Qalandiya, da check point a mega colonia. Così sta morendo la Palestina

Colonie ampliate a dismisura. Colonie dalle dimensioni di una città. Così Israele sta appaltando la Palestina. Di grande impatto è quanto raccontato su Haaretz da Hagit Ofran, che lavora al progetto Settlement Watch di Peace Now.

Qalandiya, da check point a mega colonia. Così sta morendo la Palestina
Qalandiya
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Dicembre 2021 - 14.22


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Da check point a mega colonia

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“La storia di questo nuovo insediamento israeliano è quasi troppo selvaggia e fantastica per essere creduta – esordisce così Ofran. 

Ciò che è previsto per il quartiere palestinese di Qalandiya (Atarot nella lingua ufficiale israeliana), a nord di Gerusalemme, è un nuovo insediamento delle dimensioni di un’intera città. Sarebbe un’enclave circondata da un denso continuum urbano palestinese e staccata da qualsiasi insediamento israeliano esistente. Forse il suo attributo più delirante è che potrebbe essere presto stabilito da un governo israeliano che basa la sua decisione sul mantenimento di quello che chiama lo status quo per il progetto di insediamento.

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Negli ultimi anni, il ministero degli alloggi di Israele ha preparato un piano per 9.000 unità abitative nell’area del vecchio aeroporto di Atarot, ma secondo i rapporti, il governo di Netanyahu non l’ha portato avanti a causa della pressione americana. Il piano è considerato letale per la prospettiva di un accordo di pace a due stati perché interrompe il continuum palestinese nella metropoli centrale del futuro stato palestinese, tra Ramallah e Gerusalemme Est. Anche secondo il piano Trump, esso stesso lontano da un modello di due stati, l’area di Atarot doveva far parte dell’entità palestinese. Questo lunedì, il Comitato di pianificazione e costruzione del distretto, sotto la giurisdizione del governo centrale, dovrebbe discutere il primo passo del processo di pianificazione, noto come deposito. La procedura di pianificazione è un po’ come una palla di neve. Una volta che si inizia a promuovere il piano, esso ha una vita propria, la burocrazia si mette in moto, si creano aspettative economiche e legali, e diventa sempre più difficile fermarlo.

Se volete fermare il piano, dovete farlo ora, prima che inizi il processo di pianificazione. Tutto quello che serve per questo è rimandare l’udienza in commissione distrettuale a una data sconosciuta, con un costo politico irrisorio. Tuttavia, dopo l’inizio del processo di pianificazione, diventa molto più complicato, difficile e politicamente costoso. Allora come mai l’attuale governo di coalizione osa fare quello che nemmeno il governo di destra ‘a tutto campo’ di Netanyahu ha osato fare?

Il governo Bennett è stato formato sulla base di un consenso che non esiste un consenso sulla questione degli insediamenti e dei territori occupati. La sua concezione di base era che il governo non avrebbe fatto né cambiamenti di vasta portata che potessero precludere la possibilità di una pace futura, né avrebbe fatto cambiamenti di vasta portata che avrebbero fatto avanzare una pace futura. Questo è stato chiamato mantenere uno status quo sugli insediamenti. I sostenitori di una soluzione a due Stati nel governo interpretano questo accordo come un’esenzione totale dall’assumersi la responsabilità della politica nei territori: ‘Non c’è comunque nessuna possibilità di raggiungere un accordo, quindi è inutile parlarne’. Non cercano nemmeno di tenere una consultazione o un forum ministeriale per mettere in discussione le politiche nei territori occupati. Il loro punto di vista è: Se non si parla di qualcosa, non accadrà.

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Anche i ministri di destra (e con loro anche il ministro della difesa presunto centrista Benny Gantz) non ne parlano. Stanno facendo tutto ciò che è in loro potere per approfondire il controllo israeliano dei territori, e non si preoccupano nemmeno di impegnarsi con i partner pro-pace nel governo. Questo è stato il caso in cui i coloni hanno stabilito l’avamposto Evyatar, e il ministro della difesa, in cambio del loro ‘consenso’ ad evacuare, ha inviato i soldati dell’IDF ad occupare una postazione militare che non aveva alcuna logica di sicurezza dietro di sé e la cui istituzione aveva già portato alla morte di sette civili palestinesi nelle proteste quotidiane contro l’avamposto.

Questo è stato il caso in cui un funzionario senza nome dell’amministrazione civile ha fissato una data per una discussione delle obiezioni al piano di insediamento nella zona E1 fuori Gerusalemme che è considerata una linea rossa politica a cui il mondo, compresi gli americani, si oppone fortemente. E questo è quello che succede ora quando il ministro degli Alloggi decide di lanciare una bomba politica e promuovere il piano per il nuovo insediamento a Qalandiya.

Il ministro israeliano degli Alloggi ha l’autorità di promuovere i piani abitativi e di emettere offerte per la costruzione, e non ha bisogno di alcuna approvazione formale da parte del governo. In tutti i governi precedenti, la pratica era che in questioni ad alta sensibilità politica, come la promozione massiccia di insediamenti, o la costruzione in aree estremamente controverse, le decisioni venivano prese solo in coordinamento con il primo ministro e/o un forum di ministri anziani.

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Ma l’attuale governo non si occupa di questioni politiche controverse, il che significa che ogni ministro può fare quello che vuole. Hanno mano libera, non importa quanto sia esplosiva la questione. I sostenitori della pace nella coalizione di governo di Israele hanno avuto abbastanza tempo per capire che qualcosa è storto qui. È impossibile mettere da parte le questioni dell’occupazione e dell’insediamento sotto la rubrica dello status quo ed evitare di affrontarle. Non possono lasciare che la destra e Gantz da soli determinino la politica del governo sulla questione più cruciale per il nostro futuro.

Il timore che i sostenitori dei due Stati si mettano a litigare e che inevitabilmente facciano esplodere le politiche del governo, fino a provocarne la dissoluzione, è comprensibile. Ma bisogna almeno dire qualcosa, fare richieste, fare qualcosa.

Secondo l’agenda del comitato, c’è ancora un giorno per fermare il piano a Qalandiya/Atarot. Può darsi che il segretario di Stato americano Anthony Blinken intervenga per mandare a monte il processo. Se i partiti ‘pro-pace’ al potere continuano a comportarsi come le tre scimmie, non sentendo, non vedendo e non dicendo nulla, la distruzione di ogni possibilità di pace sarà registrata nei nomi di Meretz, Labor, Yesh Atid, Kachol Lavan e la Lista Araba Unita”, conclude la ricercatrice di Peace Now.

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Lo “Stato” dei coloni

Settecentocinquantamila abitanti. Centocinquanta insediamenti. Centodiciannove avamposti. Il 42 per cento della West Bank controllato. L’86 per cento di Gerusalemme Est “colonizzata”. Uno Stato nello Stato. Dominato da una destra militante, fortemente aggressiva, ideologicamente motivata dalla convinzione di essere espressione dei nuovi eroi di Eretz Israel, i pionieri della Grande Israele. Quella che si svela è una verità spiazzante: oggi in Terrasanta, due “Stati” esistono già: c’è lo Stato ufficiale, quello d’Israele, e lo “Stato di fatto”, consolidatosi in questi ultimi cinquant’anni: lo “Stato” dei coloni in Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank).

A dar conto delle dimensioni di questo “Stato” sono i dati di un recente rapporto di B’tselem (l’ong pacifista israeliana che monitorizza la situazione nei Territori). Lo Stato “di fatto” ha le sue leggi, non scritte, ma che scandiscono la quotidianità di oltre 750mila coloni.

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Lo “Stato di Giudea e Samaria” è armato e si difende e spesso si fa giustizia da sé contro i “terroristi palestinesi” che, in questa visione manichea, coincidono con l’intera popolazione della Cisgiordania. Molti attacchi contro i palestinesi sono stati registrati nelle aree di Ramallah e Nablus (Cisgiordania occupata). In particolare, nella zona vicina agli avamposti della Valle Shiloh e in quella in prossimità degli insediamenti israeliani di Yitzhar (Nablus) e Amona (Ramallah), quest’ultimo da poco evacuato dal governo israeliano. Nel villaggio di Yasuf (governatorato di Salfit), i residenti palestinesi si sono svegliati con i pneumatici di 24 auto bucati e alcune scritte razziste in ebraico (“Morte agli arabi” tra le più diffuse) lasciate sulle loro abitazioni. Sono i cosiddetti “price-tag” (tag mechir in ebraico) ovvero gli atti di ritorsione (il “prezzo da pagare”) compiuti dagli attivisti di destra e coloni israeliani contro i palestinesi in risposta ad un attacco da parte di quest’ultimi.

Citando ufficiali della difesa, Haaretz scrive che gli attivisti di destra più estremisti sono “i giovani delle colline”, molti dei quali vivono negli avamposti illegali della Cisgiordania e il cui numero è stimato intorno alle trecento unità. Un dato interessante è che la maggior parte dei responsabili delle violenze è giovanissima (tra i quindici e i sedici anni). Nel 1997, a un anno dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, c’erano circa 150.000 coloni in Cisgiordania. Due decenni dopo il numero dei coloni è vicino ai 600.000, esclusi i quartieri di Gerusalemme est oltre la Linea Verde. Questi dati non includono i coloni che vivevano negli avamposti illegali (complessivamente si superano i 750.000). 

La denuncia di Hrw

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“Un rapporto pubblicato da Human Rights – scrive Michela Perathoner inviata di Unimondo in Palestina–  dimostra con chiarezza la discriminazione perpetrata da Israele nei confronti della popolazione palestinese. ‘I bambini palestinesi che vivono in aree sotto controllo israeliano studiano a lume di candela, mentre vedono la luce elettrica attraverso le finestre dei colonii, dichiara a tale proposito Carroll Bogert, vice-direttore esecutivo per le relazioni esterne di Human Rights Watch. 

Il rapporto Separati ed ineguali, ultimo di una serie di documenti pubblicati dall’organizzazione per la tutela dei diritti umani sulla questione palestinese, identifica pratiche discriminatorie nei confronti dei residenti palestinesi rispetto alle politiche che vengono invece promosse per i coloni ebrei. Un sistema di leggi, regole e servizi distinto per i due gruppi che abitano la Cisgiordania: in poche parole, secondo Human Rights Watch le colonie fiorirebbero, mentre i palestinesi, sotto controllo israeliano, vivrebbero non solo separati e in maniera ineguale rispetto ai loro vicini, ma a volte anche vittime di sfratti dalle proprie terre e case. 

‘È assurdo affermare che privare ragazzini palestinesi dell’accesso all’istruzione, all’acqua o all’elettricità abbia qualcosa a che fare con la sicurezza’, spiega ancora Bogert. Perché il problema, come sempre, è  la sicurezza, e le motivazioni indicate dal Governo israeliano qualora si parli di discriminazioni o trattamenti differenziati tra coloni e palestinesi residenti in Cisgiordania, vi vengono direttamente o indirettamente collegate. 

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Il rapporto, insomma, identifica pratiche discriminatorie che non avrebbero ragione di esistere neanche in base a questo genere di motivazioni. Come denunciato da Human Rights Watch, infatti, i palestinesi verrebbero trattati tutti come dei potenziali pericoli per la sicurezza pubblica, senza distinguere tra singoli individui che potrebbero rappresentare una minaccia effettiva e le altre persone appartenenti allo stesso gruppo etnico o nazionale. Atteggiamenti e politiche discriminatorie, insomma. ‘I palestinesi vengono sistematicamente discriminati semplicemente sulla base della loro razza, etnia o origine nazionale, vengono privati di elettricità, acqua, scuole e accesso alle strade, mentre i coloni ebrei che vi abitano affianco godono di tutti questi benefici garantiti dallo Stato’, ha dichiarato Bogert. Il risultato ottenuto dalle politiche discriminatorie di Israele, che secondo Hrw renderebbero le comunità praticamente inabitabili, sarebbe, insomma, quello di forzare i residenti ad abbandonare i loro paesi e villaggi.

Secondo l’analisi realizzata da Human Rights Watch sia nell’area C che a Gerusalemme Est, la gestione israeliana prevederebbe in entrambe le zone generosi benefici fiscali e di supporto a livello di infrastrutture nei confronti dei coloni ebrei, mentre le condizioni per i locali palestinesi sarebbero tutt’altro che vantaggiose. Carenza di servizi primari, penalizzazione della crescita demografica, esproprio di terre, difficoltà amministrative per l’ottenimento di ogni genere di permessi: vere e proprie violazioni dei diritti umani, in quanto si tratterebbe di discriminazioni effettuate solo ed esclusivamente sulla base di un’appartenenza razziale ed etnica. Tutte misure che, secondo quanto denunciato da Human Rights Watch, avrebbe limitato, negli ultimi anni, l’espansione delle comunità palestinesi e peggiorato le condizioni di vita dei residenti”. 

Così l’inviata di Unimondo.

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La denuncia di Save the Children

Nel report Il pericolo è la nostra realtà, Save the Childrem ha raccolto le testimonianze di oltre 400 bambini delle comunità più colpite dal conflitto in Cisgiordania e gli attacchi più comuni segnalati dagli studenti consistono nell’uso di gas lacrimogeni e nelle incursioni militari. 

In particolare, 3 studenti su 4 hanno riferito che le loro scuole sono state attaccate, una percentuale che sale al 93% per i bambini e i ragazzi di Nablus. Tre bambini su 4, inoltre, hanno paura di incontrare militari o colonmentre vanno a scuola e temono di essere insultati o minacciati con gas lacrimogeni o aggressioni fisiche. Uno studente su 4, ancora, non si sente al sicuro quando è a scuola e molti soffrono di ansia e stress che si manifestano attraverso sintomi fisici come tremori incontrollabili e svenimenti oppure perdita di autostima e paura. Quasi un terzo dei bambini ha poi raccontato di avere difficoltà a concentrarsi in classea causa delle situazioni che si trovano ad affrontare quotidianamente e, tra questi, 8 su 10 hanno detto che sullo svolgimento delle loro attività in classe incide fortemente la paura.

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Alcuni studenti hanno iniziato a piangere e altri stavano soffocando quando i soldati hanno sparato i gas lacrimogeni. Non riuscivamo a respirare, anche a causa della paura e dell’ansia che provavamo. C’era un odore di gas e ci bruciavano gli occhi. A scuola non eravamo equipaggiati per affrontare una simile esperienza. È stato doloroso e ho avuto molta paura, è la testimonianza di Rima*, 13 anni, che ha ricordato l’attacco contro la sua scuola a Betlemme.

“I soldati hanno attaccato la mia scuola tre o quattro volte l’anno scorso. Hanno gettato lacrimogeni e sparato munizioni vere. Alcuni insegnanti e studenti non riuscivano a respirare, è arrivata l’ambulanza e siamo andati tutti a casa”, ha raccontato Farea*, 12 anni, di Hebron.

Questa è la “normalità” nei Territori occupati. Una “normalità” che fa orrore. Raccontarla è un dovere. Cancellarla è un crimine. Anche mediatico. 

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(*nomi di fantasia per tutelare l’identità dei bambini intervistati).

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