Da Auschwitz ai Muri della vergogna. Per una memoria che non discrimina e che denuncia gli orrori dell'oggi

L'Unhcr propone una 'memoria attualizzata': affinché si possa veramente imparare dagli errori del passato e non soltanto usare vuote parole

Da Auschwitz ai Muri della vergogna. Per una memoria che non discrimina e che denuncia gli orrori dell'oggi
Il muro al confine tra Polonia e Bielorussia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Gennaio 2022 - 14.40


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Per non dimenticare. Per guardare agli orrori di quel tempo con gli occhi del presente. Un presente segnato dall’odio che si fa “muro” e dall’odiosa pratica dei respingimenti. 

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Una memoria attualizzata

E’ quella proposta dall’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, in una nota ufficiale nel Giorno della Memoria: “Dagli orrori dell’Olocausto e dalle atrocità della seconda guerra mondiale sono nate le Nazioni Unite e, nel 1951, la Convenzione sui Rifugiati, trattato internazionale ancora oggi fondamentale per garantire la protezione dei rifugiati. Nel mondo, milioni di persone continuano a soffrire a causa di discriminazioni e violenze, inclusi coloro che fuggono da guerre e persecuzioni. Con l’86% dei rifugiati ospitati in paesi a basso e medio reddito, è fondamentale che l’Europa e i suoi Stati membri si mostrino solidali sia verso coloro che chiedono protezione nell’UE, sia verso i paesi che accolgono la gran parte dei rifugiati e degli sfollati. Oggi i respingimenti e le narrative politiche xenofobe, insieme a barriere fisiche e legislative, stanno limitando il diritto ad accedere al territorio europeo allo scopo di chiedere asilo, mettendo in pericolo vite e compromettendo i diritti di chi è in fuga da guerre, conflitti e persecuzioni. “La Giornata della Memoria ci ricordi quanto si è lottato per ottenere la pace, e le conseguenze che hanno subito tutti coloro che hanno vissuto in prima persona persecuzioni, violenze e discriminazioni” ricorda Chiara Cardoletti, Rappresentante Unhcr per l’Italia, la Santa Sede e San Marino “Il mandato di protezione dell’Unhcr nei confronti dei rifugiati nasce proprio dalla necessità di proteggere tutti coloro che non godono più della protezione dei propri governi. Abbiamo il dovere di ricordare sempre il passato e di garantire sostegno e protezione a tutti coloro che anche oggi ne hanno bisogno” conclude Cardoletti. 

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Per non dimenticare: la Siria

Il drammatico racconto di Unicef, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia: “Abbiamo ricevuto rapporti estremamente preoccupanti su decessi di bambini nella struttura di detenzione militare di Ghwayran, ad al-Hasakah, nel nord-est della Siria. Siamo anche profondamente preoccupati dalle notizie secondo cui i bambini intrappolati all’interno della struttura potrebbero essere costretti a svolgere parte attiva negli scontri in corso tra i detenuti e le forze di sicurezza. 

 Quasi 850 bambini, alcuni anche di 12 anni, sono attualmente detenuti nel nord-est della Siria, la maggior parte di loro è tenuta nella struttura di Ghwayran. La maggior parte di questi bambini sono ragazzi siriani e iracheni, mentre il resto sono di altre 20 nazionalità. Nessuno di loro è stato imputato di alcun crimine secondo il diritto nazionale o internazionale. I figli di cittadini stranieri hanno ricevuto poco o nessun sostegno dai loro paesi d’origine. 

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 Questi bambini non avrebbero mai dovuto essere tenuti in detenzione militare. La violenza a cui sono sottoposti potrebbe costituire un crimine di guerra. 

L’Unicef è da tempo preoccupato per i bambini detenuti in questa struttura a causa delle pessime condizioni fisiche generali, dei servizi limitati, del sovraffollamento e della mancanza di cure sanitarie appropriate. I bambini hanno pochi o nessun contatto con le loro famiglie, non hanno accesso all’istruzione e affrontano un destino incerto. Chiediamo a tutte le parti e a coloro che esercitano un’influenza su di esse di rispettare le loro responsabilità di proteggere i civili e le persone fuori combattimento, e di dare priorità alla sicurezza di tutti i bambini all’interno della prigione di Ghwayran e nella città di Hasakah. In particolare: Chiediamo a tutte le parti nel nord-est della Siria di garantire la protezione fisica e il benessere dei bambini presenti nella struttura di detenzione, così come i bambini nelle aree circostanti. Qualsiasi misura per ripristinare la calma nella struttura di detenzione dovrebbe essere regolata da un uso misurato della forza. Durante le ostilità, tutte le parti devono adottare tutte le precauzioni possibili e aderire ai principi di distinzione e proporzionalità. Chiediamo anche a tutte le parti di raggiungere una soluzione negoziata che metta fine alle sofferenze inutili e alla perdita di vite umane, soprattutto per quei bambini che hanno già vissuto anni di conflitto armato. Un primo passo dovrebbe essere quello di aprire un corridoio sicuro che permetta agli umanitari e ad altri soggetti di accedere ed evacuare i bambini nella struttura di detenzione, al fine di fornire loro le cure urgenti e la protezione di cui hanno bisogno.  I bambini e le persone fuori combattimento, compresi i malati e i feriti, hanno diritto alla protezione e all’assistenza umanitaria. Esortiamo gli attori che attualmente controllano la struttura di detenzione e le autorità detentrici di rilasciare incondizionatamente tutti i bambini, a partire dai più piccoli e da quelli con urgenti necessità mediche e di altro tipo.  Se e quando i bambini saranno evacuati in un luogo sicuro, agli attori umanitari, senza alcuna distinzione, dovrebbe essere garantito un accesso continuo e senza ostacoli ai bambini per cure e assistenza di emergenza. Chiediamo anche agli Stati membri di fare tutto ciò che è in loro potere per rimpatriare i bambini loro cittadini o nati da loro cittadini, in linea con gli standard internazionali di protezione dei bambini e dei diritti umani. Gli Stati membri che possono supportare questi interventi dovrebbero farlo. Il tempo di agire è scaduto da molto”.

Da Auschwitz al Muro della vergogna

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La Polonia ha iniziato i lavori per erigere il muro anti-profughi al confine con la Bielorussia. Un’opera che l’opposizione attacca, definendola senza mezzi termini «il muro della vergogna».

Ad annunciare l’avvio del cantiere è stata la Guardia di frontiera: si tratta della barriera che il governo di Varsavia vuole alzare per proteggere il Paese dall’ondata di profughi usati come un’arma dal dittatore bielorusso Aleksander Lukashenko. Un flusso di uomini, donne e bambini che, a piedi, sognano di raggiungere l’Europa, attraversando boschi, paludi e il fiume che separa i due Stati, sfidando in questi mesi anche il gelo. L’esecutivo di Morawiecki ha stanziato investimenti senza precedenti per blindare 186 chilometri di frontiera a un costo enorme: 1,6 miliardi di zloty, pari a oltre 350 milioni di euro. Ma il governo è finito nel mirino delle opposizioni che lo accusano di rendere la Polonia un simbolo della mancanza di solidarietà con i migranti in arrivo dalle zone più disastrate del mondo. La frontiera fra Polonia e Bielorussia è lunga 418 chilometri, 171 dei quali costeggiati dal fiume Bug, mentre 67 chilometri passano attraverso paludi. Il muro sarà costruito solo sulla terra ferma, ha spiegato Anna Michalska, la portavoce della Guardia di frontiera, aggiungendo che l’impatto di quest’iniziativa sull’ambiente dovrebbe essere minimo. Filo spinato, barriere di metallo alte sei metri, fosse per rendere difficoltoso l’accesso in Polonia dei migranti stipati nella confinante Bielorussia. Migliaia di famiglie, donne, bambini provenienti in larga parte dalla Siria, l’Iraq, l’Afghanistan e lo Yemen, che attendono e sperano un giorno di poter finalmente entrare in Europa e iniziare una nuova vita. Eppure, quel giorno sembra ancora lontano. Perché come annunciato dalla Straż Graniczna, la polizia doganale della Polonia: “Oggi la Guardia di frontiera ha consegnato i siti di costruzione ai contractor” per erigere una recinzione anti-migranti lunga 186 chilometri e che costerà al Paese oltre 340 milioni di euro. Con tanto di video sui social.

Un genocidio dimenticato

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Nella loro lingua, i Rom chiamano gli anni dello sterminio Porajmos, che significa “la distruzione”, oppure Samudaripen, che significa “tutti morti”. Non sapremo mai quanti furono i rom a essere uccisi: di sicuro furono centinaia di migliaia, più di un milione secondo le stime più ampie, circa 250 mila secondo quelle più conservative. Le persone rom furono uccise dal regime nazista con la complicità dei suoi alleati, tra cui spiccava l’Italia fascista che iniziò le sue persecuzioni anni prima che Adolf Hitler arrivasse al potere. Nelle Leggi di Norimberga del 1935, con cui il regime nazista stabiliva la persecuzione degli ebrei, i rom venivano privati della loro cittadinanza e del diritto di voto. Le deportazioni nei campi di concentramento cominciarono poco dopo, mentre con l’invasione dell’Europa Orientale alle squadre della morte delle SS (i cosiddetti “Einsatzgruppen”) fu dato l’ordine di radunare e assassinare, oltre agli ebrei e ai membri del Partito Comunista, anche tutti i rom che incontravano sulla loro strada. Nel 1942 il capo delle SS Heinrich Himmler diede l’ordine di spostare tutti i rom dai campi di concentramento e dai ghetti ai campi di sterminio e di risolvere con il genocidio la Zigeunerfrage, il “problema degli zingari”. A soffrire di più furono i rom che abitavano nella penisola balcanica. Quasi centomila, secondo alcune stime, furono uccisi nella sola Jugoslavia dai nazisti o dal locale governo collaborazionista. Altre decine di migliaia furono uccise, lasciate morire di fame o deportate in Germania dai governi di Ungheria e Romania e dai funzionari nazisti che amministravano Cecoslovacchia e Polonia, mentre le squadre della morte SS uccidevano decine di migliaia di rom durante l’avanzata delle truppe naziste nelle immense steppe dell’Unione Sovietica.

La “questione zingara”, infatti, aveva impegnato i nazisti sin dai primi anni di regime e la sua “risoluzione” fu peraltro facilitata dalla preesistenza di istituzioni, iscritte nella secolare storia di discriminazione europea di questo popolo, quali il Servizio informazioni sugli zingari, fondato a Monaco nel 1899, ma presto trasformato in Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara, con sede a Berlino, che si occupò della individuazione di tutti gli appartenenti alla razza zigana. Se, infatti, fino ad allora gli zigani erano stati considerati un problema di ordine securitario da affidare alle autorità di polizia, per i nazionalsocialisti divennero immediatamente un problema di ordine razziale.

Tra i più zelanti a occuparsene vi furono lo psichiatra Robert Ritter, a capo prima dell’Unità di ricerca per l’igiene razziale e biologia demografica e poi dell’Istituto di Biologia criminale, e la sua assistente Eva Justin, che fornirono i presupposti “scientifici” alla successiva legislazione: gli zingari provenivano sì dal ceppo indoeuropeo ariano, ma nel corso delle lunghe peregrinazioni avevano perso la loro purezza, e costituivano quindi ormai “un miscuglio pericoloso di razze deteriorate”, portatrici addirittura del gene Wandertrieb, “la voglia di girovagare”, un istinto amorale al nomadismo.

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Schedatura – anzi, “censimento” nel linguaggio nazista –, studio genetico per definire il livello di purezza o ibridazione di ciascun individuo, sterilizzazione forzata della popolazione dai 12 anni in su, incarcerazione, trasferimento in sezioni speciali dei ghetti per gli Ebrei o in campi di lavoro e aree dedicate – in condizioni però insostenibili per la sopravvivenza dei più –, annullamento dei diritti personali e poi, con il procedere dell’avanzata nazista in Europa, stragi in loco immediate per contrastare le fughe, fino al comando definitivo del trasferimento di tutti gli zingari ad Auschwitz, inequivocabile segno del disegno genocida.

Il primo convoglio raggiunse il lager il 26 febbraio 1943; marchiati con la stella nera degli “asociali” – ciò che ha permesso per molto tempo di considerare la loro deportazione una questione, ancora, di ordine pubblico –, furono segregati nel cosiddetto Zigeunerlager, senza passare per la selezione in entrata, senza essere separati dalle loro famiglie, né costretti poi al lavoro forzato, ma lasciati morire per inedia, freddo e malattie. Probabilmente proprio perché considerati “razza degradata”, inoltre, continuarono a essere preferiti come cavie negli esperimenti medici compiuti da Mengele e dal suo staff.

La notte del 2 agosto 1944, un delirante comunicato di Hitler ordina l’immediata eliminazione dei 2897 zingari, tra cui donne, anziani e bambini. 

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Anche l’Italia fece la sua parte nella persecuzione dei rom, e la fece ancora prima dell’avvento al potere di Adolf Hitler. Già nel 1926 una circolare del ministero dell’Interno, di cui era titolare lo stesso Benito Mussolini, parlava della necessità di «epurare il territorio nazionale dalla presenza di zingari», accusati di essere individui criminali e asociali per «loro stessa natura». A partire dal 1938 le persecuzioni divennero sistematiche e si intensificarono ulteriormente dopo l’invasione della Jugoslavia, nel 1940, quando numerosi rom cercarono scampo in Italia dalle persecuzioni compiute dai nazionalisti sloveni e croati. 

Piero Terracina, sopravvissuto ai lager nazisti, ha dedicato tutta la sua vita a tener viva e attuale la memoria della Shoah. Oggi che non c’è più, lo ricordiamo con questa sua testimonianza diretta: “Piero Terracina ricorda perfettamente la notte in cui rom e sinti scomparvero da Birkenau: “Io non avevo ancora 16 anni ed arrivai a Birkenau; quello era un Vernichtunglager (campo di sterminio) dove non è che si poteva morire, si doveva morire. Erano tutti settori separati che si distinguevano per una lettera che era stata loro associata e dall’altro lato del nostro filo spinato c’era il settore che era conosciuto come lo Zigeunerlager ovvero il campo degli zingari[…]. In quel campo c’erano tantissimi bambini, molti di quei bambini certamente erano nati in quel recinto […]. La notte del 2 agosto 1944, ero rinchiuso ed era notte e la notte nel lager c’era il coprifuoco, però ho sentito tutto. In piena notte sentimmo urlare in tedesco e l’abbaiare dei cani, dettero l’ordine di aprire le baracche del campo degli zingari, da lì grida, pianti e qualche colpo di arma da fuoco. All’improvviso, dopo più di due ore, solo silenzio e dalle nostre finestre, poco dopo, il bagliore delle fiamme altissime del crematorio. La mattina, il primo pensiero fu quello di volgere lo sguardo verso lo Zigeunerlager che era completamente vuoto, c’era solo silenzio e le finestre delle baracche che sbattevano”.

Per ricordare un genocidio dimenticato. E una discriminazione verso Rom e Sinti che continua ancora oggi.

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