Di Maio a Tripoli, lascia a casa i diritti umani. E la farsa continua

Di Maio arriva a Tripoli dopo il “voto della vergogna” con il quale la Camera ha dato il via libera al decreto missioni, compreso il rifinanziamento alla cosiddetta Guardia costiera libica

Di Maio a Tripoli con il premier Abdel Hamid Dbeibah
Di Maio a Tripoli con il premier Abdel Hamid Dbeibah
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Agosto 2021 - 21.34


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Se il peso politico di un Paese sullo scenario internazionale si misurasse dal numero delle missioni intraprese dal suo ministro degli Esteri, l’Italia dovrebbe essere il dominus libico. Il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, ha effettuato oggi la sua quinta missione, dall’inizio dell’anno, nel lacerato Paese nordafricano. Di Maio arriva a Tripoli dopo il “voto della vergogna” del 15 luglio scorso, con il quale la Camera dei deputati ha dato il via libera al decreto missioni, nel quale era contenuto anche un capitolo riguardante il rifinanziamento alla cosiddetta Guardia costiera libica, quella a cui l’Italia ha delegato il lavoro sporco dei respingimenti nel Mediterraneo.

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Diplomazia e diritti

“L’Italia è al vostro fianco, continueremo a sostenervi”, assicura . Di Maio incontrando il premier libico Abdel Hamid Dbeibah, durante la sua missione a Tripoli, secondo quanto si apprende. A Tripoli Di Maio ha incontrato anche il presidente del Consiglio Presidenziale Mohamed Yunis Al-Menfi, i vice Abdullah Al-Lafi e Musa Al-Kuni, il presidente dell’Alto Consiglio di Stato Khaled Al-Meshriì e la ministra degli Affari Esteri Najla Mohammed El-Mangush. 
 A quanto si apprende l’Italia ha messo a disposizione 240 mila dosi di vaccino AstraZeneca da donare al Paese nordafricano. La Farnesina in una nota ha spiegato che “gli obiettivi principali della missione sono il proseguimento del dialogo con i principali interlocutori libici sul processo di stabilizzazione e transizione istituzionale a guida Onu, che l’Italia sostiene con determinazione. L’auspicio di un rinnovato impegno di tutte le parti libiche per favorire progressi concreti verso alcuni obiettivi chiave, tra cui lo svolgimento delle elezioni del 24 dicembre, l’attuazione del cessate-il-fuoco, l’adozione del bilancio unificato e la riconciliazione nazionale”. 

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Secondo una indiscrezione raccolta dalla agenzia Nova, la commissione elettorale avrebbe avvertito che se entro gli inizi di agosto non si arriverà a un accordo sulla legge elettorale sarà quasi impossibile organizzare elezioni parlamentari e anche presidenziali. La lentezza con cui procede il processo di definizione della legge elettorale è dovuta chiaramente ai diversi interessi delle parti in gioco. E probabilmente anche all’ostruzionismo sotterraneo delle parti che non vogliono arrivare al voto. La Conferenza di Berlino di inizio d’anno ha confermato il percorso politico di stabilizzazione del Paese; ma attori come la Russia e la Turchia, che hanno una forte presenza militare in Libia, potrebbero avere interesse a continuare a sostenere il loro protetti con una azione di rinvio del processo elettorale.

Morti “dimenticarti”

Dei lager libici o dei morti in mare, poco se n’è parlato. E questo nonostante che alla vigilia della visita del capo della diplomazia italiana, L’Ong Sea-Watch ha fatto sapere di aver raggiunto la scena di un naufragio al largo della Libia segnalato ad Alarm Phone: sul posto l’equipaggio della Sea Watch 3 ha trovato “una grande barca di legno a più ponti alla deriva”. Secondo l’Ong “centinaia di persone sono a bordo, alcuni sarebbero già morti”. La richiesta di soccorso inviata ad Alarm Phone parlava di circa 350 persone a bordo dell’imbarcazione.

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Il doppio binario della stampa mainstream

La cosa che non finisce di sorprendere, e per chi ha ancora un briciolo di coscienza democratica indigna, è il doppio binario dei media nel trattare le vicende libiche. Il doppio binario, per l’appunto. Di cui La Repubblica di Maurizio Molinari è di gran lunga medaglia d’oro, si fa per dire. Da un lato, infatti, i puntuali e documentati report delle brave colleghe che raccontano delle ignominie perpetrare in mare dalla Guardia costiera libica e di ciò che è la vita nei lager libici: torture, stupri, abusi fisici e psicologici di ogni tipo, scafisti in affari con autorità libiche etc. Dall’altro lato della narrazione, c’è l’esaltazione, che non conosce pudore, nel vendere un ruolo centrale dell’Italia sul piano diplomatico. Poco importa che a chiunque legga queste cose, a Bruxelles come a Parigi, a Londra come a Berlino, ad Ankara come a Il Cairo, a Washington come a Mosca, scappi un sorriso di benevolenza: “Ecco i soliti italiani, venditori di fumo…”. Per l’informazione mainstream quello che conta è essere premiata da qualche soffiata spacciata per scoop. 

Il buon Di Maio può fare anche un viaggio al giorno. Il suo efficiente staff può sfornare veline a getto continuo, ma la realtà è ben conosciuta a tutti coloro che di Libia scrivono con scrupolo e onestà intellettuale. A contare lì sono attori regionali come la Turchia, l’Egitto, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, e con essi la Russia di Putin, e molto indietro Francia, Stati Uniti, Regno Unito, Germania. L’Italia viene dopo, e di molto. 

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Do you remember Haithem?

Scrive Vincenzo R.Spagnolo su Avvenire, uno dei pochi giornali fuori dal coro della stampa mainstream:  “Haithem è il nome del libico che comanda nella prigione informale di al-Harsha. Si fa aiutare dal fratello Ismael… Sono violenti e armati e, con il loro gruppo, mi tenevano rinchiuso insieme ad altri 300 migranti, bengalesi e subsahariani. Mi hanno picchiato e maltrattato per 2 mesi, trattato peggio di una bestia, e mi hanno negato cibo e acqua…». È l’agghiacciante racconto di un migrante bengalese approdato sulle coste siciliane, dopo esser stato a lungo in Libia in un campo gestito da trafficanti di esseri umani, denominato al-Harsha e situato sulla costa a ovest di Tripoli, nei pressi di al-Zawija.

La testimonianza dell’uomo – che chiameremo M. per tutelare la sua identità – e quelle di altri quattro bengalesi segregati in periodi diversi nel medesimo lager sono state raccolte da un team dell’associazione Medici per i diritti umani, che ha trascritto i loro racconti negli ultimi 9 mesi presso l’ambulatorio di Ragusa. 

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Dalle loro parole emerge un universo di sofferenze, torture e soprusi inflitti per ottenere un riscatto, in un contesto di presunte connivenze con militari libici e nel silenzio del governo di Tripoli, interlocutore politico col quale governo e Parlamento hanno appena rinnovato l’intesa di sostegno della locale Guardia costiera.

I cinque migranti bengalesi hanno raccontato ai medici di essere sopravvissuti a mesi di detenzione e torture nel “centro di sequestro” di al-Harsha, ubicato – in base alle loro testimonianze – nei dintorni di al-Zawija, città costiera a 50 chilometri a ovest di Tripoli, fra i principali punti di imbarco usati dai trafficanti per le partenze verso l’Italia. Per essere rilasciati, tutti hanno dovuto far versare un riscatto agli aguzzini di Haithem, con denaro raccolto dalle loro famiglie e poi inviato in Libia.

Dalle cinque testimonianze, emerge uno spaccato atroce della condizione di migliaia di migranti nei campi libici. al-Harsha si trova nelle vicinanze di una moschea ed è circondato da alte mura: una immagine di Google maps mostra capannoni, containers e un grande cortile, usato a volte come deposito per alcune imbarcazioni. Da al-Harsha, il mare non è molto distante.

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Secondo le testimonianze dei migranti detenuti, il centro può arrivare a contenere 200 o 300 reclusi. Nelle loro testimonianze, i 5 bengalesi descrivono con molti particolari la topografia del luogo. Il capo del lager di al-Harsha, annotano gli operatori di Medu, è «un uomo libico di nome Haithem che possiede anche una pompa di benzina a pochi metri dal centro». Non lavora da solo: «Dispone di un gruppo di uomini armati e violenti e di un braccio destro, il fratello Ismael». Racconta il bengalese M.: «Mentre ero recluso ad al-Harsha ho visto decine di migranti bengalesi come me presi a pugni e calci, colpiti col bastone, umiliati. Haithem, il libico, spesso si fa aiutare da altri migranti a torturare le persone rapite: li costringe a farlo e alcuni li paga..”

Naturalmente dei tanti Haithem in divisa, il ministro Di Maio non ha fatto cenno nei suoi “proficui” colloqui con le autorità libiche. Nulla di nuovo. La genuflessione a rais, presidenti-generali, sultani e gendarmi delle frontiere esterne, sono da tempo una specialità di casa. Casa Di Maio. 

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