Gerusalemme, quella bramosia di possesso che uccide la speranza
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Gerusalemme, quella bramosia di possesso che uccide la speranza

Quello che sta accadendo è il trionfo del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, l’humus culturale e ideologica su cui è cresciuta la fortuna politica della destra israeliana

Manifestazioni a Gerusalemme
Manifestazioni a Gerusalemme
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Maggio 2021 - 15.17


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La conquista dei luoghi santi di Gerusalemme, avvenuta con la Guerra dei Sei giorni dell’estate 1967, viene rielaborata in una chiave ideologica che da subito aveva preoccupato i due “eroi” di quella Guerra: il ministro della Difesa, Moshe Dayan, e il capo di stato maggiore di Tsahal, Yitzhak Rabin. A farsi strada è la sacralità di “Eretz Israel”, che in quanto tale non è data come materia disponibile per qualsiasi politico. La Terra è Dio.

E’ il trionfo del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, l’humus culturale e ideologica su cui è cresciuta la fortuna politica della destra israeliana. In questa narrazione, la questione della sicurezza, che pure segna da sempre la quotidianità della popolazione israeliana, ha un ruolo tutto sommato secondario. Il punto centrale è che la Terra d’Israele non è negoziabile. E’ una questione identitaria, e dunque metapolitica. Affrontarla significa rileggere la storia d’Israele, dalla sua fondazione ad oggi, e assieme ad essa, quella, non meno complessa e tormentata, della diaspora. Segnata nel tempo da una bramosia di possesso assoluto che ha prodotto guerre, odii secolari, tingendo di sangue le sue pietre millenarie. Gerusalemme.

“Il problema di Gerusalemme consiste nel fatto che è oggetto di una competizione aspra, crudele e nazionalistica tra gli ebrei d’Israele e gli arabi palestinesi. Per entrambe le parti vincere la competizione significa acquistare una sovranità incontrastata sulla città”. Così Avishai Margalit, tra i più acuti analisti politici israeliani, professore di Filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme, riflette sulla Città Contesa nel suo libro Volti d’Israele (Carrocci).

“Ciò che rende il problema di Gerusalemme tanto complesso – annota ancora Margalit – è il fatto che l’attuale competizione nazionalistica per la città si svolge sullo sfondo di un’antica e sanguinosa competizione religiosa tra ebraismo, cristianesimo e islam. Per comprendere la profondità del conflitto nazionalistico bisogna afferrare il carattere di quello religioso…”.

Per questo Gerusalemme è il simbolo di un conflitto che non ha eguali al mondo. Perché come nessun conflitto al mondo racchiude in esso interessi, sentimenti, geopolitica e simbologia, in una dimensione atemporale. Sono dunque gli scrittori coloro che meglio sono riusciti a catturare l’essenza e a raccontare la natura del problema. E tra gli scrittori ce ne è uno che più di chiunque altro ha scavato in quel groviglio di sentimenti, ambizioni, paure, speranze, odio, che da sempre caratterizza l’affaire- Jerusalem. Quello scrittore, scomparso qualche anno fa, è Amos Elon. Gerusalemme – osserva Elon nel suo libro Gerusalemme. I conflitti della memoria (BUR) – conserva uno straordinario fascino sulla fantasia e genera, per tre fedi ostili che si esprimono con parole perfettamente intercambiabili, la paura e la speranza dell’Apocalisse. Qui il territorialismo religioso è un’antica forma di cultura. A Gerusalemme, nazionalismo e religione furono sempre intrecciati tra loro; qui l’idea di una terra promessa e di un popolo eletto fu brevettata per la prima volta, a nome degli ebrei, quasi tremila anni fa. Da allora – prosegue Elon – il concetto del nazionalismo come religione ha trovato emuli anche altrove…Oggi, a Gerusalemme, religione e politica territoriale sono una cosa sola. Per i palestinesi come per gli israeliani, religione e nazionalismo si sovrappongono e combaciano. Da entrambe le parti si fondono e ciò che nasce è potenzialmente esplosivo”. Tutto su Gerusalemme rimanda a una visione assolutistica che non conosce né concede l’esistenza di aree “grigie”, di incontri a metà strada tra le rispettive ragioni. Un diplomatico, tutto ciò, dovrebbe saperlo e tenere bene in mente. Perché in questo crogiolo di sentimenti e di passioni, anche un fotomontaggio può divenire devastante.Sari Nusseibeh, già rettore dell’Università Al-Quds a Gerusalemme Est, è il più autorevole e indipendente tra gli intellettuali palestinesi.

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La sua è una delle più antiche famiglie gerusalemite, assieme agli Husseini e ai Nashashibi. Del suo libro” C’era una volta un paese. Una vita in Palestina”(Il Saggiatore), questa è la conclusione: “I dualismi di buono e malvagio, bianco e nero, giusto e sbagliato, all’insegna del ‘noi’ e ‘loro’, dei nostri ‘diritti e delle loro ‘usurpazioni’, hanno ridotto a brandelli la Terra santa. La sola speranza ci viene quando diamo ascolto alla saggezza della tradizione, e dalla consapevolezza che Gerusalemme non può essere conquistata o conservata con la violenza. E’ una città di tre fedi diverse ed è aperta al mondo….Negli antichi, intricati vicoli di Gerusalemme, stupore e prodigi sono sempre dietro l’angolo, pronti a ricordarti che questo non è un posto comune che un rilevatore può misurare con la sua asta graduata. E’ una terra troppo sacra per questo”. E per una dichiarazione unilaterale che ne viola saggezza e tradizione. E ne fa il centro di una possibile, devastante, guerra di religione”.

“Intimidazione. Estorsione. Sfratto: Questa è la brutale realtà per i palestinesi di Silwan, Gerusalemme”.

Sono un organizzatore della comunità palestinese nel quartiere Silwan di Gerusalemme Est. Lasciate che vi mostri cosa significa essere assediati dai coloni e sotto costante attacco da parte delle autorità israeliane. 

E’ il titolo, e il sommario, di un articolo-testimonianza tra i più incisivi, drammatici, tra i tanti che chi scrive, che di Palestina si occupa da oltre 34 anni, ha mai letto. L’autore, Jawad Siyam, è un leader della comunità e un attivista della resistenza non violenta del quartiere di Silwan a Gerusalemme Est. Assistente sociale di formazione, è direttore e co-fondatore del Madaa Creative Center di Silwan e del Wadi Hilweh Information Center.

Questo è il suo racconto pubblicato da Haaretz e ripreso da Globalist

“’Sei civile’, ha detto l’interrogatore israeliano, in arabo beffardo. “Inta mathaqaf. Hai delle connessioni. Non pensare che io abbia paura delle tue conoscenze. Vai a dire loro quello che ho detto, e che ti ho minacciato. Dillo ad Al-Manar e ad Al-Jazeera’. 

Il suo nome era Doron Zahavi, altrimenti chiamato ‘Capitano George’, ed era noto per i brutali metodi di interrogatorio che aveva usato contro i prigionieri libanesi. Lo scopo di questa ‘conversazione’ a cui ero stato convocato continuava a cambiare.

Prima, era che avevo appeso un cartello sul centro comunitario che avevo fondato a Wadi Hilweh, Silwan, dicendo che apparteneva all’Autorità Palestinese. Poi ho mentito dicendo che gli scavi archeologici condotti dall’organizzazione di coloni Elad – i cui portavoce hanno dichiarato che il loro obiettivo è ‘giudaizzare Gerusalemme’ e che gestiscono la popolare attrazione turistica archeologica che chiamano ‘Città di Davide’ – avevano causato il crollo della strada nel nostro quartiere. Allora ho mandato altri ad attaccare gli ebrei per me. ‘Sappiamo che hai attaccato degli ebrei’

“Mi avete visto attaccare qualcuno?”. Chiesi. “Sapete bene che non uso mai la violenza”. ‘So che sei sofisticato’, ha detto. ‘Non lo fai da solo’. 

A un certo punto della conversazione, il mio interrogatore mi disse:  ‘Se tu fossi in Siria, o in Libano, o in Giordania, pensi che ti lascerebbero parlare così? Siamo idioti, noi ebrei. Se capissimo qualcosa, espelleremmo la gente come te’. 

Gente come me. Sono un assistente sociale qualificato. Sono padre di due bambini e residente in un quartiere palestinese di Gerusalemme Est, Wadi Hilweh, a Silwan. Nel 1967, il mio quartiere è stato occupato e reso parte della ‘città unita di Gerusalemme’. Siamo stati annessi a Israele, ma non ci è stata data la cittadinanza. 350.000 palestinesi di Gerusalemme Est sono considerati residenti permanenti di Israele; ufficialmente godono di alcuni diritti sociali, ma in realtà sono privati di molti diritti fondamentali. 

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A Silwan, in particolare, viviamo sotto un regime speciale non dichiarato. A causa della nostra vicinanza alla Moschea di Al-Aqsa e ai luoghi santi; perché l’antica Gerusalemme si trovava sulle pendici del nostro quartiere, e perché siamo al centro simbolico del conflitto israelo-palestinese, le autorità israeliane, insieme ai coloni, hanno sempre voluto appropriarsi della nostra terra, per rendere Silwan più ‘ebraica’, più ‘loro’.  

Per decenni, i residenti di Silwan hanno subito una pressione tremenda e un attacco costante e furioso da parte dei coloni, delle loro guardie di sicurezza, della polizia e delle autorità israeliane. Sono un organizzatore comunitario nonviolento che ha passato gli ultimi 20 anni della sua vita a difendere la mia comunità, i bambini che non hanno un solo parco giochi, le famiglie, come i Sumarin, che sono minacciate di sfratto sulla base di leggi razziste. Per questo, sono considerata una minaccia dalle autorità israeliane e dai coloni. In tempo reale, le autorità tenevano dei dossier su Martin Luther King Jr. e altri attivisti neri dei diritti civili in America. Sono stati ricattati, minacciati, svergognati e attaccati. Quando mio padre morì, alla fine degli anni ’90, stavo studiando lavoro sociale in Germania. Sono tornata a Gerusalemme per difendere la casa della mia famiglia dalla minaccia di sfratto. 

I coloni di Elad (la Fondazione Città di Davide), sostenevano di aver comprato la casa dal mio defunto padre, quando lui non era più in vita per testimoniare il contrario. Parallelamente sostenevano di aver comprato la parte di casa di mia nonna da mio zio, che viveva all’estero. 

La mia famiglia ha dovuto intraprendere una lunga e costosa battaglia in tribunale per dimostrare che avevano torto, cosa che abbiamo fatto: ma non appena abbiamo vinto la causa, Elad ne ha iniziata un’altra. Alla fine, dopo 20 anni di estorsioni e di estenuanti battaglie legali, sono riusciti a impossessarsi di metà della nostra proprietà. Nel luglio 2019, mia cognata e i suoi quattro figli sono stati buttati fuori dal loro appartamento, e i coloni israeliani si sono trasferiti qui. Dopo questa lunga e costosa battaglia, i coloni hanno recentemente appena vinto un’altra causa nei tribunali israeliani, e ora mi costringono a pagare loro 200.000 dollari come ‘affitto arretrato’. 

Questa storia non riguarda solo una casa o una famiglia. Poco dopo essere tornato a Gerusalemme, mi è diventato chiaro che il problema era molto più profondo e più ampio di questo. Ho visto famiglie lottare per guadagnarsi da vivere, lottare contro le demolizioni di case, resistere ai piani di acquisizione ed espulsione dei coloni, fare di tutto per liberare i loro figli da ingiuste detenzioni. Ho visto i bambini costretti a giocare nelle strade perché la municipalità di ‘Gerusalemme Unita’ non fornisce un solo parco giochi o centro comunitario per i bambini di Silwan. 

Ho iniziato a organizzare degli sforzi per fornire alla comunità i servizi che le mancavano e per creare un sito mediatico e informativo che raccontasse la verità sul nostro quartiere e sulla nostra casa, a differenza della propaganda proposta da Elad ai milioni di turisti che visitano il loro sito ogni anno. Per questo, sono stato punito e continuo ad essere punito ancora oggi.  Ho perso il conto del numero di volte in cui sono stato arrestato, o convocato per ‘conversazioni’ come quella che ho avuto con il capitano George.  In un caso, sono arrivati al punto di usare un collaboratore palestinese per inventare accuse contro di me, dicendo che l’avevo aggredito: accuse che persino i tribunali israeliani hanno riconosciuto essere false e infondate, ma solo dopo che ero stato agli arresti domiciliari per sei mesi. sono stato accusato di sradicare gli alberi dei coloni, di addestrare i bambini a lanciare pietre, di far parte dell’Olp. E di Hamas. E del Pflp. Non c’è niente di vero.  

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Una parte del centro comunitario che ho costruito è stata demolita dalle autorità israeliane perché non aveva i permessi appropriati; questo, nonostante sia praticamente impossibile per i palestinesi ottenere i permessi per costruire qualcosa nei nostri quartieri. La municipalità di Gerusalemme ci chiede ora di pagare centinaia di migliaia di shekel di tasse municipali, definendo il nostro centro comunitario come ‘commercio’ piuttosto che darci il comune sconto previsto per le Ong. 

Più di una volta, mi è stato offerto ‘uno stipendio e mezzo’ in cambio di lasciare la mia casa, e lasciare Silwan. Più di una volta mi è stato detto che se tengo la testa bassa, mi lasceranno in pace. Più di una volta, più di cento volte, ho rifiutato di lasciare la mia casa e di smettere di lottare per il mio quartiere.

A posteriori, naturalmente, tutti affermano di ammirare il lavoro del movimento per la libertà guidato dai neri, di celebrare l’eredità di Martin Luther King. Così anche in Sudafrica: in tempo reale, gli attivisti furono tormentati e vilipesi, ma in retrospettiva, tutti affermano di essere stati a favore dei loro sforzi. 

A Gerusalemme Est, e in Palestina, siamo nel mezzo del tempo reale. Non c’è retrospettiva. E nel bel mezzo di questo tempo reale, le cose possono sembrare ‘complicate’. Ma quando si zooma, si vede chiaramente che, come in Sudafrica o nel Sud americano, la storia è quella di un’oppressione, di una lotta per la libertà – e di quanto gli oppressori si spingeranno a sopprimere gli sforzi di resistenza, specialmente quelli nonviolenti. Perché so che il mio caso non è unico: un giorno è la mia casa, il giorno dopo sarà quella del mio vicino. Un giorno è Wadi Hilweh, il giorno dopo sarà il quartiere di Batan al-Hawa a Silwan, e il giorno dopo sarà Sheikh Jarrah, o altrove a Gerusalemme Est. Capisco come funziona questa occupazione: per questo sono una minaccia. 

Già nel 2010, nella ‘conversazione’ alla quale sono stato convocato con il ‘capitano George’, ho chiesto al mio interlocutore: “Vuoi che accolga i coloni che, attraverso la falsificazione, sono venuti a prendere la mia casa?”. ‘Ma avete vinto in tribunale’, disse, riferendosi a una sentenza a nostro favore, prima che i coloni ne presentassero un’altra che rivendicava altre parti della nostra casa. ‘Cos’altro volete?’. ‘So che hanno altri piani’.   Ho capito allora, come capisco adesso, che non si fermeranno davanti a niente. Un giorno l’occupazione finirà, e quel giorno tutti si guarderanno indietro e diranno: ‘Sono sempre stato a favore degli oppressi’.

Il racconto-testimonianza di Jawad Siyam termina qui. Ma la sua lotta continua. Contro un’oppressione quotidiana. Contro la pulizia etnica che investe i 350mila palestinesi di Gerusalemme Est. Jawad non si arrende all’ingiustizia. E con lui i ragazzi di Damascus Gate, i residenti di Sheikh Jarah.  Combattono per la libertà. Contro l’occupazione e la pulizia etnica messa in atto da Israele. Non lasciamoli soli. 

 

 

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