Patrick Zaki, compleanno in carcere. Presidente Draghi, gli "regali" la cittadinanza italiana
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Patrick Zaki, compleanno in carcere. Presidente Draghi, gli "regali" la cittadinanza italiana

Oggi 16 giugno lo studente compie 30 anni. Era stato arrestato il 7 febbraio dell’anno scorso e solo due settimana fa è arrivata la notizia dell’ennesimo prolungamento della sua detenzione per altri 45 giorni. 

Patrick Zaki
Patrick Zaki
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Giugno 2021 - 15.49


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Secondo compleanno in carcere in Egitto per Patrick Zaki: oggi 16 giugno lo studente compie 30 anni. Era stato arrestato in circostanze controverse il 7 febbraio dell’anno scorso e solo due settimana fa è arrivata la notizia dell’ennesimo prolungamento della sua detenzione per altri 45 giorni.  Bologna, la città dove Zaki studiava prima dell’arresto, si mobilita con una serie di iniziative per rinnovare ancora la richiesta di una liberazione, dopo che lo scorso 11 gennaio ha conferito allo studente la cittadinanza onoraria. 

Con Patrick, per la libertà

 “Oggi Patrick Zaki compie 30 anni nel carcere di Tora, uno dei più crudeli al mondo. La sua colpa? Aver difeso i diritti umani. Fin dal primo giorno ci battiamo per lui e non ci fermeremo fino a quando non sarà liberato”, scrive Amnesty Italia su Twitter. Tra chi gli dedica un pensiero c’è anche il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli che con un post sui social esprime il suo sostegno al giovane studente allegando una sua foto in tribunale. “Oggi questo ragazzo, Patrick Zaki, che amava l’Italia e studiava a Bologna, trascorrerà il giorno del suo trentesimo compleanno nelle galere egiziane, tra l’altro in piena emergenza Covid. È in prigione dal 7 febbraio 2020, ma Zaki non ha fatto proprio niente, non ha commesso alcun reato. La sua detenzione è una vergogna per tutti coloro che credono nei valori umani e nei diritti fondamentali della persona”. E conclude con “auguri, Patrick: non ti lasceremo mai solo”. Ad augurargli buon compleanno è anche il segretario del Pd, Enrico Letta che coglie l’occasione per rinnovare il suo appello perché venga conferita a Zaki la cittadinanza onoraria per meriti speciali per cui sono state raccolte 270mila firme. “Oggi Patrick Zaki compie trent’anni. In cella. Noi chiediamo al governo di applicare l’indicazione unanime del Parlamento e dargli la cittadinanza”, scrive su Twitter. Un appello al governo Draghi rilanciato anche da altri esponenti del Partito democratico, dalla capogruppo alla Commissione esteri della Camera Lia Quartapelle a Emanuele Fiano.  La prima iniziativa per Zaki era già arrivata qualche giorno fa dall’ateneo di Bologna che quest’anno ha deciso di dedicare a lui la 20esima edizione dei Classici, l’evento più importante del calendario accademico. Oggi a Bologna verrà inaugurato il percorso espositivo Patrick Patrimonio dell’umanità” con lo scopo di non spegnere i riflettori dal caso Zaki e, anzi, accenderli su altre storie di prigionieri di coscienza come lui. La mostra, organizzata da diversi enti tra cui 6000 Sardine, Amnesty International Italia, il Comune di Bologna, l’Università e l’Arcidiocesi sarà visitabile fino al 30 giugno. Giorno in cui verrà pubblicato il libro ‘A carte scoperte’: un lavoro dedicato a Patrick realizzato dagli studenti del master in Editoria cartacea e digitale dell’Unibo.

Lo studente dell’Università “Alma Mater” di Bologna è in prigione in Egitto dal febbraio dell’anno scorso con l’accusa di propaganda sovversiva su internet. Il 29enne era stato arrestato in circostanze controverse il 7 febbraio dell’anno scorso e, secondo Amnesty International, rischia fino a 25 anni di carcere. In Egitto chi pubblica informazioni sulla situazione interna del Paese in modo da danneggiare lo Stato e i suoi interessi nazionali è punibile con una reclusione da sei mesi a cinque anni, oltre che con una multa, secondo l’articolo 80 del codice penale.

Per Patrick però c’è anche l’accusa di “tentativo di rovesciare il regime”, ha ricordato all’Ansa un altro avvocato, Mohamed Halim, confermando che potrebbe quindi essere condannato all’ergastolo o deferito alla Giustizia militare. La custodia cautelare in Egitto può durare due anni ma prolungarsi ulteriormente quando emergono altre accuse. Dopo una prima fase di cinque mesi di rinnovi quindicinali ritardati dall’emergenza Covid, ora il caso di Patrick è in quella dei prolungamenti di 45 giorni. Le accuse a suo carico sono basate su dieci post di un account Facebook che i suoi legali considerano fake ma che hanno configurato fra l’altro la “diffusione di notizie false”, l’incitamento alla protesta e l’istigazione alla violenza e “a crimini terroristici”. Patrick, attualmente detenuto nel braccio indagati del carcere cairota di Tora, dove dorme per terra, stava compiendo all’ateneo bolognese in un Master biennale in studi di genere (Gemma).

“Si tratta soprattutto di un’accusa politica di cui recentemente si è fatto abuso utilizzandola” anche contro “bambini, accusati di aver tentato di rovesciare il regime al potere”, ha detto l’avvocato Halim. Secondo un ex rettore della facoltà di Giurisprudenza dell’università del Cairo, Mahmoud Kobeish, in questi casi le indagini di polizia non sono l’unica prova per una condanna e “di solito” si “finisce con la scarcerazione dell’imputato”: “per condannarlo bisogna provare che c’è una persona che progetta e si mette d’accordo con altri per commettere atti di sabotaggio che puntano al sovvertimento dell’ordine costituzionale e al crollo del regime al potere”, ha ricordato il giurista.

Crudeltà sconfinata

Quello che stupisce non è l’accanimento del sistema giudiziario egiziano, perché nella situazione di Patrick ci sono probabilmente migliaia di altri prigionieri di coscienza. Stupisce che per quel caso tra i tanti, che riguarda direttamente l’Italia, il nostro Governo abbia adottato la strategia del silenzio. In questo modo facendo la spalla alla strategia de Il Cairo che è quella di non far sapere, di far sparire le vicende dei prigionieri con questo sistema ormai rituale dei 45 giorni che si prorogano all’infinito”, dice a Globalist Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia 

La strategia del silenzio

Il portavoce di Amnesty International Italia chiama direttamente in causa il Governo italiano. “Vorrei chiedere, e penso di essere in buona compagnia – dice Noury – che cosa il Governo italiano ha fatto rispetto agli impegni che ha assunto in seguito all’ordine del giorno approvato al Senato rispetto alla proposta di cittadinanza italiana per Patrick Zaki, rispetto all’apertura di un contenzioso con l’Egitto ai sensi della Convenzione dell’Onu contro la tortura. Su questo impegno che il Parlamento ha affidato al Governo non abbiamo sentito nulla. Dopodiché, a Bologna il 16 giugno comunque ci sarà una enorme festa di compleanno per Patrick. E la faremo nella certezza che Patrick sa perfettamente quello che viene fatto così come quello che non viene fatto per lui. E quindi ci ritroveremo sotto i portici di Bologna in tanti e tante, sperando sia l’ultimo compleanno che Patrick trascorrerà in prigione”.

Va ricordato che Zaki  è detenuto da oltre  un anno con l’accusa di propaganda sovversiva, essendo stato arrestato il 7 febbraio 2020 mentre tornava in Egitto per una vacanza. L’ultima conferma di custodia cautelare era stata il colpo di grazia per i familiari di Patrick, che si erano dichiarati sfiniti ormai dalle vicende giudiziarie e dalle condizioni disumane in cui il giovane vessa durante le udienze. L’ultima volta il suo caso era stato trattato con quello di altri 700 detenuti e non gli è stato permesso di sedersi e bere per tutta l’attesa del suo processo

Scriveva Carlo Verdelli sul Corriere della Sera non molto tempo fa, rivolgendosi al Presidente Draghi: Ci vorrà molto coraggio per ridare speranza a un’Italia interrotta da una crisi disperante – è un passaggio del suo articolo -.   La lista delle priorità è lunga, il contesto pericolosamente litigioso, il clima dentro e fuori il Paese non butta al bello, il tutto al netto del virus. Ma le grandi imprese cominciano anche da piccoli segni. Per esempio, dall’emergenza depennata, nell’infuriare della bufera, di uno studente «egiziano ma come se fosse italiano» abbandonato nelle spire di una bestia congegnata per soffocarlo. Sta esaurendo le forze, il «nostro» Zaki, si sta perdendo dentro l’incubo in cui l’hanno precipitato. Non rimane tanto tempo e non bastano più gli attestati di solidarietà a ciglio umido. Ci vorrebbe un moto di coraggio. Dargli la cittadinanza italiana, per esempio, che è cosa ben diversa dalla benemerenza civica regalatagli dalla sua Bologna. Vero che questa concessione richiede passaggi complessi, compreso un decreto del presidente della Repubblica, ma non ci sono ostacoli di forma: Patrick Zaki potrebbe diventare, giuridicamente, sia egiziano sia italiano. E in questo caso la pressione sul Cairo aumenterebbe di potenza, anche agli occhi degli alleati europei in questa battaglia di umanità. La nostra legge prevede che il riconoscimento della cittadinanza a uno straniero sia possibile ‘quando questi abbia reso eminenti servizi al Paese, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato». Siamo nel secondo caso. Il nostro Stato, oggi più che mai, ha bisogno di dare segnali forti di coraggio. Nel suo proprio interesse, e in quello degli ultimi della fila”

Lettera dal carcere

Presidente Draghi, per conoscere ancor meglio la condizione di Zaki, sarebbe cosa buona e saggia leggere la lettera che il giovane “sequestrato” ha scritto il 12 dicembre scorso, tre mesi fa. 

“Ho ancora problemi alla schiena e ho bisogno di forti antidolorifici e di qualcosa per dormire meglio”, racconta dal carcere di Tora in un messaggio rivolto ai genitori. “Il mio stato mentale non è un granché dall’ultima udienza”, scrive lo studente, nella lettera che la famiglia ha ricevuto e gli attivisti hanno pubblicato sulla pagina Facebook “Patrick Libero” esprimendo la loro “grave preoccupazione per la salute mentale e fisica di Patrick”. 

“Continuo a pensare all’Università, all’anno che ho perso senza che nessuno ne abbia capito la ragione. Voglio mandare il mio amore ai miei compagni di classe e agli amici a Bologna. Mi mancano molto la mia casa lì, le strade e l’università. Speravo di trascorrere le feste con la mia famiglia ma questo non accadrà per la seconda volta a causa della mia detenzione” continua nella lettera Zaki.

Quel carcere infernale

Se poi è interessato a saperne di più di dove sia recluso lo studente, ecco la descrizione che l’ottima collega Antonella Napoli ne fa in un documentato, angosciante articolo per Avvenire: “Una grande tomba di cemento, il simbolo del terrore del regime egiziano guidato dal presidente Abdel Fattah al–Sisi. Basta attraversare l’ingresso sorvegliato da blindati e uomini armati nelle torrette collocate lungo il perimetro del penitenziario di Tora, a soli venti miglia a sud dal Cairo, per capire che la definizione coniata dagli attivisti per i diritti umani rispecchia pienamente l’essenza della famigerata struttura carceraria. Questa immensa prigione divisa in quattro blocchi, tra cui la sezione di massima sicurezza conosciuta come “lo scorpione”, rappresenta per uomini e donne, che potrebbero non affrontare mai un processo, un campo di detenzione preventiva senza via di uscita. Ancor più oggi, con il rischio elevato di contrarre il Covid–19…”.

Ed ancora: “Le uniche aree ristrutturate sono quelle riservate agli uffici amministrativi, una piccola clinica medica e due edifici per il personale che includono la sala di riposo degli ufficiali, la biblioteca, la lavanderia e la cucina centrale. Le sezioni H1 e H2, che si trovano a destra dell’accesso principale, circondate da un muro con due porte realizzate con griglie e lamiere di ferro per bloccare la visione dal cortile esterno, e le sezioni H3 e H4, a sinistra, anch’esse circondate da pareti interne e due ingressi blindati, sono pressoché invivibili. Soprattutto d’estate quando le temperature raggiungono i 50 gradi e dalle acque del Nilo, poco distante, salgono nugoli di zanzare. Ogni sezione è composta da quattro aree di 20 celle di circa tre metri per tre metri e mezzo, dove vengono stipati fino a 15/20 detenuti. Ogni locale ha un piccolo bagno, un lavabo e piani di cemento per dormire. 

Un incubo. Ma è il blocco 4, quello di massima sicurezza, il luogo dove le condizioni di vita diventano insostenibili e si consuma il dramma, l’orrore, delle torture più atroci: cibo infestato da insetti e distribuito in contenitori sporchi, umiliazioni e sevizie continue. «I pochi prigionieri sopravvissuti ci hanno raccontato di metodi cruenti sistematici nel carcere di Tora, in particolare nella sezione ‘Scorpion’ – racconta Ahmed Alidaji, ricercatore di Amnesty International al Cairo fino al 2017 – Io stesso ho raccolto la denuncia di un giovane che insieme ad altri 19 compagni di prigionia è stato denudato e frustato con bastoni sulla schiena, sui piedi e sui glutei dopo che i soldati avevano trovato nella cella una radio tascabile e un orologio. Stessa sorte per un gruppo di 80 occupanti di un intero blocco quando uno di loro è stato scoperto in possesso di una penna. A chi si ribella viene riservato un trattamento anche peggiore. Gli agenti penitenziari, dopo avergli affibbiato nomi femminili, li violentano a turno come “punizione” per aver violato le regole della prigione’ conclude l’attivista.

Non sorprende che ai prigionieri della ‘Scorpion’ venga negato il permesso di vedere i familiari, anche se le autorità carcerarie affermano che sia una misura necessaria per impedire ai leader di gruppi terroristici di inviare istruzioni per attacchi contro turisti, stranieri e forze di sicurezza. Ma la gran parte dei detenuti accusati di terrorismo non ha mai commesso reati o azioni che giustifichino la grave incriminazione. Come Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna imprigionato nel carcere di Tora da otto mesi e ancora in attesa di giudizio”.

Più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. 

Buon compleanno da noi di Globalist, Patrick. 

 

 

 

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