Kabul e la strage delle studentesse: così l'Isis sfida i Talebani e l'Occidente in fuga
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Kabul e la strage delle studentesse: così l'Isis sfida i Talebani e l'Occidente in fuga

Afghanistan, il futuro è un ritorno al passato. Color sangue. La fuga di Stati Uniti e Nato dopo venti anni di guerra disastrosa, lascia spazio allo scontro interno jihadista tra Talebani, al-Qaeda e Isis.

Miliziani dell'Isis del Khorasan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Maggio 2021 - 17.12


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Afghanistan, il futuro è un ritorno al passato. Color sangue. La fuga, perché di ciò si tratta, di Stati Uniti e Nato dopo venti anni di una guerra disastrosa, lascia spazio allo scontro interno al campo jihadista tra Talebani, al-Qaeda e Isis.

Strage di studentesse

Tre esplosioni ravvicinate in un quartiere occidentale di Kabul hanno causato la morte di 55 persone, questo pomeriggio, ma il bilancio è ancora provvisorio. Si tratterebbe soprattutto di donne: l’attacco è avvenuto vicino alla scuola superiore Sayed Ul-Shuhada – nel distretto di Dasht-e-Barchi, abitato dagli sciiti Hazara, spesso presso di mira da miliziani sunniti, in particolare del Daesh – che prevede tre turni separati per maschi e femmine, e in quel momento erano presenti le studentesse. I feriti sono almeno 150. 

Secondo le prime ricostruzioni, a esplodere è stata un’autobomba, seguita poi da altri boati, forse provocati dal lancio di razzi. La deflagrazione è avvenuta nel distretto di Dasht-e-Barchi, a ovest della città, dove vive la minoranza hazara sciita, spesso oggetto di discriminazione e attacchi da parte dell’estremismo di etnia pashtun, con centinaia di persone che si trovavano in strada a fare acquisti in vista dell’Eid al-Fitrd el 12 maggio che segnerà la fine del mese di digiuno musulmano. Si tratta della stessa zona colpita da un attacco dell’Isis contro la maternità gestita da Medici Senza Frontiere nel giugno 2020.

Non è ancora chiaro chi siano gli autori di quello che sembra essere l’ennesimo attentato contro civili in un Paese martoriato da decenni di conflitto e che tenta a fatica di avviare un processo di pacificazione interna. Vista la dinamica, il principale indiziato sembra essere lo Stato islamico. Più difficile, invece, che sia opera dei Talebani che, solitamente, sferrano i loro attacchi contro obiettivi governativi o militari, sia della coalizione che del governo di Kabul. Raramente, invece, i civili sono stati obiettivi diretti negli ultimi anni.

“Ho visto corpi insanguinati in una nuvola di fumo e polvere, mentre alcuni dei feriti urlavano”, ha raccontato un uomo sfuggito all’esplosione. “Ho visto una donna cercare la figlia tra i cadaveri – ha aggiunto – Ha poi trovato uno zaino che era della figlia ed è crollata”. 

Sdegno e cordoglio per l’attentato sono state espresse dalla missione Ue in Afghanistan e dalla missione di assistenza delle Nazioni Unite nel Paese. Il ministero dell’Interno afghano ha annunciato di aver aperto un’inchiesta per terrorismo.

In campo a Kabul per assistere i feriti c’è anche Emergency: “Al momento abbiamo già ricevuto 26 feriti, quasi tutte ragazze tra i 12 e i 20 anni, mentre una persona era già morta all’arrivo,” ha raccontato Marco Puntin, Programme coordinator di Emergency in Afghanistan. L’organizzazione ha in città uno dei suoi due centri chirurgici per assistere i feriti di guerra. “Siamo estremamente preoccupati da questa escalation di violenza che ha colpito Kabul e altre zone del Paese nelle ultime settimane, dopo l’annuncio del ritiro delle truppe Nato”, avverte Puntin.

Dal primo maggio in tutto l’Afghanistan, e in particolare a Kabul, è massima allerta: gli americani hanno iniziato il ritiro delle truppe che dovrà essere completato entro l’11 settembre, a 20 anni esatti dagli attacchi alle Torri Gemelle. «Non possiamo continuare il ciclo di estensione o espansione della nostra presenza militare in Afghanistan sperando di creare le condizioni ideali per il nostro ritiro, aspettandoci un risultato diverso», aveva spiegato in aprile il presidente Joe Biden annunciando il disimpegno. La Nato si era subito allineata, riconoscendo che “non esiste una soluzione militare alle sfide che l’Afghanistan deve affrontare”.

Dopo un anno dagli accordi fra Stati Uniti e Talebani, siglati a Doha lo scorso 29 febbraio, e dopo diversi mesi di negoziati con il governo afghano, non c’è stata nessuna tregua per la popolazione, sottolinea l’Ong: secondo la missione delle Nazioni Unite Unama, il numero delle vittime civili nel primo trimestre del 2021 è già tornato ai livelli del 2019, cancellando le speranze suscitate dalla diminuzione delle violenze registrata a inizio 2020.

È di tutta evidenza  – annota Barbara Uglietti su Avvenire – che il Paese è ancora lontanissimo da un’emancipazione pur necessaria, e che il vuoto lasciato dalle forze internazionali rischia di essere riempito da chi campa sull’instabilità. Ci vuole un grosso sforzo di ottimismo per credere che lo possa tradursi, al netto di tutte le rinegoziazioni, in qualcosa di concreto. Anche perché ormai su tutto il territorio agiscono forze contrapposte, più direttamente collegate al Daesh o ad al-Qaeda, che nessuno – nemmeno i taleban, peraltro generosamente individuati da quell’intesa come ‘forza di contrasto’ della galassia jihadista internazionale – riesce a controllare”.

La trincea del Jihad

in Afghanistan opera una costellazione di gruppi jihadisti, come il Network Haqqani, manovrato dai Servizi pachistani, e lo Stato islamico, che ha cellule nella capitale e controlla una piccola fetta di territorio al confine con il Pakistan.  L’Afghanistan non è l’Iraq o la Siria, dove gli affiliati all’Isis combattono i curdi, i cristiani e gli sciiti. Qui il potere è conteso ad altri sunniti, i Talebani, e più che per conquistare nuovi territori al “califfato”, si combatte per assicurarsi il controllo delle rotte del commercio dei narcotici. La “fabbrica” talebana di oppiacei mantiene salda la prima posizione mondiale, infatti l’eroina afghana raggiunge quasi tutto il globo. Due dati particolarmente indicativi: copre il fabbisogno del 90% del Canada e dell’85% circa delle richieste mondiali. La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. Un traffico enorme, fortemente consolidato nella sua catena di produzione-vendita-incasso di milioni di dollari di profitti. Il prodotto viaggia sfruttando tutti i mezzi di trasporto: le rotte aeree e marittime permettono all’eroina afghana di giungere ovunque (eccetto il Sud America, qui vi sono i cartelli narcos che hanno il ‘loro’ prodotto). Le vie terrestri coinvolgono pesantemente Iran e Pakistan, costretti ad impiegare sempre più risorse per contrastare questi flussi. Lo Stato islamico è entrato in questa partita. La provincia di Nangarhar, nella parte orientale del Paese, al confine con il Pakistan, e ora è in buona parte occupata dall’Isis. L’invasione è cominciata nell’estate del 2014, quando dal confine sono arrivati un centinaio di talebani pakistani che, dopo essere scappati dall’esercito, si sono uniti a una fazione di talebani afghani. 

Il fallimento dell’Occidente

Nel gennaio 2017, l’Isis ha annunciato la nascita di una nuova fazione locale in Afghanistan, alla quale hanno velocemente aderito molti fuoriusciti dai talebani: gli afghani di Nangarhar non lo sapevano, ma si trattava proprio dei pakistani rifugiati nelle loro case. Dopo un anno di alleanza con i talebani afghani, in estate, l’Isis è venuto allo scoperto predicando in moschea un islam rigidamente wahabita (lo stesso professato in Arabia Saudita).  A luglio 2017 sono cominciati i primi scontri a fuoco tra i talebani afghani e i pakistani, passati all’Isis.   Dopo un mese circa di combattimenti, l’Isis si è impossessato della zona, nonostante gli americani bombardassero sia loro che i talebani. Passando villaggio per villaggio e casa per casa, i jihadisti hanno rubato i mezzi di sostentamento ai residenti, distruggendo scuole e madrasse talebane, imponendo una nuova legge. Le abitazioni dei talebani sono state bruciate e chi veniva sospettato di essere loro alleato è stato rapito e seviziato. 

 Una recente inchiesta della Bbc metteva in evidenza come l’adesione allo Stato islamico fosse divenuta economicamente più appetibile per gli afghani, considerato lo stipendio di 500$ mensili, cui il movimento talebano (in guerra dal 2001) non può sicuramente entrare in concorrenza. Il pericolo di un progressivo sbilanciamento di forze a favore delle bandiere nere era stato denunciato dallo stesso leader Mullah Omar, ora defunto, in una lettera proprio rivolta al Califfo al-Baghdadi, anche lui passato a miglior vita. Nella stessa, il Mullah intimava il fu Califfo di “non cercare di penetrare in Afghanistan” e che la sua azione stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano. E a rendere ancora più ingovernabile il Paese è la frammentazione etnico-tribale, che ha assunto tratti sempre più profondi: alla maggioranza etnica Pashtun, si aggiungono Tajiki, HazaraUzbechi, AimakTurkmeni e Baluchi.

Dopo venti anni di guerra, lo Stato afghano appare oggi una entità fallita. Venti anni di guerra, ovvero oltre 140 mila morti, tra cui almeno 26 mila civili. A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati Nato (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri. Una guerra costata 900 miliardi di dollari, 7,5 per l’Italia. Afghanistan, 2001-2021: storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli.

 Sul terreno si assiste ad una competizione per la leadership del terrore tra l’Isis, che sta arruolando i Pashtun, e al Qaeda 2.0. Una concorrenza che non oscura il dato di realtà: l’idea del “califfato” prende sempre più piede, e territori, in Afghanistan. E il “futuro” assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento militare dell’ottobre 2001: un Paese-santuario dell’islam radicale armato.

Il “male minore”

E così, nella logica delle alleanze variabili che connota, in politica estera, l’agire americano (prima e dopo Trump) i talebani possono diventare il “male minore” con cui venire a patti, come sta accadendo in Siria con Bashar al-Assad.  Resta il fatto, incontestabile, che dall’avvio della “guerra al terrorismo” qaedista, nell’ottobre 2001, l’Afghanistan è un Paese che non sa cosa sia la pacificazione, dove a prosperare sono solo i traffici di armi e di droga. Un Paese dove imperano milizie jihadiste, “signori della guerra” e califfi eterodiretti; un Paese dove nessuno può dirsi al sicuro. Per il giornalista francese Jean-Pierre Perrin, autore del libro Le djihad contre le rêve d’Alexandre, una storia dell’Afghanistan dal 330 a.C. ai giorni nostri, gli occidentali hanno già perso: “I Paesi occidentali non vogliono riconoscere questa umiliante sconfitta. E ancora meno sono disposti ad accettare che sia stata inflitta loro da bande di irregolari male armati, male addestrati, poco equipaggiati e dieci volte meno numerosi. Questa sconfitta ci riporta ai fallimenti degli invasori precedenti: gli inglesi in tre occasioni – e la prima volta risaliva a qualche anno dopo la vittoria su Napoleone – i russi e prima di loro altri eserciti stranieri meno importanti come gli iraniani. Del resto non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il ‘cimitero degli imperi’”.  Un “cimitero” dal quale tutti stanno per andarsene. Senza, però, dare l’idea di una fuga dalla sconfitta.

Quanto all’accordo di “pace” Usa-Talebani, vale quanto scritto a suo tempo  da Franco Venturini sul Corriere della Sera:” È la pace di Donald Trump, che vuole avere il tempo e il modo di ritirare dalla ‘Tomba degli imperi’ afghana quasi tutti i suoi 13.000 soldati prima delle elezioni presidenziali di novembre, e che già tra 135 giorni potrà esibire agli elettori statunitensi una riduzione del contingente a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca. Già tra 135 giorni il Presidente potrà esibire agli elettori statunitensi una riduzione del contingente a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca. È la pace dei Talebani, ai quali per tornare al potere viene chiesta soltanto la stessa pazienza che ebbero i nordvietnamiti quando gli statunitensi cominciarono a ripiegare, fino a quell’ultimo sovraccarico elicottero in partenza nel 1975 dal tetto dell’ambasciata di Saigon. Forse si può sperare che sia anche la pace delle popolazioni civili afghane, che hanno pagato un prezzo esorbitante alla ferocia o alla mancanza di cautela di entrambi gli schieramenti. Ma non è la pace, questa, degli afghani che si sono battuti con enormi perdite a fianco degli occidentali, e che ora sono stati esclusi dai negoziati con i Talebani in cambio di un vago dialogo interafghano’”.

Quell’accordo spacciato per “pace” non è servito a Trump per restare alla Casa Bianca. Per il resto, le considerazioni di Venturini valgono per l’oggi. E per un futuro che per l’Afghanistan è un ritorno al passato. 

Un rapporto riservato dell’intelligence Usa – già abbozzato durante la presidenza Trump ma tenuto nel cassetto per non irritare l’inquilino della Casa Bianca – rivelato di recente dal New York Times – conferma che in caso di ritiro delle truppe occidentali gli integralisti riprenderebbero subito il potere.  Una previsione che si sta trasformando in realtà. Una realtà-incubo per il popolo afghano. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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