Libia, migranti, Mediterraneo: quei silenzi che preoccupano. Perché, presidente Draghi?
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Libia, migranti, Mediterraneo: quei silenzi che preoccupano. Perché, presidente Draghi?

Nei giorni scorsi, Globalist ha posto una serie di domande al neo presidente del Consiglio. Domande sollecitate da quel mondo solidale che opera in difesa dei diritti umani. Ma...

Lager in Libia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Febbraio 2021 - 15.51


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Un discorso di alto profilo. Memorabile. Una lezione di politica. E il senatore di Rignano, quello dall’inglese maccheronico, aedo del “Rinascimento” saudita,  che ripete estasiato: per sentire un discorso così, è valsa la pena aprire la crisi. Per non parlare della stampa mainstream, salita a spintoni sul carro del vincitore. Bravo, bene, bis. Sull’autorevolezza di Mario Draghi non c’è nulla da dire, nel senso che è già stato detto tutto. E di più. Il problema non è Draghi è il “draghismo”, la nuova religione che imperversa sulle prime pagine dei giornali, nei salotti mediatici, nelle aule parlamentari. 

Senza risposta

Certo, il professor Draghi fa una figura da gigante davanti ai “nani” di Palazzo Madama. Ma ha partita facile. Chi scrive non ha la vocazione del tuttologo, che tanto attizza nell’autoreferenziale circuito mediatico-politico, ed è per questo che le annotazioni che seguono sono circoscritte al campo nel quale sono uso “arare” in oltre trent’anni di mestiere: la politica estera. Il Medio Oriente, in particolare. Nei giorni scorsi, Globalist ha posto una serie di domande al neo presidente del Consiglio. Domande sollecitate da quel mondo solidale che opera in difesa dei diritti umani e che dà voce e speranza ai milioni di disperati in fuga da guerre, pulizie etniche, sfruttamento inumano, povertà assoluta, tragedie umanitarie e disastri ambientali. 

Avevamo chiesto, con rispetto e fiducia attesa, al professor Draghi qualche parola sul che fare nel Mediterraneo, in Libia, con la vicina Tunisia. Avevamo chiesto lumi sul rifinanziamento dell’associazione a delinquere dedita ai respingimenti denominata “Guardia costiera libica”. Abbiamo ascoltato con la massima attenzione il discorso del presidente Draghi al Senato.

Molto stimolante, senza dubbio, solo che su questioni che forse non rientrano tra le priorità del suo Governo, come la politica italiana nel Mediterraneo, bel suo discorso neanche un cenno. Nulla. Il vuoto. Per dirla con Sergio Scandura, l’inviato di Radio Radicale, uno che il Mediterraneo e le sue tragedie quotidiane le racconta  da una vita: Zero sulla Tunisia, nostri vicini di casa. Zero su cosa farne dei disperati che rimangono (e muoiono) inchiodati in mare, senza soccorsi a sud delle nostre coste. 

Libia, questa “sconosciuta”.

Ha ragione Scandura ad affermare che la Libia resterà comunque la rogna delle rogne per l’Italia. E non solo per il problema-migranti. Ma perché in Libia e più in generale nell’intera sponda Sud del Mediterraneo si sta giocando una partita che investe la geopolitica, l’economia, la bolletta energetica. Una partita che l’Italia rischia di non giocare. Soprattutto in Libia.

Presi in mezzo

 Da mesi, Globalist ha documentato la guerra per procura in atto nella Libia del post-Gheddafi, indicando i maggiori player esterni. Due su tutti: Russia e Turchia. 

Di grande interesse in proposito è il ricco report di Lorenzo Marinone su RID (Rivista italiana difesa): “I militari di Ankara – scrive Marinone –  insieme a circa 5-6.000 mercenari siriani, sono concentrati in alcune località dell’Ovest. La presenza russa invece è affidata soprattutto a mercenari della Wagner, che sarebbero circa 2.000-3.000 dispiegati soprattutto nella Libia centrale e, in numeri minori, anche in alcune località chiave in Cirenaica. Il dispositivo turco fa perno sul triangolo Tripoli – Khoms – al-Watiya. La base aerea di al-Watiya, strappata a maggio 2020 all’Lna (l’autoproclamato Esercito nazionale libico, ndr)  di Haftar, è rapidamente diventato lo snodo principale. Benché la Turchia abbia usato in modo continuativo il porto di Misurata come punto d’ingresso in Libia, è nella città costiera 100 km a est di Tripoli che da aprile 2020 sono iniziati dei lavori di ripristino e ammodernamento delle strutture portuali. Qui peraltro stazionerebbero unità navali turche, tra cui almeno una fregata Classe G. Infine, la Turchia mantiene una presenza all’aeroporto di Mitiga nella capitale. Qui è basato il Defense Security Cooperation and Training Aid Consultation Command, centro di coordinamento delle attività di addestramento svolte dalle Forze Armate turche a favore delle forze del Governo di Unità Nazionale. A quello tripolino si affiancano altri 4 centri simili, rivelando l’importanza che Ankara attribuisce a queste attività per cementare i rapporti con i Libici e per dare risalto al lato “legittimo” del supporto militare fornito. Secondo il Ministero della Difesa turco, a fine novembre 2020 il training era stato ultimato per 2.300 militari libici. Gran parte dell’addestramento si svolge in Libia. A Tajoura, sud-est della capitale, Ankara ha creato un poligono di tiro compreso nel centro d’addestramento Omar al-Mukhtar (dedicato all’eroe della resistenza libica contro l’Italia coloniale, scelta piuttosto indicativa della volontà turca di sostituirsi all’Italia come referente per lo meno in Tripolitania). Alla base navale di Khoms si svolgono le attività di addestramento subacqueo. A Mitiga ha sede il team Eod per lo sminamento addestrato dai Turchi. Elementi della Guardia Costiera vengono addestrati anche al pattugliamento marittimo. Altre attività di training includono operazioni di controllo della folla e su terreno urbano (Mout). In basi in territorio turco (tra cui Konya) si svolge invece l’addestramento all’uso di sistemi di difesa aerea e anti-drone. Per quanto riguarda la Russia, fin dal ritiro dai sobborghi di Tripoli avvenuto lo scorso giugno, i mercenari della Wagner si sono dedicati a consolidare le posizioni nella Libia centrale creando un dispositivo di postazioni fortificate, opere difensive e basi lungo la direttrice nord sud che da Sirte porta fino a Jufra. Il sistema difensivo russo è costruito attorno a una lunga trincea che corre parallela all’asse viario Sirte-Jufra coprendone il lato ovest. I lavori proseguono da mesi e, a fine gennaio, constavano di almeno 70 km di trincea e oltre 30 postazioni variamente fortificate. In gran parte concentrate alla periferia sud di Sirte, nei pressi della base aerea di Ghardabiya interamente occupata da elementi della Wagner, queste postazioni sono dislocate a intervalli regolari lungo l’intera trincea. Più di recente si sono moltiplicate le opere attorno allo snodo viario strategico di Jufra, dove si incontrano le 2 direttrici principali provenienti dalla Tripolitania, la più importante via per la Cirenaica non lungo la costa e l’unica direttrice veloce per il capoluogo del Fezzan, Sebha. I mercenari hanno accelerato i lavori di espansione e fortificazione presso le basi aeree di Jufra e Brak al-Shati. Queste ultime potrebbero sostituire Ghardabiya come hub principale, se la presenza a Sirte dovesse diventare difficilmente sostenibile o troppo costosa politicamente, soprattutto in caso a Sirte venissero ricollocate alcune istituzioni libiche come proposto da più parti. Jufra e Brak si aggiungono così alla base aerea di al-Khadim, dove la presenza russa è accertata da tempo a fianco di quella emiratina. La scelta di potenziare Jufra e Brak ha una valenza strategica di prim’ordine. La posizione centrale rispetto al territorio libico consente di mantenere una certa pressione sull’Ovest, garantire il controllo del bacino petrolifero della Sirte da cui proviene l’80% degli idrocarburi del Paese, e presidiare i principali snodi viari tra le 3 regioni storiche della Libia. Tutto ciò restando senza una forte presenza sulla fascia costiera, che potrebbe innescare una reazione da parte degli Stati Uniti e della Nato di fronte a una minaccia concreta al fianco sud dell’Alleanza, ma garantendosi comunque una libertà di manovra più che sufficiente nel Paese e un grado notevole di influenza sulla politica libica. In questo senso, il radicamento attuale della Wagner può essere propedeutico al ritorno in forze di aziende russe in Libia, alle quali spetterebbe il compito di entrare legalmente nello sviluppo delle infrastrutture strategiche, sia viarie che marittime (terminal petroliferi, porto di Tobruk). D’altro canto, elementi della Wagner continuano a mantenere una presenza discreta nei principali porti di esportazione degli idrocarburi, Sidra e Ras Lanuf. Non va infine sottovalutato il radicamento della Wagner nella regione meridionale libica, tra il campo petrolifero di Sharara, Ghat e al-Wigh (ma la presenza dei mercenari russi è segnalata anche nel quadrante sud-orientale del Paese, ricco di oro e terre rare), che rafforza la proiezione russa da nord verso l’Africa saheliana e centrale, dove la Wagner è già attiva in Paesi come la Repubblica Centrafricana”.

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Una disamina particolareggiata, quella di Marinone,  dalla quale discende la conclusione che Mosca e Ankara hanno messo le tende in Libia e da lì non schioderanno per lungo tempo. 

Dieci anni dopo

Dieci anni e un giorno  fa, il 17 febbraio 2011, i cittadini libici si aggregavano all’ondata di proteste di tutto il Nord Africa e cominciavano a manifestare il proprio malcontento verso il regime di Muammar Gheddafi. Dopo manifestazioni, migliaia di morti e una guerra civile il 20 ottobre 2011 Gheddafi veniva scoperto a Sirte, sua città natale, e ucciso da un gruppo di ribelli.
Il 23 ottobre la guerra civile veniva dichiarata finita, ma solo ora in realtà comincia a intravedersi una luce che dovrebbe portare alle elezioni in programma a dicembre. “In questi 10 anni gli stessi attori internazionali che avevano sostenuto il cambiamento armando le fazioni dei ribelli sono stati colpevolmente a guardare” dice ad InfoAfrica/Agi Michela Mercuri, analista e docente universitario, mentre le tensioni locali si acuivano e il Paese si frammentava in tanti centri di potere su base localistica.
“Tutto questo ha creato un terreno fertile per i gruppi estremisti e per le organizzazioni criminali che lucrano sul traffico dei migranti e vivono di economia illegale” continua Mercuri. Oggi la Libia non è più uno Stato ma due, uno con sede a Tripoli e l’altro a Tobruk, non ha istituzioni unitarie, non è in grado di fornire servizi efficienti e non ha ancora trovato un equilibrio politico. Inoltre resistono zone del paese completamente sotto il controllo di milizie, gruppi estremisti, signori della guerra e trafficanti.
Il 5 febbraio scorso i nuovi rappresentanti del Consiglio di transizione libico sono stati eletti a Ginevra, alla sede delle Nazioni Unite, e dovranno ora traghettare la Libia verso le elezioni, in programma il 24 dicembre 2021. Abdul Hamid Dbeibah e soprattutto Mohammed Menfi, considerati due outsider fino a poco fa, dovranno gestire il Paese attraverso un anno molto delicato e ricco di sfide.
Secondo Michela Mercuri “sono numerose le sfide che il nuovo Consiglio di transizione ha davanti: espellere le potenze straniere ancora presenti nel territorio libico, in particolare Turchia e Russia che sono presenti anche con delle basi, disarmare le milizie” e gestire le reazioni nei prossimi mesi di Khalifa Haftar. Ma non solo: “Far ripartire l’economia, che si basa soprattutto sulle rendite di petrolio”.

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La Libia ora ha un nuovo governo. Ma il rischio è che non cambi proprio nulla, annota su l’Espresso Francesca Mannocchi, che di Libia ne sa come pochi altri. 

In attesa di risposte

Al neo presidente del Consiglio il compito di fare chiarezza sulla politica estera dell’Italia nel Mediterraneo. I precedenti governi, con tonalità diverse, erano mossi da un’unica ossessione: far fronte all’”invasione” (inesistente) di migranti ed esternalizzare, non importa come, le frontiere a Sud. E allora, ecco spiegati i finanziamenti alla cosiddetta “Guardia costiera libica”, gli ammiccamenti all’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar,  quello che ha tenuto sotto sequestro per oltre 100 giorni 18 pescatori di Mazara del Vallo, il considerare due dei protagonisti esterni della guerra per procura in Libia, il presidente della Turchia Recep Tayyp Erdogan, e il suo omologo egiziano, Abdel Fattah al-Sisi,  soggetti fondamentali per la stabilizzazione del Paese nordafricano e del Mediterraneo. Una convinzione, quest’ultima. Più e più volte reiterata dal riconfermato titolare della Farnesina, Luigi Di Maio. 

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 In tutto questo, il rispetto dei diritti umani era un optional. Sarà così anche per Lei, presidente Draghi? L’”alto profilo” si manifesti anche nella difesa dei più indifesi. In salutare discontinuità col passato. 

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