La Libia, da Gheddafi a Gheddafi: dieci anni di guerra civile e questo è il risultato
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La Libia, da Gheddafi a Gheddafi: dieci anni di guerra civile e questo è il risultato

Un Paese disseminato di lager in cui sono ammassati, in condizioni disumane, migliaia di migranti. E tutto questo per tornare a Gheddafi, ossia al figlio Saif al Islam che si candida presidente

Saif al Islam, figlio di Gheddafi
Saif al Islam, figlio di Gheddafi
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14 Novembre 2021 - 11.24


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Dieci anni e passa di guerra,  di morte e distruzione. Un Paese lacerato, in perenne caos (armato), diventato teatro di scontro tra innumerevoli attori esterni. Un Paese pieno di mercenari, milizie in armi, organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani. Un Paese disseminato di lager in cui sono ammassati, in condizioni disumane, migliaia di migranti. E tutto questo per tornare…a Gheddafi. Non a Muammar, il rais fatto fuori il 20 ottobre di dieci anni fa, ma suo figlio, Saif al Islam. E’ io “gioco dell’oca” libico. Un gioco insanguinato. 

Firma la candidatura

Quella che fino ad oggi era una supposizione, per quanto fondata, ora è realtà. Saif al Islam Gheddafi ha firmato ufficialmente la sua candidatura alle elezioni presidenziali fissate per il 24 dicembre prossimo. Il secondogenito del defunto rais aveva recentemente manifestato, attraverso un’intervista concessa al “New York Times” lo scorso maggio (ma pubblicata a luglio), l’intenzione di candidarsi alle elezioni, eventualità che ha suscitato la reazione avversa delle milizie rivoluzionarie di Tripoli e di Misurata. L’11 agosto scorso, l’operazione militare “Vulcano di rabbia (coalizione militare composta in larga parte da miliziani filo-islamisti) aveva riferito che l’ufficio della Procura militare della Libia avrebbe spiccato un mandato di cattura contro Saif al Islam Gheddafi, richiedendo l’assistenza delle autorità militari e di sicurezza per l’arresto.

Vale la pena ricordare che Saif al Islam è ancora ricercato dalla Corte penale internazionale per presunti crimini contro l’umanità. Gheddafi non appare in pubblico dal 2011, dopo essere stato catturato nel deserto libico dai ribelli in seguito al rovesciamento e alla successiva uccisione di suo padre. Nel 2015, Saif al Islam Gheddafi è stato condannato a morte, salvo poi essere liberato nel 2017 e da allora vivrebbe nascosto nella città nordoccidentale di Zintan. L’11 giugno scorso fonti vicine a Gheddafi hanno riferito al quotidiano britannico The Times che il figlio dell’ex rais libico sarebbe pronto a tornare alla vita pubblica. Nel maggio 2020, il nome di Saif al Islam era tornato a circolare sui media, in particolare a causa delle notizie riguardanti un presunto piano per la sua uccisione ordito dai servizi segreti turchi. Allora, fonti a conoscenza dei fatti contattate da Agenzia Nova avevano riferito che il figlio del deposto leader libico aveva iniziato, dopo la sua liberazione da parte delle milizie di Zintan nel giugno 2017, a riprendere la frequentazione di alcuni circoli particolarmente importanti in Libia.

 

 Houston c’è un problema…

“Il mondo ha un problema con la candidatura di Saif al-Islam Gheddafi alle elezioni presidenziali”, ha affermato recentemente il vicesegretario di Stato americano per gli affari del Vicino Oriente, Joey Hood, chiarendo che chiunque si candidi alle elezioni libiche è “una questione che deve decidere il popolo libico”, come a dire aspettiamo che lo blocchino i suoi. Cosa che non è avvenuta.

La Russia, dal canto suo, sembra voler sostenere la candidatura di Saif Gheddafi. Fino a questo momento il Cremlino aveva concesso il suo appoggio al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica.  Il cambio di rotta, attestata anche la presenza di Saif Gheddafi a Mosca, sembra ora essere chiaro. Pare che Vladimir Putin inoltre abbia già ricevuto una delegazione politica che avrebbe manifestato la decisione di appoggiare la candidatura come presidente di Gheddafi. E anche i sassi sanno che lo “Zar” del Cremlino è, assieme al presidente turco Recep Tayyp Erdogan, uno dei player centrale nella partita libica.

Sigillo di un fallimento

E’ di grande interesse rileggere alla luce della formalizzazione della candidatura dell’ambizioso rampollo del fu Colonnello, un passo di un’intervista concessa alcuni mesi fa a chi scrive dal generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, e prim’ancora dell’Aeronautica militare, consigliere scientifico dello Iai (Istituto affari internazionali), uno dei più autorevoli analisti militari.

Dieci anni dopo quella che lei ha definito una “sciagurata guerra”, si può sostenere che il paese nordafricano sia in via di stabilizzazione?

“Assolutamente no. In primo luogo, perché la Libia non è un paese. La Libia è un’espressione geografica, come diceva Metternich, ove risiedono una serie di popolazioni – stiamo parlando di un totale di 6 milioni di abitanti – suddivise in una miriade di municipalità, tribù, confraternite che non si sentono affatto di appartenere ad unico paese, ad un unico Stato. Non c’è un sentimento nazionale libico, non esiste. Questo è un punto che deve essere tenuto ben presente da chi opera nell’area, perché soltanto con un approccio molto articolato si potrà pensare di avere, in quel territorio, una entità istituzionale che, in qualche modo, rappresenti tutte le popolazioni presenti. Stiamo parlando di una sorta di confederazione, federazione, diamogli il nome istituzionale che vogliamo, dove tutte le voci presenti sul territorio che noi chiamiamo Libia abbiano modo di esprimersi e di ottenere i benefici di far parte di un’unica entità statuale. Da questo punto di vista, siamo ancora più lontani, come è dimostrato dalla storia degli ultimi dieci anni. Ogni tanto sembra accendersi un barlume di speranza, come nelle ultime settimane con questa ipotesi di elezioni a fine anno; ipotesi che però viene periodicamente rimessa in discussione dai singoli attori che non si sentono adeguatamente valorizzati dal possibile evolvere degli eventi. Adesso sento parlare del figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, che sarebbe sponsorizzato dalla Russia. Non dimentichiamoci che Gheddafi padre è riuscito a tenere insieme questo coacervo di popolazioni, usando metodi che non credo piacciano molto alle nostre “anime belle”. Però lui c’è riuscito. E se un suo erede riuscisse nello stesso intento, io credo che dovremmo chiudere un occhio, magari tutti e due, di fronte ai metodi impiegati. Perché noi abbiamo un interesse vitale ad avere un unico interlocutore al di là del mare. E questo è un interesse fondamentale proprio per la stabilità di tutti i nostri traffici. Non dimentichiamoci che quasi il 90% delle merci che importiamo ed esportiamo passano attraverso i canali del Mediterraneo”. 

Le riflessioni di Camporini trovano una conferma rafforzata nell’analisi di Antonio M.Morone su Nigrizia: 

“La questione, più in generale, del posto dei vecchi dirigenti del regime nella ‘nuova Libia’ – scrive tra l’altro Morone –  in effetti una delle partite chiave ancora irrisolte. Già nel 2013 la legge voluta dall’allora élite politica di Misurata per un embargo verso tutti gli esponenti e funzionari dell’ex regime, portò rapidamente al collasso del fragile sistema politico uscito dalle prime elezioni del 2012, contribuendo in modo decisivo a innescare quella crisi militare che si è chiusa – forse – nel 2021 con la nascita del nuovo governo Dbeidah. La verità è che in Libia sono in molti a coltivare una nostalgia crescente per l’ex regime, senza contare che alcuni distretti del paese, come Bani Walid e altri nel Fezzan, non hanno mai fatto mistero di auspicare una soluzione politica intesa a riproporre, se non proprio restaurare, l’ex regime. In fondo, proprio per essere una guerra civile, la crisi libica si è sempre composta di una parte della società che non solo combatté, armi alla mano, fino all’ultimo in favore di Gheddafi oltre la sua stessa morte, ma che ha anche continuato a sostenere il modello di stato e di società che l’ex regime aveva forgiato per oltre quattro decenni; dopo dieci anni di guerra durante i quali a perderci sono stati soprattutto i libici, la gente comune, non deve stupire il seguito che Saif, o chi per lui, potrebbe avere alle prossime elezioni politiche”.

La “profezia” Angelo Del Boca 

Avevo intervistato il più grande storico del colonialismo italiano in Nord Africa, recentemente scomparso,  pochi mesi dopo l’inizio della guerra. “E’ una storia  – affermò Del Boca, autore di una delle più documentate biografie su rais libico (Gheddafi. Una sfida dal deserto (Laterza)  – che si può guardare da molti lati, e comunque la si analizzi resta sempre una brutta storia. Perché è vero che c’è stata una risoluzione, la 1973, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che autorizzava l’attacco alla Libia di Gheddafi, ma poi questa facoltà è stata sicuramente snaturata, nel senso che ciò che si sta cercando di fare in tutti i modi è assassinare Gheddafi. Ormai nessuno tace su questa ipotesi. Gli stessi rappresentanti della Nato ammettono che se il Colonnello viene colpito e fatto fuori è ancora meglio…E’ quindi una guerra ‘strana’”. Strana, spiegò Del Boca, “perché in realtà la Francia ha un suo obiettivo, l’Italia un altro e gli Stati Uniti un altro ancora. Ma in definitiva nessuno sa come uscirne. E’ una guerra nata sotto una cattiva informazione e continua ad essere corredata da storie inverosimili, da veri falsi”. La realtà di questi dieci anni gli ha dato ragione. 

E oggi il cerchio si chiude. Si torna alla casella di partenza. Da Gheddafi a Gheddafi. Bel risultato davvero per gli sciagurati protagonisti della sporca guerra del 2011. 

 

 

 

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