In Palestina un presidente senza seguito spiana la strada a Hamas
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In Palestina un presidente senza seguito spiana la strada a Hamas

Una gerontocrazia che vuole farsi da parte. Vive, e bene, di rendita, e ha come migliori alleati i falchi israeliani. Una classe dirigente palestinese che ha fatto bancarotta morale e politica, senza carisma

Abu Mazen
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Giugno 2021 - 17.39


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Una gerontocrazia che vuole farsi da parte. Vive, e bene, di rendita, e ha come migliori alleati i falchi israeliani. Una classe dirigente palestinese che ha fatto bancarotta morale e politica, senza carisma, senza un seguito reale specie tra i giovani di Palestina. Globalist ne ha scritto più volte, con reportage, analisi, interviste, avvalendosi della preziosa collaborazione sul campo di Osama Hamdan. 

A dar conto di questa bancarotta è ora la giornalista israeliana che meglio di chiunque altro conosce il variegato campo palestinese in ogni sua frangia.

“Il consenso palestinese per il presidente Mahmoud Abbas – scrive Hass su Haaretz – è crollato a un nuovo minimo, secondo un sondaggio palestinese pubblicato la scorsa settimana. Non sorprende che l’approvazione per Hamas sia aumentata, al punto che il 56% degli intervistati ritiene che questo movimento islamico sia ‘più meritevole di rappresentare e guidare il popolo palestinese’, rispetto al 14% che dice lo stesso del movimento Fatah guidato da Abbas.

Se vogliamo capire il significato dell’umiliazione, dovremmo leggere questo sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, che è stato condotto dal 9 al 12 giugno, e ha incluso 1.200 adulti della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. Quando Hamas raccoglie voti così alti, ciò significa solo che molti degli intervistati considererebbero la lotta armata come un modo per migliorare la situazione palestinese. In risposta alla domanda su quali mezzi dovrebbero essere usati per porre fine all’occupazione israeliana, il 49% ha indicato ‘una lotta armata’, il 27% ha scelto i negoziati e solo il 18% la resistenza popolare.

La crescita di Hamas

Per quanto riguarda l’ultima guerra a Gaza, il 77% degli intervistati ha risposto che Hamas ha vinto e Israele è stato sconfitto. Non meno del 65% è convinto che i razzi di Hamas abbiano costretto Israele a fermare lo sgombero delle famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme. La maggioranza potrebbe sbagliarsi, ma il sondaggio riguarda le impressioni piuttosto che le verità. Abbiamo già sollevato qui l’ipotesi che la tattica di militarizzazione di Hamas sia stata progettata per avanzare il suo status di leader del popolo palestinese. Se l’ipotesi è corretta, allora i risultati del sondaggio provano che il movimento di resistenza islamico ha un acuto istinto politico quando si tratta di capire il suo popolo frustrato, che è stanco di promesse vuote e sconfitte.

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Agli intervistati è stato chiesto di valutare le prestazioni di 10 attori locali e regionali durante gli scontri a Gerusalemme e Sheikh Jarrah, e la guerra tra Israele e Hamas, lo scorso maggio. Al primo posto ci sono i palestinesi di Gerusalemme e i suoi giovani: l’89% ha descritto la loro condotta come eccezionale. Un altro 86 per cento ha dato questo voto ai palestinesi di Israele e il 75 per cento a Hamas.

Molto indietro ci sono gli egiziani, la Turchia e la Giordania, ognuno dei quali ha ricevuto il voto più alto da circa un quinto degli intervistati; il 18% ha dato all’Iran un voto “eccezionale”. In fondo alla scala ci sono il movimento Fatah e l’Autorità Palestinese, valutati ‘eccezionale’ rispettivamente dal 13% e dall’11%. E in fondo alla scala c’è il capo dell’AP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Fatah: Solo l’8% ha definito la performance di Abbas ‘eccezionale’. .Abbiamo spesso menzionato qui l’ipotesi che Israele sia interessato a un forte governo di Hamas e all’isolamento di Gaza come enclave disgiunta che opera separatamente, al fine di perpetuare la spaccatura intra-palestinese.

L’altra faccia della medaglia: le promesse del movimento Fatah, secondo cui i negoziati porteranno alla fine dell’occupazione e alla formazione di uno stato, e nel frattempo alla stabilità economica e individuale, sono state ridotte in polvere. Il merito va alla politica israeliana, che ha accelerato la sua orgia immobiliare, a spese della terra palestinese, dopo gli accordi di Oslo.

L’inganno israeliano non spinge gli intervistati a manifestare simpatia per Fatah, apparentemente perché questo movimento e il suo leader hanno fallito su questioni non legate all’occupazione: democrazia, corruzione, riparazione degli errori del passato. Circa due terzi degli intervistati sono convinti che Abbas abbia annullato le elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese per paura del loro risultato; l’84% crede che la corruzione sia diffusa nelle istituzioni dell’AP, contro il 57% che ha detto lo stesso per le istituzioni pubbliche controllate da Hamas. E poi è arrivata la domanda sul desiderio di emigrare a causa delle condizioni politiche, economiche e di sicurezza. Circa il 42 per cento dei residenti di Gaza ha detto di sì, così come il 15 per cento dei residenti in Cisgiordania. Circa due mesi prima della recente guerra, il 40 per cento e il 23 per cento, rispettivamente, hanno espresso il desiderio di emigrare. Nonostante il disgusto di massa per Abbas e l’ammirazione per Hamas e la sua lotta armata, risulta che ci sono più persone che non riescono a tollerare la vita nella Striscia di Gaza”, conclude Amira Hass.

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Disincanto e rabbia

Se ci fossero delle elezioni ci sarebbe il rischio per Hamas di dover fare i conti con una nuova Assemblea legislativa e un nuovo governo che forse la incalzerebbe sul controllo della Striscia. Non uno scenario augurabile per Hamas, che potrebbe aver condannato pubblicamente il rinvio delle elezioni più per mettere in imbarazzo Abbas che per altri motivi. E oggi, per crescere in consensi, sceglie la guerra.

Sullo sfondo di questo proliferare di liste, di riposizionamenti e colpi bassi, si staglia, gigantesco, il rigetto verso questa politica del baratto da parte dei giovani palestinesi. Un rigetto che viaggia in rete, sui social media che sfuggono al controllo di Hamas e dei servizi dell’Anp. La lettura di queste chat è molto più istruttiva dei discorsi paludati di vecchi politicanti  E’ una volontà di cambiamento che fatica a incanalarsi. Ma essa esiste, e segna il fallimento delle vecchie leadership. Certo, l’occupazione israeliana, la creazione, di fatto, di un regime di apartheid in Cisgiordania, l’assedio pluridecennale di Gaza, tutto ciò influisce pesantemente sullo sviluppo di una sana vita politica in Palestina. Ma non può giustificare tutto. Non giustifica i finanziamenti milionari arrivati all’Autorità nazionale palestinese sperperati in una moltiplicazione di apparati di sicurezza o peggio finiti sui conti esteri degli esponenti della nomenclatura. L’occupazione israeliana, non assolve una classe dirigente palestinese che si è autoriprodotta selezionando il personale non sulla base della competenza e neanche nel ruolo avuto nella resistenza, ma per fedeltà al capo bastone. Chiunque faceva ombra è stato accantonato, criminalizzato, fatto fuori. 

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Rivolta senza capi

Per i giovani protagonisti della rivolta di Damascus Gate, a Gerusalemme Est, la “piazza Tahir palestinese”,  le tradizionali leadership politiche non hanno presa. Non sono modelli da seguire. E a funzionare non è neanche più il “mito” orami sbiadito dal tempo di Yasser Arafat, 

 “Sono i figli del disincanto, della perdita di speranza in un futuro “normale” – riflette Sari Nusseibeh, il più autorevole intellettuale palestinese, già rettore dell’Università al Quds di Gerusalemme Est. “Di Israele hanno conosciuto solo le barriere di filo spinato, i ceck point che spezzano in mille frammenti la Cisgiordania. I  più – conclude Nusseibeh – sono animati da un misto di rabbia e di delusione. Avrebbero bisogno di un progetto in cui credere, di segnali concreti che dicano loro che un’altra via è percorribile. Ma tutto ciò è lontano dal manifestarsi”.

Secondo Khalil Shikaki, direttore del   Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR), i  giovani palestinesi sposano valori più liberali di quelli dei loro anziani e sono più insoddisfatti della loro leadership politica, in particolare su questioni di governo, condizioni economiche e status quo con Israele. I giovani palestinesi sono anche più propensi a sostenere la resistenza armata all’occupazione e a favorire la soluzione di uno Stato unico, poiché per loro “la richiesta di indipendenza e sovranità è meno importante della richiesta di uguali diritti”, rimarca Shikaki. In un recente sondaggio del PCPSR, i palestinesi che hanno indicato la disoccupazione e la corruzione come i problemi più seri che la società palestinese deve affrontare oggi sono più numerosi di quelli che hanno puntato il dito contro l’occupazione israeliana.

Questa realtà economica sta portando i giovani palestinesi a cercare di trasferirsi all’estero per vivere una vita dignitosa. Il sogno della fuga verso la libertà accompagna la rabbia verso un’occupazione sempre più asfissiante. Chi non ha la possibilità di espatriare, si ribella. All’occupante israeliano, ma anche ad una nomenclatura fallita.

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