Moschee, aeroporti, alberghi. A Kabul si muore e a Doha si tratta

governi di Usa e Regno Unito hanno lanciato un’allerta ai loro concittadini avvertendo che gli alberghi, in particolare l'hotel Serena - un albergo di lusso molto popolare tra gli stranieri- rischiano attentati

Una manifestazione a Kabul
Una manifestazione a Kabul
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

11 Ottobre 2021 - 18.12


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Moschee, aeroporti. e ora anche gli alberghi. Kabul, come un po’ tutto l’Afghanistan, è tornata ad essere un campo di battaglia, se mai avesse smesso per un momento di esserlo. 

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I governi di Usa e Regno Unito hanno lanciato un’allerta ai loro concittadini in Afghanistan avvertendo che gli alberghi, in particolare l’hotel Serena – un albergo di lusso molto popolare tra gli stranieri- rischiano attentati. 

Non è stato specificato altro ma il consiglio per tutti è di non rimanere lì ed evitare la zona circostante. “A causa dell’aumento dei rischi si consiglia di non soggiornare in hotel” a Kabul, invita il Foreign Office sul proprio sito web, citando in particolare l’hotel Serena. Sulla stessa linea il Dipartimento di Stato Usa: “A causa di minacce alla sicurezza, raccomandiamo ai cittadini americani di evitare di soggiornarvi ed evitare la zona”. 

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 Tutto ciò mentre a Doha sono in corso i primi colloqui tra gli Stati Uniti e i talebani. 

A Kabul si muore, a Doha si tratta

Aiuti umanitari per l’Afghanistan, ma nessun riconoscimento formale dell’attuale governo. Sono questi i risultati dei colloqui, che si sono tenuti negli scorsi due giorni a Doha in Qatar, tra Stati Uniti e Talebani. I primi dal ritiro delle truppe americane. Entrambe le delegazioni si sono dette soddisfatte, anche se rimangono ancora molte questioni aperte, soprattutto per Washington: dal neonato Emirato islamico sono arrivate solo vaghe rassicurazioni sui diritti umani e sull’impegno ad arginare il terrorismo. Ancora nessuna apertura però a una collaborazione diretta contro al-Qaeda o l’Isis-K, anche dopo il recente attacco kamikaze alla moschea sciita di Kunduz,

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che ha provocato oltre 60 vittime e un centinaio di feriti.

“Gli incontri sono andati bene”, hanno fatto sapere Kabul: i talebani li hanno definiti “una grande opportunità” e sperano possano ripetersi presto. I colloqui sono stati “franchi e professionali” – ha ribadito il portavoce del Dipartimento di Stato Usa Ned Price – anche se i Talebani saranno “giudicati per le loro azioni, non per le loro parole”. Sul tavolo la “piena applicazione” dei precedenti accordi di Doha – negoziati con poco successo dall’amministrazione Trump, prima del ritiro delle truppe americane dello scorso 15 agosto – ma soprattutto l’emergenza umanitaria in Afghanistan. Da settimane circa 18 milioni di cittadini hanno bisogno di assistenza – secondo la Federazione internazionale delle società della Croce rossa e della Mezzaluna rossa (Ifrc) – a causa della siccità, della pandemia e della mancanza di denaro dovuta alle conseguenze economiche del recente conflitto.

Emergenza umanitaria

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Le razioni donate dal Pakistan – attraverso il confine di Chaman – non sono sufficienti: l’Emirato ha chiesto aiuti, “non vincolati ad accordi politici”, anche a Washington e ad altre organizzazioni occidentali. In cambio i talebani permetteranno il “libero movimento di soggetti stranieri” nello Stato e lavoreranno perché la consegna avvenga ”in modo trasparente”, senza il dirottamento dei fondi e la corruzione del ventennio precedente. Agli Usa – riferiscono media afghani vicini ai mullah – è stato chiesto anche sbloccare i fondi della Banca centrale di Kabul congelati, dopo la presa di potere talebana, all’estero (circa 9 miliardi di dollari), per lo più proprio nel loro territorio. Non si conoscono però ancora gli esiti di questa trattativa.

Riguardo agli altri temi in gioco, l’incontro è stato decisamente meno risolutivo. Sui diritti delle donne e delle minoranze il portavoce del ministro degli Esteri, Abdul Qahar Balkhi, aveva già chiarito la posizione dell’Emirato: “Quello che chiediamo è di avere tempo. Questo processo avverrà gradualmente – ha detto in un’intervista ad al Jazeera – in questo momento la nostra priorità è stabilizzare il Paese dopo 40 anni di guerra. Non vogliamo interferenze nei nostri affari interni, come noi non interferiamo in quelli degli altri”. Per ora saranno garantite “tutte le libertà assicurate dall’Islam“, cioè al momento molto poche. La politica sembra la stessa anche per l’impegno contro il terrorismo: “Siamo in grado di affrontare Daesh (l’Isis) autonomamente” ha affermato il portavoce Suhail Shaheen in un’intervista all’Associated Press. Per il momento una cooperazione con Washington è esclusa, ma gli studenti coranici – al momento all’esecutivo – garantiranno che il paese non sia la base per gli attacchi da parte di estremisti verso altri Paesi. L’avvertimento agli Usa però è stato chiaro: “Abbiamo detto chiaramente che cercare di destabilizzare il governo dell’Afghanistan non fa bene a nessuno – ha dichiarato il ministro degli Esteri, Amir Khan Muttaqi all’agenzia afghana Bakhtar – Alla parte statunitense è stato chiesto di non creare problemi alla popolazione”. Nonostante questo, l’intenzione a intrecciare relazioni diplomatiche internazionali è evidente. Prossimamente i Talebani incontreranno a Doha anche una delegazione dell’Unione Europea.

Il ritorno di al-Qaeda 

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La Cia intanto vede i primi segnali che i militanti di al-Qaeda stanno cominciando a tornare in Afghanistan, dopo il ritiro delle truppe Usa.   “Stiamo già cominciando a vedere alcune indicazioni di potenziali movimenti di al-Qaeda in Afghanistan”, ha detto in una conferenza David Cohen, vice direttore della Central Intelligence, nelle ore in cui il segretario di Stato Antony Blinken difendeva il ritiro nella sua seconda audizione, al Senato. “Ma sono i primi giorni e ovviamente terremo gli occhi molto aperti su questo”, ha aggiunto, come riferisce il Wall Street Journal. Al-Qaeda potrebbe riorganizzarsi in Afghanistan in soli 12-24 mesi e porre una significativa minaccia agli Usa, ha detto il generale Scott Berrier, che guida l’intelligence della difesa Usa, intervenendo al summit Intelligence & National Security.

La variante K

“Isis-K  – rimarca Gianluca Di Feo in un documentato report su Repubblica – vuole impedire qualsiasi stabilizzazione dell’Afghanistan. Combatte i talebani come negli scorsi anni ha cercato di aizzare la guerra civile, seminando bombe tra la comunità sciita degli hazara e la minoranza tagika. La sua roccaforte è sul confine pachistano, non lontano da Tora Bora dove Osama Bin Laden riuscì a sfuggire agli americani, con una radicata presenza nella capitale. Gli avanguardisti del Daesh non faticheranno a trovare armi più potenti, rifornendosi negli arsenali abbandonati dall’esercito nazionale, e probabilmente finanziatori stranieri interessati a indebolire i talebani. Con queste nuove energie cercherà di mettere a segno altri colpi clamorosi contro gli occidentali, necessari a propagandare le sue capacità ed arruolare reclute. E farà di tutto per creare cellule armate in Tagikistan, Uzbekistan e Kyrgyzstan. Lo scenario più terribile è che, sull’onda di Kabul, questa epidemia rivitalizzi le schegge dello Stato Islamico disperse nel Medio Oriente dopo la disfatta di Mosul: l’ultimo comandante militare del Califfato era proprio un tagiko – Gulmurad Khalimov – ucciso nel 2017 dai russi in Siria. Isis-K non è che una delle tante sigle letali in grado di svilupparsi dal focolaio afghano. Nella galassia magmatica del fondamentalismo armato vengono già segnalate altre frange – come il Tehreek-e-Taliban pachistano – che aprono sedi a Kabul, convinte finalmente di avere un oasi dove agire alla luce del sole. Una situazione peggiore a quella anteriore all’11 settembre: gli Stati Uniti non avranno neppure una base nei Paesi vicini, mentre all’epoca potevano almeno contare sulle postazioni in Tagikistan e Kyrgyzstan, che adesso sono tornati al fianco di Mosca. Infiltrare spie sul terreno diventerà difficile, sia per la sfiducia generata dalla ritirata, sia per l’assenza di strutture stabili. La sorveglianza sarà affare di satelliti, droni e intercettazioni. Ossia la rete elettronica che ha fallito nel prevenire la distruzione delle Torri Gemelle: dallo spazio è impossibile distinguere una fattoria afghana da un comando di Al Qaeda, mentre le salve di missili lanciate più volte contro Osama Bin Laden non hanno mai scalfito la sua organizzazione. Lezioni di cui non abbiamo saputo fare tesoro”, conclude Di Feo.

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D’altro canto, anche i servizi americani  non riescono più a negare che Isis abbia ormai il controllo di vaste e popolate aree nella provincia di Nangarhar e che la sicurezza, nella zona, sia particolarmente deteriorata . La strategia dell’Isis in Afghanistan è stata quella di attingere le nuove forze fresche proprio dal movimento talebano

“Il nemico del mio nemico…”

“In guerra si deve fare quello che devi per ridurre il rischio, non necessariamente quello che vorresti fare”, così il capo di Stato maggiore dell’esercito americano, il generale Mark Milley, ha commentato la cooperazione con i Talebani durante le operazioni di evacuazione dall’aeroporto di Kabul. Un accordo nato dalla convenienza più che dalla volontà di fornire le basi per le relazioni future tra i due governi. Ma durante la conferenza stampa del Pentagono, ieri, Milley ha ammesso che “è possibile” che gli Stati Uniti cerchino di coordinarsi per condurre operazioni di anti-terrorismo contro l’Isis-K. Lo Stato islamico della provincia del Khorasan, affiliato dell’Isis in Afghanistan, è un nemico comune a Stati Uniti e Talebani e il presidente americano Joe Biden ha più volte sottolineato l’interesse condiviso dai due.

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Il generale dei marines Frank McKenzie, capo del Comando centrale degli Stati Uniti, ha descritto il rapporto degli Stati Uniti con i talebani durante l’evacuazione come “molto pragmatico e professionale”, confermando che hanno contribuito a mettere in sicurezza l’aeroporto. Ma altri rapporti hanno descritto sparatorie e violenze e per impedire agli afghani di attraversare i cancelli.

Una recente inchiesta della Bbc metteva in evidenza come l’adesione allo Stato Islamico fosse divenuta economicamente più appetibile per gli afghani, considerato lo stipendio di 500$ mensili, cui il movimento talebano (in guerra dal 2001) non può sicuramente entrare in concorrenza. Dunque più si indeboliscono i talebani, più si rafforza l’Isis.  E per contrastarne la penetrazione i talebani schierano le loro forze speciali contro Isis. Il loro nome ufficiale è saraqitah “Red Group, Danger Group o Red Cell”. L’Emirato Islamico ha annunciato di aver schierato nell’est del Paese, in particolare tra le province di Laghman e Nangarhar, le sue unità top per dare la caccia ai piccoli gruppi Daesh presenti in zona e consolidare la leadership. Ciò dopo che i miliziani dello Stato Islamico avevano inflitto perdite alla formazione concorrente, conquistando porzioni di territorio. Finora, invece, i commandos jihadisti avevano operato soprattutto nel sud della nazione asiatica, nella guerra contro le forze di sicurezza (Ansf) di Kabul. Perciò, l’Isis – che in passato era definita spregiativamente poco più di una banda di criminali – è stato promosso a nemico numero. Forse anche prima delle forze internazionali e delle istituzioni afghane. Il pericolo di un progressivo sbilanciamento di forze a favore delle bandiere nere era stato denunciato dallo stesso leader Mullah Omar, ora defunto, in una lettera proprio rivolta al (pure lui defunto) Califfo Al-Baghdadi. Nella stessa il Mullah intimava il Califfo di “non cercare di penetrare in Afghanistan” e che la sua azione stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano. Nessuno –  spiega un comandante talebano intervistato dal Guardian  – sa chi sia la figura di riferimento di queste persone in Afghanistan e Pakistan. Semplicemente sono gruppi di una decina di persone che vanno su e giù per le montagne”. Le giovani reclute, sottolinea l’intervistato, e i Talebani sono mondi separati. Entrambi i gruppi puntano all’imposizione della sharia, la legge islamica, ma il Califfato non riconosce Stati né confini nazionali, mentre i Talebani sono nazionalisti che vogliono trasformare il proprio Paese. Sempre secondo il comandante talebano intervistato dal Guardian, ci sarebbe anche una differenza dottrinale. “Quando le persone – afferma  – chiedono ai militanti del Califfato che missione stia compiendo, loro rispondono ‘la vostra fede è debole e noi vogliamo renderla più forte'”. Gli ideologi dell’Isis sarebbero quindi troppo settari e intolleranti per i Talebani. Ed eserciterebbero una violenza cieca e insensata che i ribelli afghani , tornati al potere, avrebbero da anni respinto.

Nel mondo del Jihad lo scontro è appena iniziato. Il Corano c’entra poco o nulla, mentre c’entrano, e tanto, il controllo delle rotte della droga e i proventi miliardari che esso determina. 

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