Lotta alla fame. Dal G20 di Matera solo chiacchiere e nessun impegno. La denuncia di Oxfam

La pandemia ha ulteriormente aggravato la situazione: oltre 100 milioni di persone si aggiungono a quante già soffrono la fame

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Giugno 2021 - 15.18


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Lo schema si ripete, con qualche ritocchino, con new entry, ma nella sostanza, sempre uguale a se stesso: molte chiacchiere, tanto lavoro per gli sherpa destinati a trascorrere notti insonni per limare documenti che ben presto passeranno nel dimenticatoio,
tante photo opportunity con sorrisi splendenti dei leader in posa.
E poi, arrivederci al prossimo vertice. Cambia il numero, G7, G20, ma quando c’è da allargare il cordone della borsa e finanziare i buoni propositi, ecco scattare il black out politico.
Il summit di Matera dei ministri degli Esteri e dello Sviluppo del G20 non ha fatto eccezione.
Narrazione e realtà
Come la stessa Dichiarazione adottata ieri  a Matera dai ministri degli Esteri e Sviluppo ricorda, il numero delle persone denutrite o in condizioni di fame acuta è cresciuta da 624 a 688 milioni dal 2014 al 2019.
La pandemia ha ulteriormente aggravato la situazione: oltre 100 milioni di persone si aggiungono a quante già soffrono la fame.
In questo quadro – rileva Oxfam – l’obbiettivo “Fame Zero” stabilito per il 2030 dall’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile, diventa un miraggio irraggiungibile, e in assenza di azioni di contrasto le proiezioni Fao stimano in 840 milioni le persone che nel 2030 ancora verseranno in condizioni di insicurezza alimentare.
Nessuna indicazione su fonti di finanziamento per contrastare la fame
“La Dichiarazione adottata a Matera dai ministri degli Esteri e dello Sviluppo del G20    manca di una strategia che metta in campo azioni rapide ed efficaci volte a   contrastare l’aggravamento di una situazione che già prima della pandemia aveva evidenziato una crescita nel numero di persone che soffrono la fame. – rimarca Francesco Petrelli, policy advisor di Oxfam Italia – Certamente il documento ha il merito di aver formalizzato alcuni impegni rilevanti sul tema della sicurezza alimentare alla luce degli impatti provocati dalla pandemia, ma nessuna decisione che ne concretizzi l’azione (ancora tutta da costruire!) è stata presa, nè sono state date indicazioni su
possibili fonti di finanziamento”.​
“È apprezzabile lo sforzo della Presidenza italiana che ha fortemente voluto che dall’incontro dei ministri degli Esteri e dello Sviluppo scaturisse un nuovo impulso   politico per sconfiggere la fame entro il 2030.– aggiunge Petrelli – È però altrettanto importante che la leadership assunta dai ministri nella riunione odierna sia ricondotta nel quadro dei processi decisionali propri del Comitato sulla sicurezza alimentare mondiale della Fao e all’interno del sistema delle Nazioni Unite, che è la piattaforma più inclusiva di discussione a livello globale sui temi della sicurezza alimentare e della nutrizione”.
Nessun impegno nello spezzare il nesso tra fame e guerra
Nella Dichiarazione si ritrovano temi cruciali per la messa a punto dei piani di ripresa post-pandemica.  
In particolare: l’empowerment di donne e giovani in ambito rurale visto non solo come tutela di gruppi particolarmente vulnerabili, ma come leva attraverso cui promuovere sistemi alimentari sostenibili di cui loro siano attori protagonisti; la necessità di rafforzare i sistemi di protezione sociale, alla base di un efficace lavoro di contrasto alla povertà, ma su cui chiediamo che si ponga maggiore attenzione a che siano “gender
trasformative” ovvero siano pensati e adeguati sui bisogni delle donne; la   centralità   della  finanza   climatica per sostenere investimenti che rafforzino le capacità di adattamento del settore agricolo ai cambiamenti climatici.
“A livello tematico rimane l’assenza di un’azione coordinata per impedire una nuova ondata di quei fenomeni speculativi sui prezzi dei generi alimentari, denunciati dalla stessa Fao. – continua   Petrelli – L’appello a tenere i mercati aperti è importante, ma insufficiente in assenza di una decisa azione anti-speculativa, che le 20 maggiori economie del mondo potrebbero effettivamente realizzare.    
Manca inoltre un impegno sulla necessità di spezzare il nesso fra fame e guerra, uno dei fattori che provoca l’insicurezza alimentare in molti paesi”.
L’appello per la cancellazione del debito dei paesi poveri
A fronte degli impegni politici assunti stride la mancanza di indicazioni concrete rispetto   alla mobilitazione di risorse necessarie.
Sul rafforzamento dei sistemi di protezione sociale non si fa alcun riferimento a come supportare tecnicamente e finanziariamente i paesi in via di sviluppo, che potrebbero non avere a disposizione sufficienti capacità e risorse a livello​ nazionale per perseguire quell’obiettivo. L’idea di un Fondo Globale per la protezione sociale andrebbe in questa direzione ma nella Dichiarazione non se ne fa menzione.
Eppure nel corso della ministeriale si oggi (ieri, ndr) è parlato anche di finanziamenti innovativi per lo sviluppo sostenibile.    
Se ci fosse volontà politica, i paesi del G20 potrebbero ancora compiere un’ azione di straordinario impatto con la cancellazione del debito (bilaterale, multilaterale e privato) dei paesi a basso e medio reddito che libererebbe 1.000 miliardi di dollari.
Oggi il 55% dei lavoratori del mondo sono privi di qualsiasi forma di protezione sociale, un gap che impatta la vita di 4 miliardi di persone nel mondo .  
A  livello globale solo un disoccupato su cinque riceve sussidi di disoccupazione. E la
copertura di misure di protezione sociale sono ancor più carenti in zone rurali rispetto alle aree urbane.
“Incanalare risorse attraverso meccanismi già esistenti, come proposto nella Dichiarazione, è sicuramente una scelta efficace, soprattutto se si prediligono meccanismi, quali il Gafsp (Global Agriculture and Food Security Program), che ha già dato prova di riuscire a erogare efficientemente risorse a sostegno dei piccoli
produttori agricoli. – conclude Petrelli – Bisogna però impedire che la frammentazione di risorse attraverso l’uso di vari canali di finanziamento  pregiudichi  una  visione  di  insieme  su  come l’impegno politico assunto con questa Dichiarazione si trasformi
in azione monitorabile e di cui lo stesso G20 possa dar conto. Il rischio altrimenti è che questa Dichiarazione possa passare alla storia come l’ennesimo esercizio di retorica    ”.
Un mondo sempre più diviso tra Paesi ricchi e Paesi poveri
“Mettere mano al debito estero dei Paesi più vulnerabili è oggi un passo decisivo, per consentire a queste Nazioni, situate per lo più in Africa, Asia e America Latina, di uscire da una situazione di dipendenza debitoria senza fine. Ma operare in questo senso –
afferma Riccardo Moro, docente di Politica dello Sviluppo all’Università di Milano e presidente mondiale del Gcap, la coalizione internazionale contro la povertà – è oggi   più complicato rispetto ad appena venti anni fa.
Allora il debito dei Paesi poveri era contratto con altri Stati e istituzioni pubbliche internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario.
Era dunque più semplice l’adozione di un progetto comune. Oggi nel meccanismo dei prestiti si sono inseriti Paesi, che operano al di fuori delle normative internazionali sulle modalità di prestito​ sostenibile,   e   soggetti   privati,   ambedue   poco   propensi   a
rinunciare ai propri crediti nei confronti dei Paesi con minori risorse economiche”.
Estinzione o sospensione?
Agire sulla riduzione del debito è essenziale oggi, in tempo di pandemia. I Paesi poveri,   come quelli sviluppati, stanno mettendo mano a tutte le risorse per far fronte all’emergenza sanitaria e alla conseguente crisi economica, che colpisce la popolazione in tutto il mondo.
E’ sempre più difficile, dunque, far fronte alla restituzione delle quote di prestito. Per questo, sottolinea Riccardo Moro, è insufficiente e non risolutiva la sospensione del debito dei Paesi poveri.
Questo quanto stanno discutendo i Paesi del G7 e del G20, ma, appunto, sinora con scarsi risultati. I ministri delle Finanze del G7 hanno ribadito l’invito ai creditori privati a partecipare alla sospensione del debito per i Paesi più poveri indebitati a causa della crisi
sanitaria.
“La partecipazione volontaria del settore privato – si legge in una nota – è stata assente, il che ha limitato i potenziali benefici dell’iniziativa”. La richiesta del Papa all’Onu, sottolinea Moro, è più radicale: la cancellazione del debito consentirebbe di liberare risorse importanti per i Paesi più vulnerabili da destinare innanzitutto all’emergenza sanitaria”.
Di grande interesse è il report di  Francesco Gesualdi su Avvenire: “Il debito pubblico dei Paesi poveri sta rialzando la testa e fa paura. Stiamo parlando dei Paesi con reddito pro capite inferiore a 2.700 dollari all’anno, quelli che il Fondo monetario definisce
Lidc, Low Income Developing Countries.    
In tutto sono 59, con una popolazione complessiva di un miliardo e mezzo di persone, il 20% dell’intera popolazione mondiale. In ordine decrescente partiamo dal Buthan,   con un reddito procapite, anno 2017, di 2.510 dollari all’anno e arriviamo alla
Somalia con un reddito pro capite inferiore ai 280 dollari all’anno. La conclusione è che il 40% dell’intera popolazione appartenente ai Paesi a basso reddito vive con meno di un dollaro e 90 centesimi al giorno, la soglia infernale al di sotto della quale non c’è più traccia di dignità umana. Si tratta di oltre mezzo miliardo di derelitti concentrati soprattutto in Africa, perché 35 dei 59 Paesi più poveri si trovano sul territorio di questo continente.
E non si tratta solo di nazioni con fragilità ambientale o conflitti in corso. Fra i Paesi condannati alla povertà ci sono anche quelli ricchi di petrolio o di minerali come Nigeria, Ciad, Zambia, Repubblica Democratica del Congo.
Le statistiche mettono in evidenza tre aspetti rispetto al debito pubblico dei Paesi più poveri: è in crescita, è sempre più caro, espone un numero crescente di Paesi a rischio default. Secondo il Fondo monetario internazionale, dal 2012 al 2018 il debito pubblico dei Paesi poveri è aumentato mediamente di tredici punti percentuali, passando dal 32 al 45% del loro Pil. Un aumento causato ogni volta da ragioni diverse, anche se solo in pochi casi si può imputare a spese per investimenti, l’unica forma di debito ‘sano’ che crea le premesse per ripagarsi. Una costante che si ritrova   in   gran   parte   dei   casi   è la riduzione delle entrate accompagnata da un aumento delle spese. Più si allarga la forbice fra le due grandezze, più il debito cresce.
Per cui è sempre sui due lati della catena che bisogna porre l’attenzione se vogliamo capire i processi di indebitamento.
Sul piano delle entrate il Fmi rileva che fra il 2013 e il 2019, la media del gettito fiscale dei Paesi poveri è rimasto pressoché immutato, attorno al 13% del Pil. L’aspetto curioso è che a navigare   nelle  acque   peggiori   sono   stati  i   Paesi   fortemente dipendenti dalle materie prime. I Paesi produttori di petrolio, ad esempio, sono quelli che registrano le entrate fiscali più basse e che hanno subito le perdite più gravi. Il loro gettito, infatti è passato dal 7% del Pil nel 2014 al 4,5% nel 2019.
Tipico il caso della    Nigeria il cui gettito fiscale proviene in larga parte dal petrolio. Le sue entrate fiscali sono passate da 24 miliardi di dollari nel 2013 a 15 miliardi nel 2016 a causa del crollo del prezzo del greggio che nel 2014 si è ridotto del 60% passando da 114 a 45 dollari al barile. Sorte ancora più drammatica per il Ciad , anch’esso produttore di petrolio, che per la stessa ragione ha dimezzato il proprio gettito fiscale passato da 2,2 miliardi di dollari nel 2013 a 1,2 miliardi nel 2016. Triste effetto farfalla di
una serie di concomitanze internazionali che fra il 2014 e il 2016 han fatto crollare non solo il prezzo del greggio, ma di molte altre materie prime gettando nella bufera anche   Paesi come Mozambico, Zimbabwe, Niger e vari altri economicamente dipendenti, appunto, dalle materie prime di cui sono ricchi.
La frenata nelle entrate ha costretto molti governi a ridurre anche le spese, e considerata già la loro inadeguatezza rispetto ai bisogni del Paese senza alcuna proporzionalità.
Così è cresciuto lo scarto fra entrate e uscite dei Paesi più poveri, che se nel 2014 era mediamente attestato al 5% del loro Pil, nel 2017 è arrivato all’8%. Una differenza che in prima battuta si è cercato di arginare chiedendo aiuto ai governi occidentali. Ma i cordoni dei Paesi​ ricchi si erano già allora fatti più stretti e di soldi sotto forma di donazioni ne sono arrivati via via meno. I numeri parlano chiaro: prima del 2014 gli aiuti pubblici ai Paesi più poveri viaggiavano su una media di 24 miliardi di dollari all’anno, nel 2017 li troviamo a 18 miliardi di dollari, una riduzione del 25%. Il peggio è stato che i governi occidentali si sono rivelati anche meno disponibili a concedere prestiti ai Paesi poveri, ai quali non è rimasta altra scelta che bussare alla porta della Cina e di grandi
privati .
Alcuni analisti collocano i prestiti concessi dalla Cina ai Paesi poveri attorno a 200 miliardi di dollari, circa un quarto dell’intero debito che grava sulle loro spalle. Ma la Cina non brilla per trasparenza ed è difficile dire se la cifra corrisponda al vero…”.
L’articolo è del 3 marzo 2020. Un anno e quattro mesi dopo la situazione è ulteriormente peggiorata. 
Il mezzo miliardo di “derelitti” è aumentato di quasi duecento milioni di persone. Per loro, la cancellazione del debito può valere la vita.  Per l’Occidente non arrossire di vergogna perché anche quello finanziario può diventare un “crimine contro l’umanità”.

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