Talebani, al-Qaeda, Isis: in Afghanistan la resa dei conti nella "triade" jihadista
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Talebani, al-Qaeda, Isis: in Afghanistan la resa dei conti nella "triade" jihadista

o scontro per l’egemonia nell’universo fondamentalista afghano è iniziato. Nel “nuovo” Afghanistan si delineano i nuovi equilibri del potere e si intravedono nuove minacce rilevate da fonti di intelligence. 

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15 Settembre 2021 - 17.06


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Alla faccia della stabilità. Lo scontro per l’egemonia nell’universo fondamentalista afghano è iniziato. Nel “nuovo” Afghanistan si delineano i nuovi equilibri del potere e si intravedono nuove minacce rilevate da fonti di intelligence. 

Una grossa lite sarebbe scoppiata tra i leader dei talebani sulla composizione del nuovo governo del gruppo in Afghanistan. Lo hanno riferito ‘alti funzionari’ dei talebani alla Bbc.

La discussione tra il cofondatore del gruppo, il mullah Abdul Ghani Baradar e un membro del gabinetto, è avvenuta al palazzo presidenziale. 

Ci sono state notizie, non confermate, di disaccordi all’interno della leadership talebana da quando Baradar non è più apparso in pubblico negli ultimi giorni.  Una fonte talebana ha detto alla Bbc Pashtun che Baradar e Khalil ur-Rahman Haqqani – il ministro per i rifugiati e una figura di spicco all’interno della rete militante Haqqani – hanno scambiato parole forti, mentre i loro seguaci litigavano tra loro nelle vicinanze.

 Il ritorno di al-Qaeda 

La Cia intanto vede i primi segnali che i militanti di al-Qaeda stanno cominciando a tornare in Afghanistan, dopo il ritiro delle truppe Usa. “Stiamo già cominciando a vedere alcune indicazioni di potenziali movimenti di al-Qaeda in Afghanistan”, ha detto in una conferenza David Cohen, vice direttore della Central Intelligence, nelle ore in cui il segretario di Stato Antony Blinken difendeva il ritiro nella sua seconda audizione, al Senato. “Ma sono i primi giorni e ovviamente terremo gli occhi molto aperti su questo”, ha aggiunto, come riferisce il Wall Street Journal. Al-Qaeda potrebbe riorganizzarsi in Afghanistan in soli 12-24 mesi e porre una significativa minaccia agli Usa, ha detto il generale Scott Berrier, che guida l’intelligence della difesa Usa, intervenendo al summit Intelligence & National Security. 

Errore di analisi

Fallimento, errori, finanziamenti spesi male, infrastrutture inesistenti, popolazione allo stremo delle forze. Il tragico precipitare degli eventi in Afghanistan in questi ultimi giorni dopo il ritiro degli Usa, ha radici che affondano nel passato, all’inizio del conflitto, quando gli americani hanno messo in piedi una guerra contro un nemico che forse non conoscevano. Fra gli errori più eclatanti infatti, Jason Burke, per anni corrispondente del Guardian per l’Asia e attualmente per l’Africa, ne individua uno fondamentale e logico che risale alle origini del conflitto e che può spiegare lo sgretolamento di questi giorni:   Sin dall’inizio, nel 2002, quando gli Americani sono arrivati in Afghanistan, è stato subito chiaro che non riuscivano a distinguere tra al-Qaeda che era, ed è, un gruppo internazionale islamico militante principalmente arabo, e i Talebani che invece è un gruppo nazionalista, però afghano, che non ha ambizioni internazionali. E’ stato questo il vero problema che ha portato al fatto che ora non c’è spazio per negoziati, non c’è spazio per un accordo con i Talebani, e lo sforzo antiterroristico è stato confuso, mescolato con lo sforzo politico e quello per ricostruire il paese in Afghanistan, e questo è successo fin dall’inizio, è stato questo il problema fin dall’ inizio, non ci sono stati insediamenti inclusivi e le risorse sono state distribuite in maniera sbagliata, a pioggia, indiscriminate.   Quale sia oggi il rapporto tra al-Qaeda e i talebani sembra ancora poco chiaro, ciò che è certo è che al Qaeda è già in territorio afghano. Costretta a fuggire dall’Afghanistan dopo la guerra del 2001, vi è tornata lentamente. Non ha più la vasta infrastruttura di 20 anni fa, con i suoi numerosi campi di addestramento e oggi, secondo Burke, i suoi 200-500 combattenti, sono dispersi in gran parte del paese. Molti provengono da al-Qaeda nell’Asia meridionale, un’affiliata costituita nel 2014 con reclute pakistane, indiane e bengalesi per promuovere gli obiettivi dell’organizzazione nella regione. Altri hanno combattuto a fianco dei talebani, con i quali avrebbero rapporti stretti perché mantenere un’alleanza con il gruppo, secondo Burke, è stata la chiave per la sua sopravvivenza per 25 anni e sarà ancora più importante ora.

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  La relazione tra al-Qaeda e i Talebani oggi è piuttosto complicata. Sicuramente i Talebani non vogliono che al-Qaeda gli causi dei problemi in termini di legittimità internazionale, detto questo, ci sono dei legami personali e anche dei legami ideologici, inoltre ci sono altre relazioni che rendono difficile per i Talebani la possibilità di marginalizzare al Qaeda anche se volessero farlo. I Talebani si sono evoluti significativamente negli ultimi 20 anni, sanno molto di più di quello che succede nel mondo, i leaders talebani hanno passato molto tempo in paesi del Golfo Persico, a Karachi, altre città o altri paesi della regione, e sanno quali sarebbero i rischi che si prenderebbero se dovessero sostenere al Qaeda, ma magari è anche un rischio che sono disposti a correre. Inoltre, vale la pena sottolineare che i talebani stessi non sono mai stati direttamente collegati a nessun attacco terroristico internazionale e il loro programma, i loro piani, i progetti sono drammaticamente diversi da quelli di al Qaeda. Va ricordato inoltre che i Talebani sono divisi, sono una coalizione e come in ogni movimento unificato, in ogni coalizione, ci sono diversità  di opinione tra i leader e gli elementi all’interno del movimento, come appunto con i Talebani.   Malgrado le divergenze interne, i talebani hanno avuto tutto il tempo necessario per considerare aspetti nuovi delle relazioni con l’Occidente, mostrando una facciata di pseudo modernità che li ha portati a Doha sotto nuove spoglie, prontamente scoperte nel momento in cui hanno rispedito a casa le donne negli uffici e hanno mostrato i muscoli nel minacciare ritorsioni se gli Usa non rispetteranno la deadline del 31 agosto per l’evacuazione definitiva dal paese. I cambiamenti sembrerebbero dunque solo apparenti ma ci sono comunque degli aspetti da considerare secondo Burke:  anche durante il periodo di “regno” sdel mullah Omar tra il ’96 e il 2001, c’era una diversità di opinioni all’interno del movimento talebano, soprattutto tra i leader e non erano neanche d’accordo sempre sugli elementi costitutivi del movimento. Non c’è mai stata una grande omogeneità tra i talebani. E’ vero che erano a maggioranza di etnia pashtun, la maggior parte venivano dal sud est del paese con un  piano, dei progetti ben definiti, ma comunque c’erano diverse fazioni, c’erano questioni legate alle personalità dei diversi leader e in diverse parti del paese arrivavano pressioni  per delle manovre di potere, ad esempio il mullah Omar aveva una linea particolarmente oltranzista, altri invece erano più moderati e volevano il coinvolgimento dell’Onu, delle Organizzazioni non governative della comunità internazionale. Quello che però abbiamo visto da allora ad oggi è stata una curva di apprendimento che è stata in salita sostanzialmente, con un arricchimento per quanto riguarda la conoscenza della regione, della politica, della diplomazia internazionale, dei negoziati, del modo di fare la guerriglia, tutte cose che i talebani non conoscevano o non prendevano in considerazione 20 o 25 anni fa. Chiaramente questo avrà un effetto significativo in futuro permettendo un approccio più pragmatico o più ideologico.   In un momento in cui l’occidente sembra il nemico meno preoccupante per i talebani, altre realtà potrebbero diventare la spina del fianco del gruppo che ha preso il potere: Salafismo jihadista, Stato islamico che proprio nei giorni scorsi ha rilasciato la sua prima dichiarazione ufficiale sulla questione, accusando i talebani di essere cattivi musulmani e agenti degli Stati Uniti e considerandoli apostati, incapaci di applicare la legge islamica con sufficiente rigore.  In particolare lo Stato Islamico della Provincia del Khorasan, una fazione fondata nel 2015 quando l’Isis ha cercato di estendersi più  a est , espansione a cui i talebani si sono opposti fortemente. Negli ultimi mesi l’ISkp ha ripreso forza e, l’Unama, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan, ha riferito di ben 77 attacchi da parte di questo gruppo.  

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Triangolo insanguinato

Al-Qaeda, e non solo. Perché i Talebani hanno anche un altro concorrente agguerrito, ferocemente determinato a conquistare la guida della Jihad e degli affari ad essa collegati: è lo Stato islamico. La regione, in cui Isis continua a crescere gettando la propria sfida ai Talebani e dalla quale partono “missioni” terroristiche che nell’ultimo anno e mezzo hanno creato grossi problemi nelle due città di Kabul e Jalalabad, è quella del Khorasan, tra Afghanistan e Pakistan. Prende, infatti, proprio il nome di Wilayat Khorasan, il movimento terroristico affiliato ad Isis in Afghanistan che è riuscito, pur di fronte all’azione di contrasto da parte di Usa ed esercito afghano, a guadagnare posizioni. Anche gli Usa, infatti, non riescono più a negare che Isis abbia ormai il controllo di vaste e popolate aree nella provincia di Nangarhar e che la sicurezza, nella zona, sia particolarmente deteriorata . La strategia dell’Isis in Afghanistan è stata quella di attingere le nuove forze fresche proprio dal movimento talebano. Una recente inchiesta della Bbc metteva in evidenza come l’adesione allo Stato Islamico fosse divenuta economicamente più appetibile per gli afghani, considerato lo stipendio di 500$ mensili, cui il movimento talebano (in guerra dal 2001) non può sicuramente entrare in concorrenza. Dunque più si indeboliscono i talebani, più si rafforza l’Isis.  E per contrastarne la penetrazione i talebani schierano le loro forze speciali contro Isis. Il loro nome ufficiale è saraqitah “Red Group, Danger Group o Red Cell”. L’Emirato Islamico ha annunciato di aver schierato nell’est del Paese, in particolare tra le province di Laghman e Nangarhar, le sue unità top per dare la caccia ai piccoli gruppi Daesh presenti in zona e consolidare la leadership. Ciò dopo che i miliziani dello Stato Islamico avevano inflitto perdite alla formazione concorrente, conquistando porzioni di territorio. Finora, invece, i commandos jihadisti avevano operato soprattutto nel sud della nazione asiatica, nella guerra contro le forze di sicurezza (Ansf) di Kabul. Perciò, l’Isis  – che in passato era definita spregiativamente poco più di una banda di criminali – è stato promosso a nemico numero. Forse anche prima delle forze internazionali e delle istituzioni afghane. Il pericolo di un progressivo sbilanciamento di forze a favore delle bandiere nere era stato denunciato dallo stesso leader Mullah Omar, ora defunto, in una lettera proprio rivolta al Califfo Al-Baghdadi. Nella stessa il Mullah intimava il Califfo di “non cercare di penetrare in Afghanistan” e che la sua azione stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano. Nessuno –  spiega un comandante talebano intervistato dal Guardian –  – sa chi sia la figura di riferimento di queste persone in Afghanistan e Pakistan. Semplicemente sono gruppi di una decina di persone che vanno su e giù per le montagne”. Le giovani reclute, sottolinea l’intervistato, e i Talebani sono mondi separati. Entrambi i gruppi puntano all’imposizione della sharia, la legge islamica, ma il Califfato non riconosce Stati né confini nazionali, mentre i Talebani sono nazionalisti che vogliono trasformare il proprio Paese. Sempre secondo il comandante talebano intervistato dal Guardian, ci sarebbe anche una differenza dottrinale. “Quando le persone – afferma – chiedono ai militanti del Califfato che missione stia compiendo, loro rispondono ‘la vostra fede è debole e noi vogliamo renderla più forte'”. Gli ideologi dell’Isis sarebbero quindi troppo settari e intolleranti per i Talebani. Ed eserciterebbero una violenza cieca e insensata che i ribelli afgani avrebbero da anni respinto. Questi ultimi avrebbero quindi rinnegato la furia distruttrice verso opere d’arte e intere comunità esercitata in passato. 

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 Una guerra nella guerra. Venticinque ottobre 2017:  intensi scontri si susseguono nella provincia settentrionale afghana di Jawzjan fra militanti dei talebani e uomini dell’Isis, con un di almeno 23 morti. Le vittime sono 13 seguaci del ‘Califfo’ e dieci dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Lo scrive oggi l’agenzia di stampa Pajhwok.   La battaglia, simile a quelle che in passato hanno contrapposto i due gruppi nelle province di Nangarhar e Nuristan, si svolge nel distretto di Qush Tepa, come ha confermato all’agenzia il suo capo amministrativo, Aminullah. La stessa fonte ha precisato che “le fazioni si stanno scontrando attualmente nei villaggi di Baiksar e Khanqa, facendo uso di armi sia pesanti che leggere”. Secondo Aminullah i Talebani avrebbero fatto convergere nella zona “almeno 1.000 combattenti provenienti dalle province di Helmand, Ghor, Badghis e Faryab. Mille combattenti armai dai russi. Perché questa è l’altra, significativa novità, sul fronte afghano. In funzione di contenimento della penetrazione dei foreign fighters di ritorno da Siria e Iraq nelle repubbliche caucasiche ex sovietiche, Mosca ha stretto un’alleanza “sotterranea” con i Talebani. Nel luglio 2017 il giornale inglese “Daily Mail” e la “Cnn” pubblicavano una serie di foto , in cui alcuni talebani venivano ritratti in possesso di armi russe. E ancora lo scorso 22 ottobre 2017 il “Guardian” riportava l’accusa esplicita fatta dal governo di Kabul contro Mosca, colpevole di continuare a rifornire di armi il movimento talebano. Si parla nello specifico, come era già stato dimostrato dalle foto, di armamenti leggeri e non eccessivamente sofisticati. Insomma mitragliatrici, lanciagranate e al massimo visori notturni per cecchini.  Zamir Kabulov, inviato del presidente Putin in Afghanistan, sintetizza così la nuova politica: i Talebani diventano i nostri alleati contro l’espansione di Abu Bakr al-Baghdadi in Asia centrale e Caucaso. In cambio, gli concediamo una patente di legittimità politica (ed anche soldi e armi, ma questo Kabulov non può esplicitarlo).   E anche in Afghanistan vale il patto d’azione Mosca-Teheran. Rispetto agli interessi militari e geopolitici, la religione viene accantonata e così l’Iran sciita si allea, con i Talebani (sunniti), L’obiettivo iraniano è quello di mantenere il governo afghano debole, in due modi aumentando la sua influenza nelle province occidentali afghane, vicine al suo confine, come Farah e Herat; e sostenendo i talebani, che si oppongono anche alla presenza in Afghanistan degli americani e dello Stato islamico, entrambi nemici dell’Iran. E a rendere ancora più ingovernabile il Paese è la frammentazione etnico-tribale, che ha assunto tratti sempre più profondi: alla maggioranza etnica Pashtunsi aggiungono Tajiki, HazaraUzbechi, AimakTurkmenie Baluchi.

Conclusione: l’Afghanistan del futuro è una partita interna alla “triade” jihadista. La resa dei conti è solo agli inizi.

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