Neanche il Papa smuove i finanziatori dei lager in Libia
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Neanche il Papa smuove i finanziatori dei lager in Libia

Le parole di Francesco all'Angelus suonano come un possente j’accuse nei confronti dei  grandi della Terra che si apprestano a riunirsi a Roma nel G20 a presidenza italiana.

Papa Francesco
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

25 Ottobre 2021 - 16.53


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Quelle parole suonano come un possente j’accuse nei confronti dei 

grandi della Terra che si apprestano a riunirsi a Roma nel G20 a presidenza italiana. Quelle parole inchiodano la comunità internazionale che o è silente o è complice – leggi finanziamento alla cosiddetta Guardia costiera libica – di aguzzini di stato o in divisa.

Quelle parole da scolpire

“Priorità al soccorso di vite umane in mare”, “condizioni di vita degne”, “percorsi regolari di migrazione e accesso alle procedure di asilo”. Dalla finestra del Palazzo Apostolico vaticano, Francesco ha allungato ieri lo sguardo alla Libia e alle sue tragedie, in primis quella di tanti rifugiati vittime di inaudite violenze, e stila un elenco alla comunità internazionale di quelle che sono le urgenze a cui deve immediatamente far fronte per porre fine ad una situazione disumana protratta per tanto – troppo – tempo

Al termine dell’Angelus domenicale,  il Papa ha espresso  la sua personale vicinanza “alle migliaia di migranti rifugiati e altri bisognosi di protezione in Libia”. Per loro Francesco pronuncia parole di sostegno, mosse da una preoccupazione profonda e una commozione reale.

“Non vi dimentico mai. Sento le vostre grida e prego per voi”

L’appello alla comunità internazionale

La denuncia del Pontefice è risuonata forte in piazza San Pietro: “Tanti di questi uomini, donne e bambini sono sottoposti a una violenza disumana”, afferma il Vescovo di Roma. E “ancora una volta” domanda alla comunità internazionale “di mantenere le promesse di cercare soluzioni comuni, concrete e durevoli per la gestione dei flussi migratori in Libia e in tutto il Mediterraneo”.

“E quanto soffrono coloro che sono rimandati… Ci sono dei veri lager lì”

No al ritorno di migranti in Paesi non sicuri 

 “Sentiamoci tutti responsabili di questi nostri fratelli e sorelle che da troppi anni sono vittime di questa gravissima situazione”. 

 “Occorre porre fine al ritorno dei migranti in Paesi non sicuri”, dice ancora il Papa. Insieme a questo, chiede di “dare priorità al soccorso di vite umane in mare con dispositivi di salvataggio e di sbarco prevedibile, garantire loro condizioni di vita degne alternative alla detenzione, percorsi regolari di migrazione e accesso alle procedure di asilo”.

Tutti responsabili

Francesco chiama tutti i cattolici del mondo a non restare indifferenti dinanzi a questo dramma contemporaneo, a non vederlo come qualcosa di lontano o troppo grande per poter agire.

Quel rapporto Onu

La denuncia del Papa trova conferma e supporto circostanziato in un recente report delle Nazioni Unite.

Probabili crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono stati commessi in Libia: è quanto emerge dal primo documento pubblicato nei giorni scorsi a Ginevra dalla Commissione di inchiesta indipendente voluta a giugno 2020 dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite (Unhcr). “Vi sono fondati motivi per ritenere che in Libia siano stati commessi crimini di guerra e che le violenze perpetrate nelle carceri e contro i migranti possono costituire crimini contro l’umanità”, si legge nel comunicato odierno.

Violazioni del diritto internazionale

Stupri da praticare ed esibire. Torture da infliggere al buio e sevizie da mostrare alla platea di prigionieri, perché le ferite aperte dei malcapitati siano da esempio per tutti e continuino ad alimentare il business degli abusi “sotto il controllo assoluto delle autorità”, rimarca la missione d’inchiesta indipendente dell’Onu in Libia. 

“Le nostre indagini hanno stabilito che tutte le parti in conflitto, compresi Stati terzi, combattenti stranieri e mercenari, hanno violato il diritto internazionale umanitario”, afferma Mohamed Auajjar, presidente della missione conoscitiva. “Alcune hanno anche commesso crimini di guerra”, ha aggiunto. La Commissione ha quindi identificato individui e gruppi – sia libici che attori stranieri – che potrebbero essere responsabili delle violazioni, degli abusi e dei crimini commessi nel Paese nordafricano dal 2016 ed ha elaborato un elenco “confidenziale” che rimarrà tale fino a quando non si “presenterà la necessità della sua pubblicazione o condivisione con altri meccanismi pertinenti”, ha spiegato l’Onu.

Abusi “organizzati” in mare e nelle carceri

La Commissione di Fact Finding stabilita dal Consiglio Onu sui Diritti umani aveva il mandato di documentare presunte violazioni e abusi dall’inizio del 2016. La missione tra l’altro ha esaminato la situazione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Sono vittime di “abusi in mare, nei centri di detenzione e per mano dei trafficanti”, denuncia Chaloka Beyani, membro della Commissione, che parla di “violazioni su vasta scala commesse da attori statali e non statali, con un alto livello di organizzazione, il che suggerisce crimini contro l’umanità”. 

In attesa di risposta

In passo indietro nel tempo: 9 aprile 20121.

Una lettera aperta al premier Draghi sulle violazioni sistematiche dei diritti umani perpetrate in Libia contro migranti e rifugiati. A scriverla è l’associazione Medu, Medici per i diritti umani. “Signor Presidente del Consiglio – si legge nella lettera – è con stupore e grande preoccupazione che abbiamo appreso quanto da Lei dichiarato in occasione della sua visita a Tripoli e della soddisfazione che ha ritenuto di dover esprimere per ‘quello cha fa la Libia con i salvataggi’ e, più in generale ‘sul piano dell’immigrazione’, ‘con l’aiuto e l’assistenza dell’Italia’”. 

“A queste Sue dichiarazioni – prosegue il Medu – sentiamo il dovere di rispondere, ricordando le migliaia di testimonianze di persone sfuggite in questi anni agli atroci centri di detenzione e sequestro libici. Testimonianze raccolte dai medici, psicologi ed operatori socio-sanitari di Medici per i Diritti Umani che in vari progetti in Italia e in Niger prestano quotidianamente assistenza a migranti e rifugiati e che raccontano dei gravi crimini contro l’umanità commessi in Libia su vasta scala nei loro confronti. Atti ignobili come torture, stupri e violenze ai quali uomini, donne e bambini vengono sottoposti sistematicamente nei centri di detenzione ufficiali e non ufficiali, da parte di gruppi criminali, miliziani, soldati e funzionari di polizia spesso indistinguibili tra di loro. Violazioni commesse ripetutamente anche a seguito dell’intercettazione durante la tentata traversata del Mediterraneo da parte della Guardia costiera libica che riporta forzatamente i profughi inermi nei lager libici, nel corso di operazioni che hanno ben poco a che vedere con ‘salvataggi’, ma sono l’occasione di ulteriori soprusi e violenze nei loro confronti”.
 “La Libia, Signor Presidente, non è un porto sicuro ma è tutt’ora La fabbrica della tortura che Medici per i Diritti Umani denunciava nel suo rapporto pubblicato un anno fa che raccoglie oltre tremila testimonianze dirette sopravvissute all’inferno libico dal 2014 al 2020. Con l’intento di farle giungere la voce di queste migliaia di persone da noi incontrate, desideriamo inviarle insieme a questa lettera aperta il suddetto rapporto che documenta come in oltre il 90% dei casi, i migranti e rifugiati detenuti in Libia hanno subito torture e trattamenti crudeli, inumani e degradanti proibiti dalle Convenzioni internazionali, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla nostra Costituzione. Teniamo a precisare che i nostri operatori continuano anche in questi giorni a raccogliere testimonianze delle atrocità commesse in Libia la cui fedele veridicità è tragicamente certificata dalle gravi sequele fisiche e psichiche impresse nel corpo e nell’anima dei sopravvissuti”.
 “Apprendiamo dalle Sue più recenti dichiarazioni di ieri in risposta ad una precisa domanda in conferenza stampa che durante la Sua visita a Tripoli ha anche auspicato nei colloqui bilaterali il superamento dei centri di detenzione per migranti. È questo un fatto certamente positivo ma del tutto insufficiente di fronte alla gravità e alle dimensioni di una tragedia che rimarrà nella storia. Crediamo, Signor Presidente, che sia veramente il tempo di lasciar da parte un po’ di realpolitik e mettere in campo per davvero quelle misure ‘umane, equilibrate ed efficaci’ a cui Lei stesso ha fatto riferimento”. “Auspichiamo, Signor Presidente – conclude il Medu – , che una maggiore consapevolezza del costo umano del sostegno incondizionato al Governo di Tripoli e dell’assistenza fornita alla Guarda costiera libica consentirà al suo Governo di adottare le misure indispensabili affinché l’Italia cessi di essere complice dei crimini contro l’umanità commessi in Libia”.

Sono trascorsi quasi 7 mesi da quella lettera aperta. Le cose sono cambiate. In peggio. 

 

Il prezzo dell’esternalizzazione

“L’Italia – annota Annalisa Camilli, in un documentato report su 

Internazionale – ha attive in Libia quattro missioni militari: la missione bilaterale di supporto alla Libia, il supporto alla guardia costiera libica, Unsmil (la missione dell’Onu in Libia) ed Eubam  (la missione dell’Unione europea per il controllo delle frontiere). Inoltre è presente nel Mediterraneo centrale con le operazioni marittime Mare sicuro della marina militare, con la missione europea Eunavfor Med Irini e con la missione Nato Seaguardian. Dal 2017 Roma ha speso in Libia un totale di 784,3 milioni di euro, di cui 213,9 in missioni militari. Nel complesso i fondi sono aumentati di anno in anno con il doppio obiettivo di fermare l’arrivo di migranti e di accrescere l’influenza italiana nell’ex colonia nel caos dal 2011, dopo la caduta dell’ex dittatore Muammar Gheddafi. Per l’addestramento e il sostegno alla guardia costiera libica lo stanziamento di fondi è passato dai 3,6 milioni di euro nel 2017 ai dieci milioni previsti nel 2020. In questi anni è cambiato in sostanza solo l’impegno su Eunavfor Med. La missione navale europea Sophia (attiva dal 2015) è stata sostituita nel 2019 dalla missione Irini, che ha cambiato obiettivo e si è concentrata sul pattugliamento della parte orientale della costa libica. Alcune funzioni che prima erano di Sophia sono state passate alla Guardia costiera libica.  Per quanto riguarda Mare sicuro si legge nel documento che “a seguito dell’evoluzione della crisi libica, si rende necessario potenziare il dispositivo aeronavale, al fine di contribuire ad arginare il fenomeno dei traffici illeciti e rafforzare le capacità di controllo da parte delle autorità libiche, con assetti con compiti di presenza, sorveglianza, sicurezza marittima, raccolta informativa e supporto alle autorità libiche”, annota ancora Camilli

Dieci anni dopo

 Il 20 ottobre 2011, dieci anni e cinque giorni fa fa e dopo otto mesi di guerra civile, il leader della Libia Muammar Gheddafi veniva catturato nell’entroterra di Sirte, brutalmente torturato e poi ucciso.

A tirare un  accurato bilancio di questi dieci anni è Federica Saini Fasanotti, Ispi e The Brookings Institution: “Guardando indietro nel tempo – scrive l’autrice – e passando attraverso le continue agitazioni causate dalla lotta per il potere fra le milizie della capitale – ormai definite veri e propri cartelli, spesso criminali – fino ad arrivare alle più distruttive fasi di una guerra civile che, negli ultimi dieci anni, ha mutato forma ma non sostanza, ciò che emerge è una classe politica individualista e fondamentalmente immatura, che si è rivelata incapace non solo di traghettare il Paese dalla dittatura alla democrazia, ma anche di gestirne i bisogni quotidiani legati alla distribuzione dell’acqua così come a quella dell’energia elettrica o della benzina, sino ad arrivare alla raccolta dei rifiuti per le strade. Strade che, se prendiamo quelle di Tripoli, al momento appaiono vitali, con la gente assiepata nei bar di sapore italiano che discute mentre conclude affari, ma che in realtà nascondono il dramma di una nazione che per dieci anni non è stata governata e che appare più disillusa che mai. In tanti sono emigrati, sottraendo alla propria terra competenze preziose e le poche eccellenze che sono rimaste guardano al futuro con ansia.

In un’intervista che uscì su Panorama nel febbraio del 1997, Gheddafi disse che se fosse crollato il suo regime, il Mediterraneo sarebbe divenuto un ‘mare insicuro’, mentre le sponde africane avrebbero visto la crescita di movimenti islamisti e di caos. Gheddafi conosceva bene il suo popolo, le divisioni interne e le sue debolezze. Spesso aveva utilizzato l’odio antitaliano prodotto da un colonialismo ingiusto e ‘straccione’ come collante per tenere insieme una nazione fragile ma che faceva gola a molti per le sue infinite risorse energetiche e la sua straordinaria posizione fra Mediterraneo e Nord Africa. Molti in Europa e in Occidente avevano sottovalutato, dando prova di una disarmante quanto pericolosa ignoranza, la reale portata della forza gheddafiana, non solo voltando le spalle al rais, quando ne aveva avuto bisogno, ma contribuendo alla sua violenta deposizione. Col tempo, e non solo grazie all’esperienza libica, si è capito che la democrazia occidentale non è un concetto facilmente esportabile e che esso può attecchire solo su terreni che sono pronti ad accoglierne il seme e a fare di tutto per farlo germogliare. Le tattiche utilizzate dalla comunità internazionale per raggiungere quella tanto ambita democrazia sono servite a poco, almeno sino ad oggi, e quei continui tentativi, rivelatisi sempre fallimentari, non hanno fatto che disilludere i libici.

Oggi l- conclude l’analisti di Ispi – a Libia è un Paese stanco, sfinito dai continui scontri e con poco entusiasmo. Molti sono i dubbi sulle future elezioni, soprattutto perché non esiste un apparato statale di sicurezza che possa assicurare una morbida accettazione dei risultati elettorali. Sono in molti, infatti, a temere agitazioni alla chiusura dei seggi, qualora le elezioni si riescano a tenere. La Libia ha bisogno di tempo, ma né le Nazioni Unite né i leader occidentali sembrano averlo capito”.

 

 

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