell’agosto 2021.

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 Anche prima che i talebani vietassero alle donne afgane di lavorare in gruppi non governativi, le loro forze hanno visitato più volte l’ufficio di un’organizzazione locale nella capitale Kabul per verificare che il personale femminile rispettasse le regole sui codici di abbigliamento e sulla segregazione di genere. Le donne dell’ufficio erano state molto attente, sperando di evitare problemi con i talebani. Indossavano abiti più lunghi e il velo islamico e rimanevano separati dai colleghi maschi nello spazio di lavoro e durante i pasti, ha detto all’Associated Press una dipendente di una Ong. “Abbiamo persino cambiato gli orari di arrivo e partenza del nostro ufficio perché non volevamo essere seguiti” dai talebani, ha detto, parlando a condizione che il suo nome, titolo di lavoro e il nome della sua organizzazione non vengano usati per paura di rappresaglie . Ma non è stato sufficiente. Sabato, le autorità talebane hanno annunciato l’esclusione delle donne dalle ONG, presumibilmente perché non indossavano correttamente il velo o l’hijab.

 La mossa ha spinto le agenzie umanitarie internazionali a sospendere le operazioni in Afghanistan, aumentando la possibilità che milioni di persone rimangano senza cibo, istruzione, assistenza sanitaria e altri servizi critici durante i rigidi mesi invernali. L’agenzia che coordina lo sviluppo e il lavoro di soccorso in Afghanistan, ACbar, stima che molti dei suoi 183 membri nazionali e internazionali abbiano sospeso, interrotto o ridotto le loro attività e servizi umanitari dall’entrata in vigore dell’ordine. Questi membri impiegano complessivamente più di 55.000 cittadini afgani, di cui circa un terzo sono donne. L’agenzia afferma che il personale femminile svolge un ruolo essenziale nelle attività delle Ong, fornendo servizi umanitari nel rispetto delle usanze tradizionali e religiose. Tuttavia, le donne in alcune organizzazioni locali stanno cercando di continuare a fornire servizi il più possibile. Un’operatrice della Ong, che ha due lauree magistrali e tre decenni di esperienza professionale nel settore dell’istruzione afghana, voleva andare in ufficio un’ultima volta per ritirare il suo laptop ma è stata avvertita dal suo direttore che c’erano dei talebani armati fuori dall’edificio. È determinata a continuare ad aiutare gli altri, anche se ora lavora da casa.

 “È mia responsabilità prendere la mano di donne e ragazze e fornire loro servizi”, ha detto. “Lavorerò fino alla fine della mia vita. Per questo non lascio l’Afghanistan. Sarei potuto andare, ma altre donne si rivolgono a me per chiedere aiuto. Se falliamo, tutte le donne falliscono”. La sua Ong fornisce consulenza alle donne in materia di imprenditorialità, assistenza sanitaria, consulenza sociale e istruzione. Le sue attività si svolgono di persona nella capitale, Kabul, e in un’altra provincia. Ha aiutato 25.000 donne negli ultimi sei mesi e spera di aiutarne altre 50.000 nei prossimi mesi, anche se non è chiaro come lo farà, dato che la maggior parte del suo personale permanente e temporaneo è costituito da donne.

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La “resa” di Save The Children

“Con grande rammarico abbiamo dovuto sospendere i nostri programmi in Afghanistan in seguito all’annuncio dei Talebani di vietare alle donne il lavoro nelle Ong. Non possiamo e non vogliamo operare senza la piena partecipazione e le garanzie di sicurezza per il nostro personale femminile in prima linea e in ufficio.
Uno dei nostri portavoce ha dichiarato: “Il personale femminile è al centro del lavoro di Save the Children in Afghanistan. Sono i nostri medici, infermiere, ostetriche, sono le nostre consulenti, operatrici e insegnanti, sono le nostre esperte di finanza, sicurezza e risorse umane.


“Ma soprattutto, il nostro personale femminile ci permette di accedere a donne e bambini. La maggior parte delle donne in Afghanistan può vedere solo operatori sanitari e operatori sanitari di sesso femminile, e le bambine possono essere istruite solo da insegnanti di sesso femminile. Se il personale femminile viene eliminato dalla forza lavoro delle Ong in Afghanistan, non saremo più in grado di fornire servizi salvavita a milioni di donne e bambini. Senza di loro, non possiamo operare in sicurezza”.
Il divieto di assunzione di personale femminile avrà un impatto diretto sull’assistenza salvavita che forniamo quotidianamente, ecco perché chiediamo un’immediata inversione di rotta rispetto a questa decisione”. 

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Una storia di tradimenti 

Scrive, con grande onestà intellettuale e acutezza di analisi, Fabio Carminati su Avvenire del 21 dicembre: “Con il turbante calcato in testa e il kalashnikov di traverso sulla schiena per tanti i taleban sono solo sono l’immagine perfetta di ciò che sono: anacronistici, fuori dalla storia o meglio rimasti dal lato sbagliato. Ma sono al potere e governano, senza risponderne a nessuno e soprattutto fuori dal cono di luce dei riflettori. Che si rianimano solo quando le accelerazioni sono palesi: come il divieto alle donne di sedere sui banchi delle università. Provvedimento che ha solo seguito il blocco delle immatricolazioni mesi fa. Niente di nuovo sotto il sole dell’Oriente e del comportamento per converso dell’Occidente. «Una mossa unica al mondo che viola i diritti e le aspirazioni degli afghani e priva l’Afghanistan del contributo delle donne alla società. La persecuzione di genere è un crimine contro l’umanità», come ha tuonato la Ue. Nell’agosto di due anni fa le parole era state le stesse, proprio mentre l’ultimo Globemaster americano si sollevava dalla pista di Kabul. E’ giusto accusare i taleban di «barbarie»? Non ci sono dubbi. 

Ma è altrettanto giusto addossare a loro tutta la colpa, o meglio trasformarli nell’unica ragione di tutto questo? Nel solo capro espiatorio? Ecco, qui i dubbi crescono.

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In vent’anni e pochi mesi, solo gli americani hanno speso 2.200 miliardi di dollari per fare guerra al terrore, per dare la caccia a quel Benladen che i pachistani nascondevano all’Amministrazione americana proprio in bella vista: a casa loro. Come italiani abbiamo partecipato alle missioni di «pace» e abbiamo perso uomini, mandato gli alpini nel loro terreno ideale di azione: il deserto. Dover peraltro hanno dimostrato come gli altri uomini e donne della missione di avere qualcosa di molti più importante della penna sul cappello, del basco o dell’elmetto: il cuore. E ostinatamente difeso i nostri blindati come indistruttibili agli Ied, quegli ordigni improvvisati che hanno ucciso anche i ragazzi arrivati dall’Italia. In vent’anni Washington ha creato una serie di buchi neri che ha chiamato prigioni e costruito un’intelligence che solo una settimana prima che Kabul cadesse giurava che era «remota» la possibilità che ciò accadesse entro mesi. 

In mezzo a questo le donne di Kabul erano lì. Come lo sono oggi. Oggi nascoste sotto il burqa, chiuse in casa e private di ogni liberà. Ieri libere, ma con la possibilità di contare pari a una cifra percentuale che mai è riuscita a raggiungere la doppia cifra. E’ forse anche questo che brucia dopo la fuga precipitosa da Kabul: non essere stati in grado di costruire una rete di protezione, inculcare gli anticorpi che potessero servire a difendere la società afghana dal buio che aveva già conosciuto prima del 2001. Senza ingerenze culturali, senza costrizioni contro i costumi. Semplicemente concedendo la possibilità alla popolazione e alle donne in particolare di scegliere. 

E qui che l’Occidente ha fallito, hanno detto in tanti. Che è tornato con una «missione incompiuta» che tanto stride con quel «mission accomplished» pronunciato dal presidente George W. Bush sul ponte della portaerei Abraham Lincoln il primo maggio del 2003. Tornare indietro non si può, riavvolgere il nastro è impossibile. Parlarne, scriverne della condizione di queste donne è sicuramente importante. Non commettere lo stesso errore e rimediarci, magari non facendosi rapire dai fatti vicini e guardando invece dal verso giusto con quel cannocchiale che spesso viene impugnato al contrario, da noi stessi che scriviamo. Ma facendolo giorno, non solo quando fa notizia. Anche se ciò mette «fuorimercato». ​

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Così Carminati.

Afghanistan, un popolo tradito. Vittima del fallimento dell’Occidente. Venti anni di guerra per poi riconsegnare gli afghani e soprattutto le afghane a dei fanatici sessuofobici e oscurantisti. E questo nel silenzio assordante della Comunità internazionale.

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