Gerusalemme insanguinata: la doppia sfida di Hamas

Il rischio è che gli attacchi terroristici sul Monte del Tempio hanno la pericolosa tendenza ad accendere una conflagrazione più grande - a Gerusalemme, in Cisgiordania e talvolta all'interno della Linea verde del 1967.

Gerusalemme insanguinata: la doppia sfida di Hamas
Attentato a Gerusalemme
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Novembre 2021 - 16.53


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La disperazione può servire per innescare un nuovo conflitto piegato a logiche di potere interne al campo palestinese. 

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Di grande interesse, a tal proposito, è l’analisi su Haaretz di uno dei più autorevoli giornalisti israeliani: Amos Harel

“Gli attacchi terroristici sul Monte del Tempio o nelle sue vicinanze – annota Harel – hanno la pericolosa tendenza ad accendere una conflagrazione più grande – a Gerusalemme, in Cisgiordania e talvolta all’interno della Linea verde del 1967.

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La sparatoria mortale di domenica, che è costata la vita ad un fedele ebreo e il ferimento di altri quattro israeliani non lontano dall’entrata del Muro Occidentale da parte di un attivista di Hamas del campo profughi Shoafat di Gerusalemme potrebbe portare a qualcosa di simile. La polizia ha rafforzato le sue forze nella Città Vecchia di Gerusalemme e l’esercito sta affinando la preparazione delle sue unità in Cisgiordania, nella speranza che questa volta non ci sia un’altra conflagrazione.

La doppia sfida di Hamas

A maggio, quando le tensioni sono aumentate intorno al Monte del Tempio, il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ha approfittato della situazione per dimostrare le capacità della sua organizzazione. Hamas ha sparato sei razzi nella zona di Gerusalemme con il pretesto di difendere la moschea di Al-Aqsa. Questo ha portato a una dura risposta israeliana che è culminata in una guerra totale con Hamas. Quasi quattro anni prima, nell’estate del 2017, membri del Movimento islamico della città araba israeliana di Umm al-Fahm hanno ucciso due poliziotti israeliani all’ingresso del Monte del Tempio. Il governo Netanyahu ha risposto installando dei metal detector agli ingressi del Monte. Ne è seguita una crisi regionale che ha quasi portato a una rivolta palestinese. Includeva un attacco mortale contro gli israeliani in Cisgiordania e portò a un forte disaccordo tra gli alti funzionari della difesa israeliana e a forti tensioni con la Giordania. Alla fine il governo fu costretto a cedere e a rimuovere i metal detector.

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Poiché alcuni politici israeliani apparentemente pensano che il pubblico abbia una memoria estremamente corta, l’uccisione di domenica a Gerusalemme è stata immediatamente seguita dal consueto diluvio di risposte. Come al solito, l’estrema destra ha accusato il governo del primo ministro Naftali Bennett di incompetenza di fronte al terrorismo, come se esattamente lo stesso tipo di incidenti non si fosse verificato durante il mandato di ogni governo precedente, indipendentemente dal primo ministro di allora.

Tra tutti, il ministro delle comunicazioni Yoaz Hendel del partito Nuova Speranza è stato quello che ha suggerito di rispolverare l’idea di reinstallare i metal detector, perché cosa potrebbe avere più successo di un precedente abietto fallimento? Si spera che il primo ministro Bennett, che era membro del gabinetto guidato da Netanyahu quando questa follia è stata tentata l’ultima volta, non sia tentato di riprovarci. Come nei turni passati, Hamas sarebbe felice di cogliere l’opportunità. I portavoce del gruppo hanno salutato l’uccisione di domenica mattina e hanno annunciato con orgoglio che il terrorista, un attivista veterano sui 40 anni, era uno di loro. La dichiarazione di Hamas, insieme alle celebrazioni nelle città della Striscia di Gaza dopo l’attacco, è in totale contrasto con la denuncia che Hamas ha presentato dopo l’annuncio della settimana scorsa dei piani del governo britannico di designare l’ala politica di Hamas come organizzazione terroristica, proprio come la sua ala militare.

Hamas si è anche affrettato a sostenere che l’adolescente palestinese che è stato colpito e ucciso dopo aver accoltellato un poliziotto di frontiera nella Città Vecchia di Gerusalemme giovedì era uno dei suoi. In entrambi i casi, la polizia ha rapidamente ucciso gli assalitori. (Nell’incidente della settimana scorsa, sono stati raggiunti da un civile armato).

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Oltre Gerusalemme

Una delle preoccupazioni ora è quella di attacchi imitativi. In particolare, alla luce del fatto che l’attacco di domenica è avvenuto nelle vicinanze del Monte del Tempio, ciò genera sensibilità religiosa e la possibilità che altri palestinesi possano cercare di seguire il percorso dei terroristi morti.

Oltre a Gerusalemme, resta da vedere come i due attacchi più recenti possano influenzare altre aree. La Cisgiordania è stata relativamente tranquilla ultimamente, a parte gli incidenti locali, alcuni dei quali hanno coinvolto attriti tra gli abitanti dei villaggi palestinesi e i residenti degli avamposti ebraici adiacenti. Ma la presa delle forze di sicurezza palestinesi nell’Area A della Cisgiordania, dove l’Autorità Palestinese ha poteri civili e di sicurezza, e nell’Area B, dove ha autorità civile, si sta indebolendo. Al momento, questo si sta manifestando principalmente in frequenti e violenti scontri tra le forze di sicurezza palestinesi e Fatah e uomini armati islamisti nei campi profughi nel nord della Cisgiordania. Ma questo potrebbe facilmente espandersi in ulteriori attacchi contro Israele.

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Per la prima volta dopo molto tempo, nel fine settimana l’Autorità Palestinese ha dichiarato l’inizio di un’operazione per ripristinare il governo nel campo profughi di Jenin, dove la sua presa si è particolarmente indebolita. L’AP prevede di arrestare decine di ricercati del campo. Si prevedono scontri tra la polizia palestinese e le bande armate che non sono abituate ad avere pattuglie delle forze di sicurezza palestinesi in zone che considerano come proprie – e non accettano una tale presenza.

L’establishment della difesa di Israele sta osservando da vicino per vedere se i recenti incidenti a Gerusalemme hanno un impatto anche sulla situazione nella Striscia di Gaza. Come riportato da Haaretz domenica, le cose sembrano calmarsi al confine di Gaza, con l’accordo di entrambe le parti all’espansione degli aiuti economici per la Striscia e più permessi di lavoro israeliani per i residenti di Gaza.

Hamas probabilmente tenterà di continuare a giocare da entrambe le parti – incoraggiando il terrorismo a Gerusalemme e in Cisgiordania, in parte nella speranza di destabilizzare il governo dell’Autorità Palestinese e i legami dell’AP con Israele. D’altra parte, deve fare attenzione a non esagerare a Gaza, in modo da evitare un altro scontro violento con Israele che cancellerebbe le sue conquiste degli ultimi mesi. Ma l’esperienza passata – l’ultima volta è stata a maggio – dimostra che Hamas ha difficoltà ad attenersi a tale politica e a volte è tentato di allungare i limiti con Israele in un modo che potrebbe portare a un’escalation nel sud.”

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Così l’analista israeliano.

I giovani della Porta di Damasco

La memoria torna alla “rivolta” della “Piazza Tahir palestinese”: la Porta di Damasco, l’ingresso principale alla città vecchia di Gerusalemme.

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Per i giovani protagonisti delle proteste della Porta di Damasco, le tradizionali leadership politiche non hanno presa. Non sono modelli da seguire. E a funzionare non è neanche più il mito oramai sbiadito dal tempo di Yasser Arafat, né la chiamata alle armi da parte di Hamas e del Jihad islamico. “Sono i figli del disincanto, della perdita di speranza in un futuro normale”, riflette Sari Nusseibeh, il più autorevole intellettuale palestinese, già rettore dell’Università al-Quds di Gerusalemme Est: “Di Israele hanno conosciuto solo le barriere di filo spinato, i check point che spezzano in mille frammenti la Cisgiordania. I  più sono animati da un misto di rabbia e di delusione. Avrebbero bisogno di un progetto in cui credere, di segnali concreti che dicano loro che un’altra via è percorribile. Niente di tutto questo”.

Secondo Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research (Pcpsr), i giovani palestinesi sposano valori più liberali di quelli dei loro anziani e sono insoddisfatti della loro leadership politica. I giovani palestinesi sono anche più propensi a sostenere la resistenza armata all’occupazione e a favorire la soluzione di uno Stato unico, poiché per loro “la richiesta di indipendenza e sovranità è meno importante della richiesta di uguali diritti”, rimarca Shikaki. In un recente sondaggio del Pcpsr, i palestinesi che hanno indicato la disoccupazione e la corruzione come i problemi più seri che la società palestinese deve affrontare oggi sono più numerosi di quelli che hanno puntato il dito contro l’occupazione israeliana.

Ma come fecero i Fratelli musulmani egiziani nell’Egitto di Piazza Tahrir, dopo essere stati spiazzati da una rivolta giovanile tutt’altro che “islamista”, così nella Gerusalemme della rivolta della Porta di Damasco e di Sheikh Jarrah Hamas ha infiltrato il movimento di protesta, ha alimentato la tensione con i propri mezzi di comunicazione e soprattutto ha superato esplicitamente quella che il governo israeliano considera una linea rossa, cioè la sicurezza degli ebrei israeliani che abitano a Gerusalemme e Tel Aviv, prese più volte di mira dai razzi di Hamas.

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Attore politico

E qui torna la “questione Hamas”, che interroga sulla natura del movimento. La stampa mainstream mette tutto nello stesso calderone del “terrorismo islamico”. Come se non esistessero differenze sostanziali, di fini e non solo di strumenti, tra organizzazioni dedite al Jihad globale, come al-Qaeda e Isis, e movimenti islamo-nazionalisti quali sono Hamas e, in Libano, Hezbollah. Movimenti strutturati, che fanno della “resistenza” armata all’”entità sionista” una parte del proprio agire. Una parte, non il tutto. 

Annota Zvi Bar’el:, analista militare di Haaretz nei giorni della quarta guerra di Gaza:  “Molti alti dirigenti di Hamas che l’Idf ha ucciso dimostrano che Hamas non è una ‘organizzazione effimera’, come molti analisti hanno sostenuto. Alcuni di questi uomini occupavano posizioni di primo piano – il comandante della brigata di Gaza City, il capo dell’unità informatica e dello sviluppo missilistico di Hamas, il capo del dipartimento progetti e sviluppo, il capo del dipartimento di ingegneria, il comandante del dipartimento tecnico dell’intelligence militare e il capo della produzione di attrezzature industriali. Si tratta di un esercito con un bilancio serio, gerarchizzato e organizzato, formato da professionisti, con il know-how necessario per gestire le infrastrutture sia per la sopravvivenza che per le offensive. Un esercito  soggetto a una leadership politica e civile eletta, che ha filiali in Libano, Turchia, Qatar e persino in Arabia Saudita. Ha un Consiglio consultivo che detta i suoi princìpi strategici, un’amministrazione civile incaricata di gestire il sistema educativo e sanitario, il commercio, l’approvvigionamento idrico ed elettrico. Questa è un’organizzazione che riesce ampiamente a radicare il suo monopolio sulla violenza, conosce i limiti della sua forza militare e gestisce le sue guerre di conseguenza. Hamas è ora  percepito come il grande difensore della sacra al-Quds, è riuscito ad escludere l’Autorità nazionale palestinese e la Giordania dallo status di padroni di casa”. 

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Zaki Chebab, uno dei più importanti giornalisti del mondo arabo, conclude così il suo libro Hamas. Storia di militanti, martiri e spie: “La realtà è che Hamas, a prescindere dalle sue fortune politiche, non scomparirà nel nulla, e nessuna azione militare riuscirà a sradicarlo. L’idea che l’esercito israeliano possa distruggere Hamas a suon di missili e carri armati riporta alla mente un raccapricciante commento degli americani durante la guerra in Vietnam:’ Abbiamo distrutto quel villaggio per salvarlo’. Questa strategia non funzionò in Vietnam e non funzionerà con Hamas. Hamas non è una forza guerrigliera venuta da un mondo alieno. Hamas è il fratello, è il vicino, o l’uomo che dà a tuo figlio i soldi per la sua istruzione. Fintanto che queste persone rappresenteranno il popolo palestinese nelle urne, l’Occidente e qualsiasi futuro governo dell’Anp dovrà accettarle per quello che sono – il lupo perde il pelo ma non il vizio – e dovrà trattare con loro”. Il libro di Chebabi è del 2007. Quattordici anni dopo, le sue conclusioni reggono ancora.  

D’altro canto, combattere costa meno che fare la pace. Perché “fare la pace”, tra Israeliani e Palestinesi, non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significa molto di più: ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri. Significa immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell’altro e, per quanto riguarda Israele, guardare ai Palestinesi come un popolo e non come una moltitudine ingombrante.  Nello schema di Hamas e in quello della destra israeliana non esiste il “centro”: chiunque si pone in questa ottica, altro non è che un ostacolo da rimuovere, con ogni mezzo, anche il più estremo. La destra israeliana ha bisogno di Hamas per coltivare l’insicurezza, per alimentare nell’opinione pubblica la sindrome di accerchiamento, divenuta psicologia nazionale. Quanto ad Hamas, può al massimo contemplare una “hudna” (tregua) con Israele ma mai un riconoscimento della sua esistenza.

Nei sanguinosi giorni della quarta guerra di Gaza, così rifletteva Pierre Haski, direttore di France Inter su Internazionale: “Ancora una volta la violenza diventa l’unica valvola di sfogo, in assenza della minima prospettiva politica. Il mondo intero resta a osservare, impotente ancora prima di porsi il problema. Certo, esistono massacri e guerre anche altrove, ma questo conflitto ha una carica simbolica particolare in una città dove convivono le tre grandi religioni monoteiste, e ha ripercussioni negative all’interno delle nostre società… Israele si sente troppo forte, la Palestina sa di essere troppo debole”.

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E il sangue continua a scorrere in Terrasanta. 

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