In Siria è partita a due tra Erdogan e Putin

Tra Putin e Erdogan è una partita a due quella che si sta giocando nel disastrato quanto nevralgico paese mediorientale.

In Siria è partita a due tra Erdogan e Putin
Putin e Erdogan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

13 Dicembre 2022 - 12.29


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Siria, le mire del sultano e la pax dello zar. E’ una partita a due quella che si sta giocando nel disastrato quanto  nevralgico paese mediorientale.

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La partita e le sue variabili

Ne scrive su Haaretz uno dei più autorevoli analisti israeliani di geopolitica: Zvi Bar’el 

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“Sebbene la Turchia – annota Bar’el – abbia già stabilito una presenza militare in Siria, da quando è avvenuto l’attacco terroristico a Istanbul il 14 novembre, in cui sono state uccise sei persone e ferite più di 80, cresce su scala regionale la tensione in vista di una annunciata invasione terrestre. Le forze turche sono già schierate lungo il confine e i jet turchi hanno bombardato siti curdi in Siria e Iraq. Il presidente turco Recip Tayyip Erdogan ha dichiarato che la Turchia “attaccherà quando sarà il momento giusto”, ma una grande invasione di terra non si è ancora concretizzata. La frusta turca è ancora pronta a scatenarsi, ma anche Washington e Mosca esercitano pressioni su Ankara. La Russia, partner della Turchia nella gestione di parti della Siria settentrionale, non vuole vedere pezzi di Siria strappati e consegnati alla Turchia. Da parte loro, gli Stati Uniti considerano le forze curde siriane, che Erdogan vuole allontanare dal confine, come alleati vitali nella guerra contro l’Isis.

Questa rete di interessi non è nuova e finora è stata in grado di preservare l’equilibrio delle forze nel nord della Siria. Ma l’attentato a Istanbul e le imminenti elezioni presidenziali e parlamentari in Turchia, previste per giugno, insieme alla crisi economica del Paese, potrebbero spingere Erdogan a mettere in mostra la potenza militare nazionale – un rimedio noto per le crisi politiche, non solo in Turchia. Non è chiaro chi prevarrà in questa competizione, tra le motivazioni politico-militari di Erdogan e le pressioni esercitate da Mosca e Washington. Nelle ultime settimane il Cremlino ha intrapreso sforzi diplomatici per realizzare un incontro “storico” tra Erdogan e il siriano Bashar Assad, dopo 11 anni di assenza di relazioni tra i due. Ultimamente Erdogan, che in precedenza aveva escluso qualsiasi possibilità di incontrare Assad e aveva persino chiesto la sua rimozione dal potere, ha cambiato idea e ha detto che potrebbe prendere in considerazione la possibilità di rinnovare i legami con la Siria, come sta cercando di fare con l’Egitto.


Tuttavia, il leader turco pone delle condizioni che conferirebbero un’importante legittimità al presidente siriano: Erdogan è disposto ad astenersi dall’invadere la Siria se le forze siriane prenderanno il posto delle forze curde nel nord della Siria e vi opereranno come guardie di frontiera per scongiurare qualsiasi attività curda diretta contro la Turchia. È anche consapevole della crescente necessità di rimpatriare i rifugiati siriani che risiedono in Turchia. Già a marzo Ankara aveva annunciato l’intenzione di “incoraggiare” il ritorno di circa un milione di rifugiati e che avrebbe persino pagato la costruzione di migliaia di appartamenti per loro nelle aree attualmente in mano all’opposizione siriana nel nord della Siria.

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Recentemente è stato riferito che la Turchia sta andando oltre l'”incoraggiamento” e sta deportando attivamente i rifugiati in Siria. Ma ora è Assad a porre condizioni: funzionari turchi e siriani intervistati dai media occidentali affermano che Assad chiede che le forze turche lascino la Siria prima di accettare di incontrarsi con Erdogan. La Russia ha cercato di conciliare queste due posizioni, finora senza successo; allo stesso tempo, le agenzie di intelligence turche e siriane hanno avviato contatti con lo stesso obiettivo. La Turchia non ha fretta di abbandonare il territorio conquistato in Siria o l’influenza che questa conquista le ha conferito. Queste aree non sono diventate “turche” solo di nome: gli scolari siriani studiano in turco, la lira turca è ora una moneta “legale”, il commercio con la Turchia garantisce il sostentamento di migliaia di famiglie e le milizie siriane che operano sotto il patrocinio e il finanziamento turco sono diventate una forza dominante in grado di garantire la sicurezza al confine tra Turchia e Siria. Queste milizie traggono profitto dalla situazione e difficilmente rinunceranno alle loro fonti di reddito senza combattere. In effetti, l'”accordo di lavoro” che si è radicato tra le milizie è di per sé affascinante. Oltre ai combattenti turchi e curdi, nell’area operano altre due importanti forze di combattimento.
Una è l’Esercito Nazionale Siriano, o SNA, che è a sua volta un insieme di milizie, ognuna delle quali controlla diverse fette di territorio in base al proprio potere. La seconda è l’Organizzazione per la Liberazione del Levante (il successore di Jabhat al-Nusra, una propaggine di al-Qaeda). Sebbene queste due forze di opposizione facciano entrambe affidamento sul sostegno turco, ognuna di esse ha i suoi particolari patroni. L’intelligence turca dà la priorità all’organizzazione di liberazione, mentre l’esercito e il Ministero degli Interni della Turchia preferiscono agire attraverso l’SNA.


Ad esempio, a ottobre le forze dell’Organizzazione per la Liberazione del Levante hanno invaso Afrin, un’area occupata dalla Turchia nel 2018. Apparentemente con il sostegno dell’intelligence turca, Abu Mohammad al-Julani, il leader del gruppo di liberazione, ha cercato di estromettere le milizie del Fronte Sham, un ramo dell’SNA, dall’area per affermarsi come unico leader riconosciuto delle forze di opposizione. L’esercito turco è intervenuto e gli ha ordinato di ritirare i suoi combattenti.


Ci si potrebbe aspettare che queste due principali forze combattenti, le cui attività sono coordinate e finanziate dalla Turchia, mostrino un fronte unito, almeno nei confronti delle forze curde. Ma le province curde sono i principali fornitori di petrolio della regione e vendono petrolio anche ai loro nemici – cioè le milizie turche – il che consente loro di riscuotere anche i diritti per ogni autocisterna che passa dal territorio curdo ad altre parti della Siria settentrionale. Anche la Turchia chiude un occhio su questo “accordo”, che le consente di risparmiare denaro per finanziare le sue milizie. Qualsiasi accordo tra Turchia e Siria su un ritiro significherebbe un enorme danno economico per queste milizie e potrebbe portare a uno scontro violento tra loro e chi le priva delle loro entrate – anche se è la Turchia a farlo”.

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Così Bar’el.

La pax russa
Intanto, prosegue la mediazione russa traAnkara e Damasco: dopo i tentativi di migliorare i rapporti tra il presidente turco e l’omologo siriano,Bashar al Assad, fonti vicine agli incontri consultivi turco-russi conclusisi il 9 dicembre, a Istanbul svelano una presunta offerta della delegazione russa guidata dal viceministro degli Esteri Sergej Vershinin alla delegazione turca guidata dall’omologo Sadat Onal per risolvere la crisi nel nord della Siria. Lo riferisce l’emittente al Arabiya, secondo cui le fonti affermano che gli incontri tra le parti sono iniziati con l’obiettivo di evitare un’operazione militare che Ankara minaccia da tempo nel nord della Siria, in quanto i turchi hanno rinnovato la loro disponibilità a collaborare con Damasco nel campo della lotta al terrorismo e problemi di sicurezza.

Secondo le fonti, la delegazione russa avrebbe offerto alla controparte turca il ritiro dei combattenti delle Forze democratiche siriane(Fds) con le loro armi da Manbij e Ayn al Arab, lasciando solo le forze di sicurezza “Asayish”, a condizione che siano integrate nelle forze di sicurezza siriane. Da parte sua, Ankara avrebbe chiesto ai russi un periodo per studiare la proposta. Il 22 ottobre 2019 russi e turchi hanno firmato un memorandum d’intesa sul ritiro delle Fds da Manbij, Tal Rifaat e Ayn al Arab, e sul loro allontanamento dal confine meridionale della Turchia all’interno di una cintura di sicurezza profonda 30 chilometri. Intanto, lo scorso novembre la Turchia ha compiuto dei bombardamenti nel nord della Siria e non ha escluso l’avvio di un’operazione di terra.

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Sfida strategica

A darne conto in un documentato report per InsideOver è Lorenzo Vita. Scrive tra l’altro Vita:
“Per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan la Siriaè stata e resta una partita cruciale. Il leader turco aveva ottimi rapporti con il siriano Bashar al Assad. Poi, dopo le prime avvisaglie delle rivolte, le cose sono drasticamente cambiate: Erdogan non ha solo voltato le spalle al leader di Damasco, ma ha anche apertamente sfruttato la guerra per capitalizzare la sua strategia di espansione della propria influenza sulla regione. Una scelta che si è concretizzata sia sul piano territoriale, a nord, con diverse operazioni militari che hanno di fatto ampliato l’autorità su turca su diverse aree a sud del confine turco in larga parte popolate da curdi; sul piano diplomatico, specialmente attraverso la svolta di condominio e convivenza con la Russia e l’Iran cementata nella piattaforma di Astana; e infine sul piano della gestione del flussi migratori dalla Siria, elemento fondamentale sia sul piano interno e regionale, sia sotto quello esterno nei riguardi dell’Europa.

Tutto questo si è realizzato nonostante (o forse proprio attraverso) i cambiamenti strategici che hanno caratterizzato la politica del Sultano degli ultimi anni. Nei diversi cambi di rotta di Ankara, specialmente nei rapporti con i rivali e partner regionali e internazionali, l’impressione è infatti che la Siria non sia mai stata persa di vista. La Turchia ha cambiato metodo, idee o anche le stesse partnership, ma non ha mai abdicato al suo ruolo di potenza all’interno del difficile e complesso teatro siriano. E questo lo si vede anche oggi, anche quando tutto il mondo è certamente più concentrato sull’Ucraina, la Russia o il fronte indo-pacifico, e sempre meno attento alle tragedie che hanno funestato il Medio Oriente. Mentre tutti guardavano a Erdogan come un leader focalizzato sullo scacchiere del Mar Nero, le trattative tra Kiev e Mosca e il fragile accordo per il grano, l’attentato di Istanbul ha di nuovo cambiato la narrazione del presidente turco.[…]. In questo momento, Ankara sa di avere sostanzialmente mano libera, e di poterlo fare per almeno tre ragioni. Gli Stati Uniti stanno rafforzando il fronte orientale della Nato e quello dell’Indo-Pacifico, distraendosi dal Medio Oriente. La Russia ha invaso l’Ucraina e Vladimir Putin non può certo concentrare eventuali sforzi diplomatici o bellici per gestire il riottoso partner turco. Inoltre, Erdogan ha da tempo fatto capire che nel do ut des per Mar Nero e Ucraina è fondamentale un qualche via libera in Siria. L’Iran è in preda alle rivolte interne e fin troppo debole sul piano economico e della sua rete internazionale. Israele sta riallacciando i rapporti con la Turchia e, anche per ricostruire un Mediterraneo orientale stabile, non sembra intenzionato a riaccendere un fronte diplomatico con Ankara.

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Le potenze europee, invece, appaiono ormai completamente distanti dal disastro siriano. Infine, il veto minacciato dalla Turchia all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato proprio per il loro sostegno ai curdiè un’arma che resta in mano a Erdogan: ancora più importante dopo l’attentato che ha sconvolto il centro di Istanbul. In tutto questo, le elezioni nel 2023 e la crisi economia che attanaglia la Turchia   rappresentano anche motivi di politica interna per sostenere un impegno militare nella regione, e questo ha ancora più senso proprio dopo quella tragedia.[…]. L’obiettivo strategico di Erdogan, al netto del profilo politico, sembra essere di nuovo quello di rafforzare quel cuscinetto terrestre di circa trenta chilometri tra la Turchia e la Siria fino a raggiungere la frontiera dell’Iraq. I piani di attacco continuano ad avere al centro Tal Rifat, Manbij e Kobane, ma in molti ritengono possibile che le operazioni, quantomeno quelle aeree, continuino anche nel Kurdistan iracheno. Per i turchi è essenziale non solo rompere qualsiasi legame terrestre tra le aree controllate dai curdi, ma anche provare ad ampliare il controllo su quelle regioni. Kobane e Manbij così come Afrine sono da sempre nel mirino del Sultano, e non c’è solo il tentativo di minare definitivamente le milizie curdo-siriane. In diverse regioni si può parlare ormai di gestione di fatto da parte di Ankara, con territori dell’estremo nord della Siria sostanzialmente turchi. In tutto questo, rimane il grande nodo di Idlib: sacca di miliziani, jihadisti, rifugiati e caos dove la Turchia può avere un’autorità sempre più pervasiva. Il 2022, in attesa delle fondamentali elezioni del 2023, può essere un anno fondamentale anche per il destino di questi luoghi. Erdogan sa di avere in mano una finestra di opportunità che non può perdere: in questo momento può realizzare un piano che va avanti da anni e che unirebbe il suo nuovo corso o con il passato della “profondità strategica”. Del resto, oggi lo stesso Assad, che non può certo imporre la propria forza contro l’esercito turco e contro le volontà russe, potrebbe in realtà accettare un’avanzata che colpisca i nemici di Damasco sostenuti dalla coalizione internazionale: quelli che avevano combattuto per l’Occidente contro l’Isis ma che rappresentano una spina nel fianco per il completamento della sua riconquista della Siria. Come spiegava su Limes Lorenzo Trombetta, Putin aveva da tempo chiesto un riavvicinamento tra i due leader mediorientali. E forse questa avanzata terrestre confermerà la complessità dei rapporti di quella regione, dove tutto può apparire in un modo ed essere qualcos’altro”.

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