Gideon Levy: "Israele. I have a dream: la rivoluzione dei 100 giorni di una sinistra al Governo"
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Gideon Levy: "Israele. I have a dream: la rivoluzione dei 100 giorni di una sinistra al Governo"

Il sogno di una icona vivente del giornalismo “radical” israeliano.  Un sogno “rivoluzionario”. Lo racconta su Haaretz. Leggetelo con attenzione. C’è tutto: politica, sentimenti, idealità e concretezza. 

Gideon Levy
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Marzo 2021 - 16.42


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I have a dream. “Se ci fosse una sinistra, ecco cosa farebbe nel caso in cui fosse votata al potere.”. 

Il sogno di Gideon Levy, icona vivente del giornalismo “radical” israeliano.  Un sogno “rivoluzionario”. Lo racconta su Haaretz e Globalist lo rilancia. Leggetelo con attenzione. C’è tutto: politica, sentimenti, idealità e concretezza. 

“Alcune misure potrebbero essere attuate subito, altre sarebbero l’inizio di un processo. Nessuno nella sinistra ebraica le propone. Nei primi 100 giorni del suo governo immaginario, la sinistra farebbe una rivoluzione. Soprattutto, non del tutto, nella sua relazione con l’occupazione, il tema che più di ogni altro definisce l’identità di Israele. La prima risoluzione approvata dal governo di sinistra porrebbe fine all’assedio della Striscia di Gaza. In un giorno, come per la caduta del muro di Berlino, la Striscia sarebbe liberata, i suoi 2 milioni di abitanti sarebbero persone libere. Il mare sarebbe aperto e la frontiera con Israele sarebbe aperta e controllata. Contemporaneamente, da Israele partirebbe una chiamata per invitare i leader di Hamas a una riunione. Potrebbero benissimo sorprenderci. Abbiamo molto di cui parlare con loro. Il passo successivo, anch’esso immediato, sarebbe un ampio rilascio dei palestinesi incarcerati in Israele. Tutte le migliaia di prigionieri politici e le centinaia di persone detenute senza processo, nella cosiddetta detenzione amministrativa, tutti i bambini e i malati palestinesi nelle prigioni israeliane sarebbero liberati immediatamente. A guidarli ci sarebbe Marwan Barghouti, l’unica persona che ha la capacità di riunire i palestinesi. Barghouti deve essere rilasciato immediatamente, proprio come F.W. de Klerk ha rilasciato Nelson Mandela molto presto dopo essere diventato presidente. Anche il resto deve accadere alla velocità sbalorditiva con cui le cose sono accadute in Sudafrica. Un Barghouti liberato sarebbe eletto presidente palestinese, e Israele lo troverà un partner straordinario. La revoca dell’assedio di Gaza e la liberazione dei prigionieri ispireranno speranza. Gli israeliani saranno sorpresi di quanto sia facile, senza esporsi ad un costo.

Nei suoi primi 100 giorni, un governo di sinistra annuncerebbe un congelamento di tutte le costruzioni negli insediamenti – nemmeno un singolo balcone in un appartamento a Ma’aleh Adumim – fino a che non si raggiunga un accordo con i palestinesi. Finché ciò non accadrà, Kiryat Arba riceverà gli stessi stanziamenti di bilancio di Kiryat Shmona, nel nord di Israele, ed entrambi insieme riceveranno lo stesso importo della città araba di Taibeh. Gli insediamenti che non sono stati approvati dai governi precedenti saranno evacuati durante la notte.

Poi, il bilancio della difesa. Sarà tagliato come mai prima d’ora. È impossibile stabilire uno stato sociale senza tagli significativi al bilancio della difesa, che è pieno di imbottiture extra. Alcune delle minacce che Israele deve affrontare sono scomparse, alcune delle paure sono ingiustificate. Il bilancio della difesa dovrà ridursi di conseguenza. Le Forze di Difesa Israeliane, la maggior parte dei cui avversari sono squattrinati, non hanno bisogno di avere ogni sistema di armi sviluppato da qualche parte nel mondo.

La pandemia di coronavirus ci ha insegnato che un budget generoso per la salute è importante per la nostra sicurezza non meno di quanto lo siano i sottomarini. L’educazione, le infrastrutture e il welfare hanno bisogno di budget, che invece vanno a progetti di difesa inutili. Un paese in cui i disabili devono mantenersi con un sussidio mensile di 3.200 shekel (965 dollari) è un paese senza pietà. Bombardieri e sottomarini e bombardieri saranno gradualmente sostituiti da accordi, che hanno già dimostrato di essere la migliore garanzia per la sicurezza di questo stato. Questi accordi sono più raggiungibili di quello che ci hanno fatto credere. Dopodiché, ai 31.000 richiedenti asilo rimasti nel paese sarà concessa la cittadinanza, e Stato e religione saranno separati: trasporto pubblico nello Shabbat e matrimonio civile in un colpo solo, et voilà, un Israele diverso: Un paese più aperto e liberale, meno violento e crudele, molto più morale e ricettivo nei confronti della comunità internazionale. Il risarcimento da parte del mondo, compreso il mondo arabo, sarà generoso. Basta ricordare quello che è successo dopo la firma degli accordi di Oslo. Ora Israele sarà libero di considerare il suo futuro. Scoprirà che la soluzione dei due stati, che ha strombazzato per 30 anni, non è più praticabile, e si renderà conto che deve offrire una soluzione diversa.

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Per la prima volta nella sua storia, Israele comincerà a parlare di uguaglianza. Sarà un processo lungo, doloroso per alcuni ebrei e alcuni palestinesi, ma è inevitabile. Nella nuova atmosfera, bisognerà discutere l’abolizione della legge dello stato-nazione e della legge del ritorno e l’approvazione di una nuova legislazione egualitaria, che porti alle prime elezioni democratiche che si terranno tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

Tutto ciò può sembrare utopico o distopico, ma è probabile che sia più fattibile di quanto sembri. Per farlo accadere abbiamo bisogno di una sinistra coraggiosa che inizi la traversata”.

 Ciò che resta: parlano i leader 

E’ stato il partito per cui hanno votato i più grandi scrittori israeliani, Amos Oz, Abraham Yehoshua, David Grossman, o grandi intellettuali come è stato Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano recentemente scomparso. Il partito dei grandi raduni pacifisti, dei diritti civili, di una concezione pienamente laica della società e dello Stato d’Israele. Questo è stato il Meretz. Un piccolo, grande partito che ora rischia di uscire dalla Knesset. Per eleggere una pattuglia di parlamentari, 4, si deve superare la soglia di sbarramento, nel collegio unico nazionale, fissata dalla legge elettorale al 3,25%. Il Meretz è border line.

Secondo il sondaggio diffuso nei giorni scorsi da Channel 12, se le elezioni, le quarte in due anni, si tenessero oggi il Likud di Netanyahu conquisterebbe 30 seggi, confermandosi il primo partito, seguito a distanza dalla formazione centrista Yesh Atid di Yair Lapid che si fermerebbe a 17In calo i due partiti alternativi al Likud a destra: la nuova creatura di Gideon Sa’ar “Nuova Speranza”, che prenderebbe 14 seggi, e Yamina di Naftali Bennett (13). La Lista Unita araba, oggi a 15 seggi, scenderebbe a 10, mentre i partiti ultra-ortodossi Shas e United Torah Judaism ne conquisterebbero 8 e il partito Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman 7. I laburisti guidati da Merav Michaeli sono in salita (5), il Meretz viene dato come detto a 4, ma con una fatidica oscillazione al ribasso, mentre crolla Blu e Bianco di Gantz a 4 dagli attuali 14. Fuori dai giochi ormai le formazioni fondate da due “pesi massimi mancati” come l’ex sindaco di Tel Aviv Ron Huldai e l’ex capo di Stato maggiore Moshe Ya’alon, che di fronte alla prospettiva di un magro risultato hanno annunciato il ritiro dalla corsa.

Del Meretz, Nitzan Horowitz è il leader. Colui che è chiamato a una missione “storica”: non far scomparire il partito dalla geografia parlamentare israeliana. 

Chi scrive ha chiesto ad Horowitz perché l’opposizione di sinistra non ha tratto giovamento in termini di consenso dal movimento che per mesi ha “assediato” la residenza ufficiale del primo ministro a Balfour Street, nel cuore della Gerusalemme ebraica, per protestare contro la sciagurata gestione dell’emergenza pandemica. l’opposizione di sinistra non sembra averne tratto giovamento in termini di consensi. Perché a suo avviso?

Questa è la sua risposta: “Il discorso è davvero complesso, ma in uno sforzo di sintesi direi così: siamo stati subalterni a quello che è stato più che uno slogan: ‘Tutti, tranne Bibi’. Ora, lungi da me sottovalutare il ruolo assolutista che Benjamin Netanyahu ha da oltre un decennio nella vita politica israeliana. È stata sua la scelta di portare il Paese per la quarta volta in due anni al voto, nonostante l’emergenza sanitaria e una devastante crisi sociale. E questo per non aver ottenuto una legge che gli avesse garantito l’impunità, e non ‘solo’ l’immunità, di fronte alla Legge per i gravi reati di corruzione, frode e abuso d’ufficio per i quali è a processo. Detto questo, ritengo che sia stato un grave errore subire quel ‘tutti, tranne Bibi’ Perché in quel ‘tutti’ ci sono personaggi come Gideon Sa’ar o Naftali Bennett, che incarnano una destra oltranzista, radicalizzata ideologicamente, iper-liberista in economia, oltre che succube del movimento dei coloni. Siamo caduti nella trappola della personalizzazione dello scontro, come se tutto dipendesse dall’uscita di scena, che io spero per il bene del Paese arrivi al più presto, di Netanyahu. Evidentemente non abbiamo imparato la lezione della storia: se la sinistra si riduce a una sorta di fotocopia della destra, magari dalle tonalità meno aspre e più aggraziate, allora la gente preferisce votare per l’originale. Se accetti di giocare sul terreno imposto dall’avversario, finisci inevitabilmente per perdere. Se poi aggiungi la mancanza di una leadership carismatica, la frittata è fatta”.

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Non molto distante è la riflessione della neo leader del Labour: “Non vi è dubbio che in questi anni, e ancor più con la crisi pandemica, quella che è emersa in tutta la sua drammatica incidenza nella vita di milioni di israeliani, è una irrisolta ‘questione sociale’ – annota Michaeli –  La crisi pandemica ha messo in ginocchio centinaia di aziende, portato decine di migliaia di famiglie sotto la soglia di povertà. E’ il grande tema delle disuguaglianze sociali, all’ordine del giorno a livello globale, e non solo in Israele. A questo malessere siamo chiamati a dare risposte concrete, praticabili. Oggi, non in un futuro che tanti israeliani è fatto solo di ombre e di una incertezza sempre più opprimente, insopportabile. La risposta che la destra israeliana ha dato non si discosta da quella di quell’universo sovranista di cui Trump, non a caso un modello per Netanyahu, è stato il faro, per fortuna spento il 3 novembre. Molti si dimenticano che in Israele si è votato l’anno scorso anche per rinnovare le amministrazioni locali delle più importanti città. Ebbene, in diverse di esse, come Tel Aviv e Haifa, solo per citarne alcune, a vincere sono stati candidati progressisti, uomini e donne che quel malessere sociale lo hanno affrontato e, per quanto possibile, portato a soluzione. Hanno frequentato le periferie, hanno ricostruito un rapporto con le fasce più deboli della società, quelle che un tempo erano un pezzo forte dell’elettorato laburista. Questo rapporto è andato sempre più scemando, divenendo quasi inesistente. Ma io non mi rassegno a questo. Quello che mi impensierisce di più non è l’essere visti come quelli del ‘campo per la pace’ e basta, ma di essere percepiti come quelli delle “èlite benestanti”, dei salotti buoni di Tel Aviv. Da qui bisogna ripartire, da un recupero di credibilità tra i ceti socialmente più indifesi, promuovendo anche una nuova classe dirigente. Sì lo so, ogni segretario appena eletto ripete questo mantra. Stavolta, però, non sarà così. E non perché io sia più coerente e tosta di quelli che mi hanno preceduto, ma perché o si rinnova o si muore. Lo dico con uno slogan che deve tradursi in politica: ‘Tra l’Israele delle start up, che costruisce il futuro, e l’Israele degli ultraortodossi, proiettai nel passato, la nostra scelta è chiara e netta. Quella di Netanyahu, no’”. So bene che lo spostamento a destra del paese non è qualcosa che nasce con quest’ultimo governo, ma che viene da lontano, e da cambiamenti strutturali, in primo luogo demografici e sociali, che la sinistra, e in primis il mio partito, non sono stati all’altezza di cogliere, come invece ha dimostrato di saper fare la destra. Non siamo stati all’altezza delle sfide del cambiamento. Di questo ebbi modo di discutere in uno dei nostri ultimi incontri, prima della sua scomparsa, con Shimon Peres. “’e non sai leggere i cambiamenti intervenuti, sei destinato alla marginalità o a vivere in un passato che non c’è più’, mi disse Shimon. Ed è una lezione che non dimenticherò mai”.

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Lo sconforto di Abraham

“Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine ‘sinistra’, in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è invece alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine «sinistra», in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Per evitare la prospettiva di un processo Netanyahu, da leader politico, si è trasformato in quello di una setta che, mediante minacce e lusinghe, argina l’opposizione dei suoi membri mentre il sistema politico si piega davanti a lui per garantirgli un’eventuale immunità annullando elezioni appena tenute, disperdendo il parlamento e indicendo nuove consultazioni elettorali entro tre mesi.
Nemmeno i più anziani ed esperti fra noi erano pronti a questo scenario di corruzione e di aperto attacco politico dei partiti di governo allo stato di diritto per far sì che il primo ministro non finisca in prigione. E tutto questo con il sostegno di una folla acclamante. Di fronte a tale realtà proviamo un senso di disgusto e di prostrazione. Non è più questione di posizioni politiche diverse e nemmeno di tendenziose panzane raccontate dal primo ministro e dai suoi assistenti che si succedono a ritmo incessante. Questa è una chiara e spudorata violazione dei valori di solidarietà che erano alla base della promessa sionista di riunire ebrei di diversa provenienza e livello in uno stato democratico.

Negli anni ’70 del secolo scorso due ministri del governo laburista furono sospettati di avere preso tangenti e ancora prima di essere processati si suicidarono per la vergogna. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1977 diede le dimissioni perché accusato di aver mantenuto un piccolo conto corrente all’estero, cosa allora vietata ai cittadini israeliani. Il presidente Moshe Katsav fu condannato a sette anni di carcere da un giudice distrettuale arabo per aver sessualmente molestato la sua segretaria. Il primo ministro Ehud Olmert finì in carcere per aver ricevuto finanziamenti illeciti per la sua campagna elettorale. Fino a ieri potevamo consolarci con il fatto che nella palude politica israeliana ci fossero ancora principi di giustizia e di uguaglianza. Ma ecco che ora il primo ministro calpesta spudoratamente la legge per salvare la propria pelle e conduce il paese a una nuova, aspra e costosa campagna elettorale a poche settimane di distanza dalla precedente. C’è quindi da meravigliarsi che persone come me, indipendentemente dalla loro posizione politica, provino un senso di avvilimento e di paralisi?”.

Queste considerazioni fanno parte di un lungo articolo di Abraham Bet Yehoshua, il grande scrittore israeliano, pubblicato da La Stampa l’8 agosto 2019. Un anno e mezzo dopo, le cose sono ulteriormente peggiorate. E l’avvilimento di Yehoshua si è trasformato nel Grande sconforto condiviso da quella parte d’Israele che sogna una sinistra che non c’è. 

 

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