In Libia ventitremila crimini finanziati dall'Italia
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In Libia ventitremila crimini finanziati dall'Italia

Ventitremila persone. Persone, non categorie “sociali”, non migranti, rifugiati, profughi. Persone. Esseri umani in fuga dalle atrocità di guerre, pulizie etniche, disastri ambientali, povertà assoluta

Migranti in un centro di detenzione in Libia
Migranti in un centro di detenzione in Libia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

28 Settembre 2021 - 16.24


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Ventitremila persone. Persone, non categorie “sociali”, non migranti, rifugiati, profughi. Persone. Esseri umani in fuga dalle atrocità di guerre, pulizie etniche, disastri ambientali, povertà assoluta. Una moltitudine di disperati che viene respinta nel “mar della Morte”, il Mediterraneo, e ricacciati indietro a forza da quell’organizzazione delinquenziale denominata Guardia costiera libica. Organizzazione che l’Italia continua a finanziare.

Nonostante la situazione della Libia continui a essere fortemente instabile dal punto di vista politico e sociale, nonostante le gravi atrocità compiute dalla sedicente guardia costiera libica e la continua violazione dei diritti umani, in base ai dati dell’International Rescue Committee (Irc) sono circa 23.000 gli immigrati intercettati in mare e poi riportati in Libia negli ultimi 8 mesi. 
Un rapporto inquietante

Si tratta di una cifra enorme, la più alta dal 2017, quasi il doppio rispetto al 2020 [

Il dato in questione diviene ancora più drammatico se si considera che tra queste 23.000 persone erano presenti anche più di 1.000 bambini e più di 1.500 donne(di cui almeno 68 in gravidanza).

Purtroppo, i dati del 2021 fanno registrare una netta inversione di tendenza che deve far riflettere. Se infatti nel 2017 si calcola che siano state 15.358 le persone intercettate dalla cosiddetta Guardia costiera libica, negli anni successivi il numero è diminuito, registrando nel 2019 il picco più basso, solo 9.000 migranti bloccati e rispediti in Libia.

Con il 2020 invece il numero è tornato a salire, circa 11.891, per poi arrivare, appunto, ai 23.000 di quest’anno. In 4 anni, quindi, almeno 60.000 persone sono state bloccate in mare e riportate nei centri di detenzione del Paese nordafricano.

“In soli otto mesi abbiamo visto più persone riportate in Libia dalla Guardia costiera libica di quante ne abbiamo mai viste prima. Ventitremila è un numero senza precedenti e mette in evidenza la gravità della situazione in Libia. Un decennio di violenze e disordini, un’economia in difficoltà e la pandemia di COVID-19 hanno esacerbato le sfide affrontate da tutti coloro che vivono nel Paese. Oggi, si stima che 1,3 milioni di persone abbiano bisogno di assistenza umanitaria, un aumento del 40% rispetto al 2020”, ha osservato l’International Rescue Committee.

Una situazione decisamente anomala che evidenzia la noncuranza da parte del nostro Paese dei principi del diritto internazionale. Una palese violazione infatti del divieto di respingimento e degli obblighi di soccorso in mare che prevedono lo sbarco in un “porto sicuro”.

Il respingimento generalizzato di uomini, donne e bambini, inoltre, viola i diritti sanciti a protezione delle singole categorie di soggetti, soprattutto quelli più fragili. Non vi è nessuna attenzione per i richiedenti asilo, per i rifugiati, per chi scappa da guerre o da altre situazioni particolari. E non si può certo considerare la Libia un luogo sicuro dove riportare queste persone che, come ampiamente testimoniato e provato, sono, in quel Paese, oggetto di persecuzioni, torture, violenze di ogni tipo.

“Non sono al sicuro in Libia e non possono tornare a casa o altrove, perché molti sono fuggiti da circostanze simili nei loro Paesi di origine o di transito. Spesso avranno già subito abusi e sfruttamento da parte di contrabbandieri nel loro viaggio per arrivare nel Paese nordafricano. Non c’è da meravigliarsi se vogliono andarsene, ma, dal momento che i modi sicuri e legali sono estremamente limitati, arrivare in Europa attraverso il Mediterraneo è spesso considerata l’unica possibilità per raggiungere la sicurezza”, ha affermato il direttore nazionale dell’IRc in Libia, Tom Garofalo.

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I numeri riportati nel rapporto della Ong Irc divengono ancora più significativi se si considera il quadro generale della Libia caratterizzato da una situazione di forte instabilità politica, economica e sociale. Da questo punto di vista, i respingimenti effettuati dal nostro Paese, appaiono ancor più gravi proprio perché vengono compiuti in totale dispregio del diritto internazionale ma anche con assoluta indifferenza rispetto alla sorte di migliaia di essere umani.

Oggi la Libia è infatti un Paese caratterizzato ancora da fortissime tensioni e da un futuro incerto. Anche se le elezioni sono state indette per il mese di dicembre allo scopo di mettere fine ai conflitti presenti nel Paese, le controversie sul voto sono ancora forti e minacciano di ostacolare il processo di pace. “Tutte le parti in Libia e le potenze straniere coinvolte nella situazione libica affermano che le elezioni devono andare avanti, ma il forum di dialogo, sostenuto dalle Nazioni Unite, e le istituzioni esistenti nel Paese non hanno concordato una base costituzionale per il voto” 

La grande crisi politica vissuta negli anni scorsi dalla Libia ha avuto evidenti ricadute anche sulla situazione economica e sociale. Dal punto di vista economico, nel 2020, è stata registrata una contrazione economica del 31%, con evidenti conseguenze soprattutto condizioni sociali del Paese. Una crisi economica legata principalmente al blocco delle estrazioni petrolifere che è durato per tutti i primi 9 mesi del 2020.

Naturalmente, con il cessate il fuoco raggiunto nel mese di ottobre del 2020 la situazione è leggermente migliorata ma la strada da percorrere è ancora lunga.  
A peggiorare la già fragile situazione economica e sociale vi è stata la pandemia di Covid-19, la quale ha colpito un Paese con infrastrutture e servizi sanitari limitati. Le misure adottate per contenere la diffusione del virus, dal lavoro alla mobilità alle scuole, hanno avuto conseguenze per l’intero sistema economico, e gli effetti sono stati ancora peggiori per sfollati, immigrati e rifugiati.

La “confessione”

 Il ministero dell’Interno del Governo di unità nazionale della Libia ha pubblicato la “confessione” di un trafficante egiziano noto come Abu Samra, classe 1988, accusato della morte per annegamento nel Mediterraneo di 11 migranti provenienti dal villaggio egiziano di Tilbanah. Secondo un comunicato del ministero, Abu Samra ha rivelato i dettagli del naufragio avvenuto tempo fa al largo delle coste libiche, indicando di aver avuto due complici libici. Questi ultimi hanno svelato al trafficante libico come avvenivano le operazioni di emigrazione illegale verso Italia. Abu Samra ha ammesso di aver preparato la traversata di 51 egiziani, terminata poi con l’annegamento di 11 di loro. Il trafficante ha affermato che i motori dell’imbarcazione hanno avuto un guasto e la barca si è ribaltata mentre stava avvicinando una motovedetta della Guardia costiera di Zawiya. Secondo il resoconto di Abu Samra, almeno uno dei passeggeri è deceduto, mentre altri dieci risultano dispersi.

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Voci dall’orrore 

Voci che giungono dalla  Ocean Viking di Sos Mediterranee dove si trovano 123 migranti salvati nei giorni scorsi nel Mediterraneo centrale.

Un ragazzo di 15 anni racconta: “In Libia ti possono uccidere senza motivo. Una guardia in un campo mi odiava perché indossavo una canotta, mi ha colpito al piede col calcio del fucile. Ho ancora la cicatrice. Da quel momento ho portato le maniche lunghe per non morire».

Migranti ambientali

Almeno 216 milioni di persone nel mondo saranno costretti a lasciare tutto quello che hanno e migrare a causa del cambiamento climatico entro il 2050. Sono i numeri, drammatici, evidenziati dall’ultimo Rapporto Growndshell della Banca Mondiale, che ricorda come l’impatto sui mezzi di sussistenza delle persone e la perdita di vivibilità di luoghi altamente esposti a eventi climatici estremi spingeranno un numero importante di cittadini, in tutto il mondo, a spostamenti interni o transnazionali. Entro il 2050, si legge, l’Africa subsahariana potrebbe contare fino a 86 milioni di migranti climatici interni e 19 milioni il Nord Africa. In Asia orientale e Pacifico si stimano 49 milioni, 40 milioni per le aree asiatiche meridionali. Per l’America Latina si prevedono 17 milioni e tra Europa orientale e Asia centrale 5 milioni.

Cartoline dall’inferno

Il resoconto che segue si basa sulle testimonianze di cinque migranti raccolte negli ultimi 9 mesi dal team medico-psicologico di Medici per i Diritti Umani (Medu) presso l’ambulatorio di Ragusa, in Sicilia. Si tratta di migranti vulnerabili assistiti da MEdu e sopravvissuti a diversi mesi di detenzione e torture presso il centro di sequestro di Al Harsha in Libia. Tutti hanno dovuto pagare un riscatto tramite le loro famiglie per essere rilasciati.

Le atrocità anche nelle carceri del governo. 

I testimoni non solo hanno descritto le atrocità che vengono consumate in questo centro illegale, ma hanno anche denunciato la connivenza tra i criminali di Al Harsha e i miliziani che controllano la prigione Al-Nasr di Al-Zawija, chiamata dai testimoni anche Ossama Prison, sotto il formale controllo del governo libico. I testimoni hanno inoltre illustrato con chiarezza di dettagli la topografia del centro di Al Harsha. Il lager di Al Harsha si trova ad Al-Zawija, città costiera situata 50 chilometri ad ovest di Tripoli. Essa è uno dei principali punti di imbarco utilizzati dai trafficanti per far salpare i migranti verso l’Italia. Il centro si trova nelle vicinanze di una moschea ed è circondato da alte mura. Come si evince dalla mappa aerea (foto in alto), al suo interno si trovano diversi capannoni e containers ed un grande cortile che spesso funge anche da deposito di alcune imbarcazioni (il mare non è molto distante).

Haithem, il benzinaio-aguzzino. 

Secondo le testimonianze dei migranti detenuti in questo centro, esso può arrivare a contenere anche 200-300 persone recluse. Chi è a capo del lager di Al Harsha è un uomo libico di nome Haithem che possiede anche una pompa di benzina a pochi metri dal centro. Haithem dispone di un gruppo di uomini armati e violenti e di un braccio destro, il fratello Ismael. Questa la testimonianza di un migrante raccolta il 23 giugno scorso dal team medico-psicologico di Medu: “Haithem è il nome del libico che comanda nella prigione informale di Al Harsha. Lui si fa aiutare dal fratello Ismael: sono violenti e armati e con il loro gruppo mi tenevano rinchiuso insieme ad altri 300 migranti, bengalesi e subsahariani. Mi hanno picchiato e maltrattato per 2 mesi, trattato peggio di una bestia, e mi hanno negato cibo e acqua. Mentre ero recluso ad Al Harsha ho visto decine di migranti bengalesi come me presi a pugni e calci, colpiti col bastone, umiliati.

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Haithem che tiene rapporti d’affari con i soldati. 

Haithem, il libico, spesso si fa aiutare da altri migranti a torturare le persone rapite: li costringe a farlo ed alcuni li paga. Mentre ero lì dentro ho visto più volte arrivare soldati e altri migranti bengalesi. Ho capito e sentito che provenivano da Ossama Prison. Haithem tiene rapporti con i soldati di quel carcere e fa affari con loro. Anche loro chiedono il riscatto e vendono le persone incarcerate. I soldati di Ossama Prison facevano irruzione nella struttura dove ci tenevano reclusi e facevano festa usando droghe, cibo e alcool assieme al gruppo di Haithem. Spesso ubriachi o sotto effetto di droghe usavano violenza contro di noi e ci colpivano. Era terribile.”

Le torture a scopo di estorsione. 

Secondo le testimonianze, i migranti (subsahariani e bengalesi soprattutto) sequestrati ad Al Harsha vengono sistematicamente torturati dai rapitori a scopo di estorsione. Per essere rilasciati occorre pagare un riscatto di 3.000/5.000 euro. Al suo interno vengono praticate le più atroci forme di tortura fisica e psicologica. I criminali libici di Al Harsha esigono spesso l’aiuto di altri migranti nella pratica della tortura. Alcuni di essi, di origine bengalese, si trovano attualmente sotto processo presso il tribunale di Palermo con l’accusa di aver collaborato a diverse tipologie di violenze e soprusi. Alcuni dei migranti che hanno raccontato la loro storia a Medu stanno attualmente testimoniando alle udienze del processo.

“E’ ipocrita ignorare le gravissime violazioni”. Medu torna a chiedere un cambiamento radicale del Governo italiano nelle relazioni con la Libia in merito alla questione migratoria, con un approccio che anteponga a qualsiasi tipo di collaborazione il prioritario rispetto dei diritti umani dei migranti. Sebbene sia doveroso da parte dell’Italia collaborare con quel Paese per contribuire al suo processo di stabilizzazione e di democratizzazione, il nostro Governo non può ipocritamente ignorare le gravissime violazioni dei diritti umani che si compiono nei confronti di decine di migliaia di migranti detenuti nei suoi centri di detenzione formali e informali, né può ignorare il ruolo svolto dalla Guardia costiera libica nel riportare migliaia di persone in questi veri e propri lager contemporanei. Bloccare ad ogni costo i flussi migratori sembra invero l’unico reale obiettivo perseguito oggi dall’Italia e dall’Europa.

Si scrive “obiettivo”. Si legge “crimine”. Contro l’umanità.

 

 

 

 

 

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