"In Libia non temiamo concorrenti". L'ultima spacconata di Di Maio

Cremonesi, grande inviato del Corsera, ha intervistato il ministro degli Esteri dopo la sua missione negli Stati Uniti. A lui la mia solidarietà per aver cercato di dare spessore alle parole del ministro

Di Maio
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Aprile 2021 - 15.39


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Chi scrive, conosce Lorenzo Cremonesi da più di trent’anni, da quando era un giovane e brillante corrispondente da Israele del Corriere della Sera. Lorenzo è un inviato di guerra. Un inviato vero, che sta sul campo e non chiuso in una stanza di albergo a cinque stelle. Scrive quello che vede e non si accontenta mai di verità di comodo, tanto meno di verità preconfezionate da veline di Stato. 

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Della Libia conosce ogni particolare, avendola raccontata sin dai giorni della rivolta di Bengasi e della guerra a Gheddafi, e sa bene come stanno realmente le cose. Ed è per questo che oggi mi sento di esprimergli la mia solidarietà. Per aver dovuto compiere un’impresa impossibile: dare spessore alle parole di Luigi Di Maio. 

Narrazione e realtà

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Cremonesi ha intervistato il ministro degli Esteri al rientro dalla sua missione negli Stati Uniti. Bel colpo. La prima visita dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Joe Biden. Di carne al fuoco ce n’era tanta. E l’intervistatore ci ha provato, eccome se ci ha provato, a incalzare il prode Giggino. Nessuna domanda in ginocchio, tutti i dossier più caldi squadernati. Di più, Cremonesi non poteva fare. Di certo non poteva dare spessore ad un ministro che in politica estera ha lo spessore di una carta velina. 

Come detto, Cremonesi conosce molto bene la situazione in Libia. Sa chi conta davvero e chi fa finta di contare, evocando improbabili cabine di regia di cui farebbe parte.  Sa, ad esempio, che senza il sostegno militare, diretto e indiretto, della Turchia alle autorità di Tripoli, oggi la Libia sarebbe nelle mani dell’uomo forte della Cirenaica: il generale Khalifa Haftar. Cremonesi sa bene, perché lo ha scritto in diverse analisi e reportage, che i turchi ci hanno sloggiato da Misurata. Che Ankara ha stabilito rapporti economici e militari con Tripoli di lungo termine. E sa che Recep Tayyp Erdogan è un autocrate molto suscettibile, e che si è legato al dito quel “dittatore” con cui il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, si è riferito a lui in una recente conferenza stampa. E sa altrettanto bene che in Libia l’Italia ha collezionato una sequela di fallimenti che la sola elencazione estenuerebbe il lettore. 

Immaginatevi ora, come può sentirsi uno così di fronte a un ministro che proclama, senza arrossire di vergogna che “In Libia, l’Italia non teme concorrenti”. E, come non bastasse, aggiunge che in Libia l’Italia è “avvantaggiata”.

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Con la Libia abbiamo rapporti storici, siamo più avanti di tutti. Noi stiamo rimettendo in moto i cantieri di contratti stipulati anni e anni fa, come l’autostrada costiera o la costruzione dell’aeroporto di Tripoli. L’Eni è la più forte compagnia straniera. Gli altri devono iniziare adesso tutto da zero. La nostra ambasciata è sempre stata aperta”.

E presto, “credo entro il primo giugno”, verrà riaperto anche il consolato a Bengasi, annuncia Di Maio.

A parte l’interessante riferimento al rapporti storici, c’è anche il colonialismo fascista con i crimini perpetrati in Nord Africa, che in Libai nessuno ha dimenticato, il “bello” viene adesso. 

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“Centrale – aggiunge infatti il ministro – sarà spingere, anche assieme agli americani, per espellere i mercenari stranieri. Ne parlerò con la nuova ministra degli Esteri, Naila Mangoush che il 22 aprile sarà a Roma”.

Bevenuta. Si dà il caso, però, che solo qualche giorno fa sia avvenuto qualcosa che forse a Di Maio è sfuggito. Riprendiamo il servizio dell’Ansa del 12 aprile scorso: “Il premier libico, Abdelhamid Dbeibah, sarà nel pomeriggio in Turchia, accompagnato da un’ampia delegazione governativa di 14 ministri e dal capo di stato maggiore, Mohammed Al-Haddad, per incontrare il presidente Recep Tayyip Erdogan al palazzo presidenziale di Ankara. Gli incontri avranno inizio con un colloquio privato tra i due leader, seguito dalla prima riunione del Consiglio di cooperazione strategica tra i due Paesi e da una cerimonia per la firma di accordi bilaterali, accompagnata da una conferenza stampa congiunta. I colloqui saranno focalizzati sugli accordi già siglati tra i due Paesi, tra cui quello per la demarcazione dei confini marittimi nel Mediterraneo, e sul rafforzamento della cooperazione strategica ed economica, dalle partnership nel settore dei servizi al ritorno delle società turche in Libia per riprendere le attività interrotte a causa del conflitto.
La natura della delegazione, composta di fatto dall’intero governo libico, rispecchia secondo gli osservatori il ruolo cruciale svolto da Ankara nella difesa di Tripoli dall’assedio del generale della Cirenaica Khalifa Haftar, sostenuto principalmente da Russia, Emirati ed Egitto…”. 

L’intero governo libico convocato dal “Sultano”. Ma noi non temiamo concorrenti. 

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Andiamo oltre. Chissà perché, il capo (formale) della diplomazia italiana si è convinto che la nuova amministrazione Usa, abbia inserito la Libia tra i primi punti della sua agenda internazionale. Basta prendersi la briga di parlare con un buon analista di politica estera o con un corrispondente americano a Roma, per avere contezza che questa convinzione sa fondata sul nulla. Ben altre sono le priorità di Biden, e quasi tutte di politica interna (una campagna massiva di vaccinazione, la tensione razziale, rilanciare l’economia…) e che sul versante geopolitico, al centro di tutto resta il confronto-scontro con il Gigante cinese. 

In questo quadro, ciò che più interessa alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato è che Roma non abbia ancora “sbandate” filo-cinesi (vedi la nuova Via della Seta), che si accolli l’acquisto di tutti gli F-35 in programma, che aumenti il suo contributo finanziario alla Nato. Quella di Biden, è una versione edulcorata dell’America first del suo predecessore. Che poi, a ben vedere, è la linea di tutti i presidenti, democratici e repubblicani, succedutisi alla Casa Bianca: va bene il multilateralismo, vanno benne le alleanze strutturate, a patto che siano funzionali agli interessi americani.

L’Italia non ha mai mutato il suo posizionamento geo-politico di fondo. I nostri governi sono sempre rimasti fedeli all’Alleanza Atlantica. Va aggiunto che il governo di Joe Biden ha cambiato approccio rispetto alla precedente amministrazione Trump. Roma e Washington non sono mai state tanto vicine. Questa amministrazione Usa non è certo isolazionista, siamo perfettamente allineati su questioni fondamentali, come la difesa dei diritti umani, o dell’ambiente”, sancisce l’uomo che in passato ha indossato la casacca putiniana e quella cinese. “L’Italia è un alleato fondamentale della nuova politica americana. Biden e la sua amministrazione mi hanno anticipato le scelte sull’Afghanistan, assicurano il loro sostegno in Libia”, sottolinea il ministro. Naturalmente non c’è uno straccio di conferma a tal proposito sui più importanti media americani: abbiamo fatto una rapida ricerca sulle home page di Cnn, Cbs, New York Times, Washington Post, e di quanto rivelato da Di Maio non esiste traccia.
Da giornalista con la schiena dritta, Cremonesi incalza il ministro: “Biden appena eletto condannò il principe Mohammad Bin Salman per l’omicidio di Jamal Kashoggi, ma disse anche che le relazioni economiche d’antica data con i sauditi non potevano cambiare. Lo stesso farà l’Italia con Egitto o Turchia?”, chiede l’intervistatore. “Nonostante la condanna, gli americani non hanno cessato le relazioni con i sauditi. I nostri rapporti con l’Egitto sono ai minimi storici da anni – spiega l’intervistato -. Ci sono aziende private italiane che lavorano nel Paese, però non sono spinte dal governo. Ma è ovvio che non possiamo tagliare i rapporti con l’Egitto quando dobbiamo trattare per esempio della diga etiope sul Nilo e di questioni vitali come la Libia. Ci sono aspetti della realtà attorno al mare nostrum che ci obbligano a negoziare con chiunque, anche con i regimi non democratici. Non è una questione di double track, da una parte i principi e dall’altra gli affari. Tutt’altro, abbiamo più volte criticato la politica saudita nel conflitto yemenita”.

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Qui siamo in piena commedia napoletana. Il culmine della faccia tosta, il ministro lo raggiunge quando afferma che “ci sono aziende private italiane che lavorano nel Paese, però non sono spinte dal governo”. Sì, avete letto bene. Di Maio sostiene che in un Paese retto da un regime autoritario, un vero stato di polizia, dove nulla accade senza che i militari non diano il via libera, aziende italiane possono lavorare senza avere il sostegno della nostra diplomazia, senza essere spinte dal governo. E’ semplicemente ridicolo pensarlo, un insulto all’intelligenza altrui dichiararlo. I rapporti con l’Egitto sono ai minimi storici, sostiene Di Maio. E le fregate Fremm vendute alla marina militare egiziana, cosa sono, noccioline? Quanto poi all’attenzione ai casi Regeni e Zaki, è meglio stendere un velo pietoso: l’Italia continua a prendere schiaffi in faccia a ripetizione dalle autorità egiziane senza abbozzare uno straccio di reazione politica e diplomatica. 

Mercenari da cacciare? 

Ma torniamo in Libia. “Centrale sarà spingere, anche assieme agli americani, per espellere i mercenari stranieri”, afferma Di Maio. A parte quell’”anche”, come se un ipotetico sostegno americano fosse aggiuntivo a chissà quale capacità d’interdizione italiana, ma qualcuno ha spiegato al ministro di cosa sta parlando?

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Globalist ha documentato con articoli e interviste questa guerra di mercenari al soldo di Russia, Turchia, Emirati Arabi Unit e, più defilati, Arabia Saudita e Qatar.

Soffermiamoci sulla Turchia. Per la sua campagna libica fa leva sulla compagnia militare privata Sadat, etichettata da alcuni come “l’esercito ombra di Erdogan” in Libia, dove è attiva già dal 2012 (stesso anno in cui è stata fondata). Si tratta di gruppi di contractor formati da ex militari, con la benedizione dei servizi segreti turchi (Mit). Alla testa di Sadat è Adnan Tanriverdi, comandante in pensione dell’esercito, che ha specificato che la compagnia “fornisce sostegno e addestramento militare in 22 Paesi del mondo islamico e dell’Asia Centrale”.  Sadat è stata impegnata in operazioni spesso clandestine, come l’addestramento delle milizie siriane da opporre al regime di Bashar al-Assad. L’intervento di Sadat nei Paesi coinvolti nelle “primavere arabe” è servito a Erdogan per spingere nell’orbita turca realtà in profondo cambiamento, come appunto quella libica, molto spesso attraverso la raccolta di informazioni e interventi diretti circoscritti. La Turchia per avere la meglio sul campo in Libia si affida anche ai mercenari siriani. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani negli ultimi sei mesi Ankara ha portato sul fronte a Tripoli 9.600 mercenari e altri 3.300 li sta addestrando nei campi siriani, pronti a partire. Tra le reclute, segnala l’Osservatorio, vi sono circa 180 minori di età compresa tra 16 e 18 anni. 

Dal maggio 2019, in coincidenza non casuale con il coinvolgimento principalmente di Turchia e Russia nel conflitto, sono arrivati in Libia mercenari dal Ciad e alcuni ribelli del Darfur. Poi, non sono mancate le forze di supporto sudanesi, i combattenti libici Toubou e ciadiani nel sud per difendere campi e piste di atterraggio e combattenti russi per lavori più tecnici. In particolare, la Turchia aveva iniziato a rischierare i terroristi mercenari anti-Assad dalla Siria, come truppe di terra già nel 2019, subito dopo la firma degli accordi marittimi e militari intercorsi con il Gna.  La maggior parte di questi combattenti apparteneva all’esercito nazionale siriano “reclutato” da Erdogan per affrontare il governo di Assad sostenuto da Mosca. La maggioranza proveniva da due formazioni: la Brigata Sultan Murad (composta in parte da turkmeni dell’area di Aleppo e autoproclamata come un gruppo “islamista”) e la Brigata al-Sham (principalmente da Idlib e designata come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti). Molti altri provenivano dalla Brigata al-Mu’tasim (Aleppo) e da Jabhat al-Nusra (una branca di al-Qaeda). Per la maggior parte, questi gruppi sono ben addestrati ed esperti nella cooperazione con il supporto al combattimento con le forze armate turche

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Secondo il Pentagono, la Turchia avrebbe pagato e offerto la cittadinanza a migliaia di mercenari siriani per combattere al fianco delle milizie libiche alleate del Gna

Una conferma sul ruolo svolto dai mercenari al servizio del “Sultano” di Ankara, viene da un recente report dell’organizzazione per i diritti umani “Syrians for Truth and Justice” (Stj) .

La Stj è riuscita a mettersi in contatto con un testimone che lavora al confine turco-siriano di Jarabulus e che ha testimoniato come il Ministero della Difesa turco abbia incaricato alcune compagnie di sicurezza privata, tra cui Sadat ed Abna al-Umma di reclutare volontari tramite l’ombrello dell’Esercito libero siriano. Le compagnie in questione si occuperebbero di esaminare i potenziali mercenari per poi preparare tutta la documentazione necessaria e trasferirli legalmente dalla Turchia alla Libia, con tanto di contratto che va dai 3 ai 6 mesi.

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Secondo testimonianze raccolte e pubblicate nel report, i volontari che passano i test di reclutamento vengono poi trasferiti con dei bus in territorio turco dove le compagnie di sicurezza si occupano di registrare i dati di ciascun volontario (impronte, dna, impronta ottica digitale). In seguito, a tutti viene consegnato un documento di identità da utilizzare in Libia e un Kimlik (documento che i turchi rilasciano ai rifugiati siriani). Un processo di circa 3 o 4 giorni, dopo di che i mercenari vengono inviati in Libia.

L’Stj ha poi raccolto la testimonianza di un volontario registratosi con un ufficiale della Divisione “Sultan Murad” noto come Abu Stef ma che ha poi desistito dal partire. L’intervistato ha illustrato l’esperienza di un suo compagno che dopo i test veniva messo in un hotel per poi ricevere documenti turchi, in modo da uscire dalla Turchia senza essere individuato come cittadino siriano. I mercenari vengono trasferiti in Libia con navi ed aerei per poi essere mandati al fronte senza alcun tipo di supporto logistico o indicazioni di alcun tipo. Il volontario ha poi smentito il salario di $3 mila al mese, spiegando che si tratta di soli $1.200 e senza possibilità di poter rientrare in Siria.

La “Linea Maginot” del deserto

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Nel suo ultimo briefing al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’inviata Onu uscente Stephanie Williams ha espresso preoccupazione “per le continue fortificazioni e posizioni difensive create dalle Forze armate arabe libiche (Laaf) all’interno della base aerea di Gardabiya a Sirte e lungo l’asse Sirte-Jufra nella Libia centrale”. Il riferimento è alla “Linea Maginot” del deserto scavata dai mercenari russi della Wagner, al soldo del generale Haftar, ben visibile dalle immagini satellitari open source elaborate dal network Maxar e rilanciate dall’emittente televisiva statunitense Cnn. Si tratta di almeno 30 posizioni difensive scavate nel deserto e sui pendii che si estendono per 70 chilometri circa: una vera e propria trincea progettata per impedire o fermare un attacco di terrestre contro la Cirenaica. 

E Di Maio sostiene che l’Italia in Libia non teme concorrenti…

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