Israele, una guerra civile a bassa intensità

Altro che episodi sporadici, vampate di violenza messe sotto controllo. Israele si scopre lacerato al proprio interno. Una faglia che rischia di essere irreparabile. 

Israele, una guerra civile a bassa intensità
Scontri a Gerusalemme
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5 Giugno 2022 - 17.07


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A bassa intensità. Ma è già guerra civile. Altro che episodi sporadici, vampate di violenza messe sotto controllo. Israele si scopre lacerato al proprio interno. Una faglia che rischia di essere irreparabile. 

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Civil war

Scrive in proposito Zvi Bar’el, firma storica di Haaretz: “Gli ottimisti continuano a considerare la conflagrazione nelle strade di Gerusalemme come una lotta dei sionisti religiosi che ha a che fare con date e siti specifici. Tutto ciò che dobbiamo fare è superare in sicurezza quei giorni. In altre parole, caricare la città di migliaia di soldati e poliziotti dotati della giusta dose di aggressività; mettere in guardia Hamas; parlare educatamente con i capi della comunità araba, con la Giordania, con il Waqf musulmano di Gerusalemme, il trust religioso che gestisce i luoghi santi della città – e gli scenari di orrore possono essere accantonati fino alla prossima data sacra.

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Gli ingenui tra loro preferiscono la prospettiva microscopica. Se riusciamo a neutralizzare l’MK Itamar Ben-Gvir e a eliminare l’organizzazione di estrema destra Lehava, saremo in grado di controllare questo batterio mangia-carne e la vita continuerà come sempre. Guardate, dicono, ci sono stati solo alcuni scontri, qualche pestaggio, qualche ferito, non sono stati lanciati missili e nessuno è morto.

Ma questo batterio è cresciuto su un fertile terreno di coltura che ha diffuso la pandemia, e ciò che è realmente accaduto a Gerusalemme è la continuazione, e non ancora il culmine, di un processo che in altri Paesi e in altri tempi ha dato origine a guerre civili. Il braccio di ferro religioso o etnico tra ebrei e arabi è solo l’atto di riscaldamento per il conflitto violento che sta nascendo tra gli ebrei. Sventolare la bandiera israeliana in faccia ai palestinesi, attaccare i negozi palestinesi alla Kristallnacht, gli appelli di routine “Morte agli arabi” e “Bruceremo il vostro villaggio”: tutto questo nasconde il vero messaggio dei rivoltosi. Oggi sono gli arabi, domani – e di fatto già oggi – sono gli ebrei moralisti, di sinistra, ashkenaziti, che odiano Bibi, dal cuore sanguinante, quei traditori che hanno dimenticato cosa significa essere sionisti, che odiano lo Stato e che non hanno accettato di avvolgersi nella bandiera israeliana. Gli sguardi selvaggi dei portabandiera erano rivolti al Primo Ministro Naftali Bennett e al Ministro degli Esteri Yair Lapid, che sono “peggio dei nazisti”, per citare il rabbino Meir Mazuz; al “governo dei traditori” e a chiunque non sia pienamente di destra. In quelle ore, avvolgersi nella bandiera israeliana è stato come indossare l’uniforme da battaglia di milizie che hanno il monopolio della verità assoluta. Il Ku Klux Kan di Israele, con una differenza: Non si accontentano di definire gli arabi in generale e i palestinesi in particolare come un nemico da eliminare, ma usano gli arabi per distinguere tra ebrei fedeli ed ebrei che non meritano di vivere qui.

Ma i portabandiera non si accontentano nemmeno della supremazia nominale ebraica della legge dello Stato-nazione o della banale consuetudine che ha trasformato gli arabi in indigeni tollerati. A loro avviso, non è colpa degli arabi se uno dei loro partiti è nella coalizione di governo. Piuttosto, sono gli ebrei che hanno dato loro questo status a essere responsabili e dovrebbero essere impiccati.

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Quando Channel 12 News ha chiesto “Credete che il governo dipenda dai sostenitori del terrorismo?”, la domanda si riferiva apparentemente alla partecipazione della Lista Araba Unita alla coalizione. Sbagliato. Secondo le definizioni di Benjamin Netanyahu, di Ben-Gvir e delle organizzazioni che dirigono, i terroristi sono gli arabi stessi e i sostenitori del terrorismo nel governo sono gli ebrei che collaborano con loro. È così che si crea una narrativa che autorizza la violenza contro gli ebrei e contro i leader che violano le regole della segregazione razziale.

Ma sarebbe un errore imprigionare le migliaia di danzatori estasiati nella definizione ristretta di “milizia”. Perché quando lo stesso canale televisivo riferisce che, secondo un sondaggio da lui condotto, il “blocco Netanyahu” dovrebbe conquistare 59 seggi alla Knesset, si tratta già della metà della popolazione.

Qui evapora anche la vecchia distinzione tra destra e sinistra e tra ebrei religiosi e laici. Perché anche nella coalizione esistente la destra e il sionismo religioso sono presenti con grande forza. La barriera di separazione passa tra il “blocco Netanyahu”, termine che ricorda tra l’altro il Blocco Nazionale di Benito Mussolini.

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In questo modo possiamo indicare i nemici della bandiera in modo netto e chiaro, senza sfumature e senza fare marcia indietro. Non resta che dichiarare l’inizio della stagione della caccia”.

Così Bar’el

Il “popolo invisibile” e quella ferita aperta

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Diviso, corteggiato, disincantato. Il “popolo invisibile” (definizione di David Grossman che dà il titolo di uno suo bellissimo  libro-reportage, ) ovvero la comunità araba israeliana. 

Della comunità arabo-israeliana, Ahmed Tibi, è una delle figure storiche, nel mirino della destra oltranzista israeliana per le sue posizioni radicali. Per colui che fu anche consigliere personale di Yasser Arafat, la legge dello Stato-nazione, approvata a maggioranza alla Knesset, il 19 luglio 2018, indica la via dell’apartheid.  “Ha un elemento di ‘supremazia ebraica – spiega il parlamentare della Joint List –  e la creazione di due classi separate di cittadini, una che gode di pieni diritti e una che ne è esclusa  – e anche nel secondo gruppo vi è uno sforzo per creare diverse categorie”.  Preoccupazione condivisa anche da Amir Fuchs, ricercatore dell’Israel democracy institute: “Il problema è che questa legge cambia l’equilibrio tra Israele come democrazia e Israele come Stato ebraico ed è molto chiaro che il legislatore non ha incluso il principio di uguaglianza tra i fondamentali come era scritto nella Dichiarazione di Indipendenza”. Tibi rifiuta la differenziazione fatta dai sostenitori della legge sulla nazionalità tra diritti collettivi, di cui godono gli ebrei, e diritti individuali, che sono dati a tutti gli altri. I diritti individuali, compresi quelli culturali e politici, derivano dall’appartenenza a una collettività, come la grande minoranza araba in Israele, sostiene deciso.  Una considerazione, quest’ultima, che trova il consenso di uno dei più autorevoli scienziati della politica israeliani, il professor Shlomo Avineri, che in un editoriale su Haaretz ebbe a esprimere e la stessa posizione: “Non si possono separare i diritti dei singoli cittadini dalla loro coscienza sulla loro identità, cultura, tradizione, lingua, religione e memoria storica”.  Gli arabi stanno protestando contro i tentativi per ridimensionare il loro status, dice ancora Tibi, in uno scenario di settant’anni di discriminazione ufficiale. Un disegno in continuità mirato a quanti Tibi definisce “cittadini indigeni”. Il messaggio è netto, chiaro, brutale: sei tollerato e dovresti accontentarti delle nuove strade e delle cliniche che creiamo per te di volta in volta.

“Noi siamo, noi ci sentiamo arabi israeliani – continua Tibi -.  E per questo continuiamo a batterci perché Israele sia lo Stato degli Israeliani. Ma nessuno può chiederci di chiudere gli occhi di fronte a ciò che avviene nei Territori occupati, ad una repressione che si fa sempre più brutale, all’istaurazione di fatto di un regime di apartheid. Le nostre critiche non sono diverse, e neanche più dure, di quelle che si leggono su Haaretz o che sono contenute in appelli di intellettuali israeliani, ebrei, o in documenti dell’Onu o delle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Solo che se queste critiche le facciamo noi, noi arabi israeliani, scatta in automatico l’accusa di sempre: ‘ecco, vedete, di costoro non possiamo fidarci, sono il cavallo di Troia dei Palestinesi in Israele…’. E’ una critica preconcetta, strumentale. E’ da Israeliani che affermiamo che la pace è l’unica strada percorribile per diventare un Paese normale, totalmente integrato nel Medio Oriente. Da Israeliani diciamo che la sicurezza d’Israele e il diritto dei Palestinesi ad uno Stato indipendente sono le due facce di una stessa medaglia: quella di una pace giusta, e proprio perché tale, una pace durevole. Noi arabi israeliani rivendichiamo con orgoglio la nostra identità, conosciamo la Storia, ma non brandiamo identità e Storia come armi per creare divisioni nella società israeliana. Di questa società, piaccia o no ai signori Netanyahu, Lieberman, Bennett, noi ci sentiamo parte. Una parte che rivendica con orgoglio le proprie radici culturali, linguistiche. Ed è per questo, che tra le norme contenute nella legge, quella una di quelle che più hanno ferito gli arabi israeliani, è stato il declassamento della lingua araba, non più considerata come seconda lingua d’insegnamento.” Conoscere la propria lingua, far sì che sia parte di un corso di studi, rafforza una comunità nazionale, la fa sentire, in ogni sua componente, più partecipe. Così invece si umilia una sua parte”. “La legge dello Stato- nazione non solo produce segregazione razzista in Israele, ma sbatte la porta su una giusta soluzione diplomatica dell’istituzione di uno Stato palestinese nei confini del 1967 insieme a Israele… La nostra lotta per la pace, l’uguaglianza e la giustizia sociale non è limitata al discorso ebraico in Israele. In ogni arena, compresa quella internazionale, i miei colleghi e io di Hadash e la più ampia alleanza Joint List continueremo a combattere con determinazione e a testa alta contro l’occupazione e l’apartheid. La scelta per tutti noi, ebrei e arabi, è chiara: democrazia reale o etnocrazia nazionalista. La nostra mano è tesa a tutti coloro che credono nei principi di giustizia e libertà e non si arrendono alla deriva fondamentalista in atto”, incalza la parlamentare Aida Touma-Suleiman, direttore responsabile di Al-Ittihad, l’unico quotidiano in Israele in lingua araba, fondatrice a Nazareth nel 1992 del gruppo arabo femminista, Donne contro la violenza, la prima donna arabo-israeliana a capo del comitato della Knesset sullo status delle donne e dell’uguaglianza di genere. Molte volte, quando si scrive o si parla, d’Israele viene “spontaneo”, o quasi, riferirsi ad esso come “Stato ebraico”. Tanto più ora, che questa definizione è stata “costituzionalizzata”.  Ma poche volte, quasi mai, si pensa a quel 1,8 milioni di israeliani (oltre il 22% della popolazione) che ebrei non sono e che quella definizione fa scomparire.

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“Quella legge  – incalza Ayman Odeh, leader della Joint List – ha rappresentato uno strappo ideologico voluto dalla destra oltranzista che oggi governa Israele. Ogni norma di quella legge risponde a una visione messianica d’Israele, del suo popolo eletto, di uno Stato che viene ridefinito a partire da questa visione fondamentalista. Un ‘pregio’, però, questa legge ce l’ha: quello della chiarezza. I sostenitori di questa legge rifondativa dello Stato d’Israele hanno dato una legittimazione istituzionale alla politica degli insediamenti, considerando la colonizzazione come parte fondante dell’identità nazionale d’Israele. Fino al 19 luglio 2018,  la destra delle ruspe, aveva giustificato il muro in Cisgiordania, l’annessione di fatto di parte dei territori della West Bank, territori che due risoluzioni delle Nazioni Unite definiscono e considerano ‘occupati’, come un problema di sicurezza, di lotta al terrorismo palestinese. Insomma, provavano a dare al mondo di questa politica di occupazione, una versione difensiva. Ora non è più così. La legge voluta dalle destre altro non è che la ‘costituzionalizzazione’ del disegno di Eretz Israel, e nella Sacra Terra d’Israele chi non è Ebreo può essere al massimo tollerato, ma se scegliesse di andarsene nessuno si strapperebbe le vesti. Di una cosa, sono assolutamente convinto: una democrazia compiuta, solida, è quella che include e non emargina o addirittura cancella l’identità di un 20% della popolazione. Democrazia non è dittatura della maggioranza ma garanzia dei diritti delle minoranze. Minoranze che vanno riconosciute per ciò che sono, vale a dire comunità, e non come sommatoria di singoli cittadini”.

Nell’operare questa distinzione  – chi scrive ebbe modo di dire in una conversazione con il leader della Joint List –  Lei tocca un nervo scoperto, che riguarda l’atteggiamento di quella parte dell’Israele sionista che pur criticando fortemente la legge in questione, sostiene che in discussione non è l’identità ebraica dello Stato ma la torsione fondamentalista data dalle destre. “Conosco queste posizioni – fu la risposta di  Odeh – posso comprenderne le motivazioni politiche e anche i presupposti culturali, ma non posso giustificarle. Perché l’orizzonte evocato da queste forze è quello della tolleranza. Certo, qualcuno potrebbe dire: meglio essere tollerati che venire considerati quinta colonna interna dei Palestinesi, collusi con i ‘terroristi’. Ma noi arabi israeliani non vogliamo essere tollerati, ma considerati cittadini ‘Israele a tutti gli effetti, né più né meno degli ebrei israeliani. E’ questa la sfida che lanciamo. Ma che fino ad oggi si è scontrata contro un muro di ostilità o d’incomprensione che, con l’esclusione del Meretz (sinistra laica e pacifista, ndr), ha visto tutte le forze d’ispirazione sionista, nelle diverse declinazioni, alla Knesset fare quadrato contro una proposta di legge che come parlamentari della Joint List avevamo presentato qualche settimana prima l’approvazione della legge su Israele, Stato-nazione ebraica. La proposta di legge che avevamo presentato in Parlamento era centrata su un principio, su un articolo fondamentale: lo Stato d’Israele è lo Stato degli Israeliani! Ebbene, con un voto a larga maggioranza, trasversale, che ha riguardato anche le forze di centro e i Laburisti, non solo non si è messa ai voti quella proposta ma addirittura si è impedita la discussione. Non c’era niente di estremista nella nostra proposta, nessun intento provocatorio. Non si parlava degli insediamenti né si faceva riferimento, anche indiretto, alla pace con i Palestinesi. Si affermava un principio che dovrebbe essere basilare in uno Stato democratico: una comune appartenenza di ogni suo cittadino, indipendentemente dalla sua appartenenza etnica o religiosa”.

Disparità crescono

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 Secondo una relazione del 1998 dell’Adva Centre di Tel Aviv, le disparità sociali ed economiche in Israele sono particolarmente evidenti nei confronti degli arabi israeliani. La relazione fornisce alcune cifre illuminanti: il reddito medio dei palestinesi che hanno cittadinanza israeliana è il più basso tra tutti i gruppi etnici del Paese; il 42% dei palestinesi cittadini israeliani all’età di 17 anni ha già abbandonato gli studi; il tasso di mortalità infantile tra i palestinesi cittadini israeliani è quasi il doppio rispetto a quello degli ebrei: 9,6 per mille nascite contro il 5,3. 

Ventiquattro anni dopo, la situazione non è migliorata, la faglia sociale si è ulteriormente allargata. E ora deflagra in qualcosa di ancor più grave. In civil war. 

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