Turchia, il “68” della generazione Boğaziçi contro il Sultano di Ankara: "giù le mani dalle università"
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Turchia, il “68” della generazione Boğaziçi contro il Sultano di Ankara: "giù le mani dalle università"

In Turchia non si ferma l'escalation di violenze che dal primo gennaio 2021 vedono opposte le forze dell'ordine e migliaia di studenti e docenti universitari.

Proteste all'Università Boğaziç di Istanbul
Proteste all'Università Boğaziç di Istanbul
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Febbraio 2021 - 15.36


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In Turchia non si ferma l’escalation di violenze che dal primo gennaio 2021 vedono opposte le forze dell’ordine e migliaia di studenti e docenti universitari. Le prime proteste erano scoppiate in seguito alla nomina di un Rettore fiduciario vicino al partito del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan presso l’Università del Bosforo di Istanbul Melih Bulu, ma la vicenda sta diventando più seria di ora in ora, fino a trascendere la questione universitaria. Se il casus belli è stato il rifiuto di alunni e docenti di accettare Rettori universitari scelti dal governo e non eletti democraticamente, ora il conflitto interno potrebbe andare molto più lontano, sino forse a replicare i drammatici eventi di Gezi Park del 2013, quando persero la vita 11 persone e a migliaia rimasero ferite. 

Si riuniscono da settimane nel campus universitario, rivolgendo teatralmente le spalle all’ufficio del nuovo rettore. E’ così che studenti e docenti dell’Università Boğaziçi di Istanbul protestano contro la nomina di Melih Bulu, voluta per decreto dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ad inizio 2021.

La decisione viene rigettata da chi protesta come il tentativo da parte di Erdoğan di mettere sotto il proprio controllo anche il mondo dell’università, dopo aver stretto sempre di più le maglie del proprio regime autoritario a partire dal fallito golpe anti-governativo del 2016.

Tanto più che l’Università Boğaziçi, fondata nel 1863 come Robert College, prima istituzione universitaria americana all’estero, e oggi una delle più prestigiose nel paese, è nota per il suo orientamento liberale e pro-occidentale.

“Giù le mani dalle università”

Le proteste contro l’imposizione di Bulu, uomo d’affari legato al Partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdoğan – al potere in Turchia dal 2002 – si sono allargate presto ad altre città, come la capitale Ankara, Izmir e Bursa, dove in molti hanno mostrato la propria insoddisfazione battendo pentole e tegami alle finestre, come era già successo nel 2013 durante le lunghe proteste a difesa del Gezi Park a Istanbul.

Nelle scorse settimane erano stati arrestati 4 studenti LGBT dell’Università del Bosforo dove era stata esposta un’opera d’arte che inneggiava alla libertà di espressione e ritraeva una donna, un serpente e la Mecca. Il Rettore fiduciario e gli esponenti musulmani vicini al partito di Erdogan si sono scagliati contro la rappresentazione “blasfema”, accusando i giovani di offesa alla morale religiosa. Le proteste degli studenti di tutta Istanbul si sono intensificate in seguito all’arresto dei 4 ragazzi LGBT, che dall’aula del tribunale hanno lanciato l’hashtag #ORASTAAVOI, esortando i compagni turchi a proseguire le proteste contro la repressione della libertà di espressione dentro e fuori le Università turche. La vicenda avrebbe potuto terminare così. Invece la rabbia tanto degli studenti quanto dei docenti è montata, comportando nuove proteste e nuovi arresti fino alla giornata cruciale di lunedì 1 febbraio 2021. Durante un sit-in presso l’Università di Istanbul, è avvenuta una prima retata della polizia in assetto antisommossa. Alla fine della giornata, si erano registrati 159 arresti, per la maggior parte di studenti universitari. “Le forze dell’ordine sono intervenute come se avessero dovuto sedare un attacco terroristico, ma gli studenti e i docenti erano tutti disarmati e stavano esercitando i loro diritti costituzionali”, racconta a fanpage.it Umut, un ragazzo di 22 anni arrestato proprio in quell’occasione e rilasciato dopo 12 ore. “La polizia ha adoperato contro di noi una violenza spietata e ingiustificata”, continua. A confermare le parole di Umut c’è anche la testimonianza di un altro ragazzo poco più che ventenne, Havin, studente LGBT presso l’Università di Istanbul. Havin è stato arrestato durante la prima ondata di violenze della polizia, il 6 gennaio scorso, insieme a uno dei suoi coinquilini, un ragazzo transgender. Rilasciato dopo 2 giorni e 3 notti in cella in cui ha osservato lo sciopero della fame e della sete, Havin racconta di gravi episodi di violenze e molestie sessuali da parte delle forze dell’ordine:”Sono arrivati a casa mia alle 6 di mattina, erano armati e ci hanno minacciato. Poi ci hanno picchiati e sbattuti violentemente contro il muro. Visto che sapevano che sono un ragazzo omosessuale, mi hanno deriso e mi hanno chiamato fr***o. Poi ci hanno ammanettati e hanno continuato a picchiarci anche per le scale, mentre portavano me e il mio coinquilino in questura. Ho temuto che ci uccidessero”. Testimonia ancora Havin, che ora si trova a casa sua ma teme per la sua incolumità.

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Behrem Evlice, uno studente di scienze politiche al quarto anno, ha detto al Guardian: “Siamo così arrabbiati in questo momento, e non sono solo gli studenti di Boğaziçi, ma gli studenti e i giovani di tutta la Turchia. [Lo Stato] ci ha attaccati con la polizia e la violenza. Cercano di diffamarci etichettandoci come terroristi, quando tutto ciò che vogliamo è avere voce in capitolo su come viene gestita la nostra università. Fondamentalmente, c’è una crisi economica in Turchia e sanno che perderanno voti… Stanno solo cercando di dividere le persone”.

Avevamo qualche speranza di poter cambiare le cose democraticamente, spiegando quello che vogliamo, ma oggi tutti gli elicotteri volano sopra di noi, ci sono poliziotti ovunque. Non accadrà”, ha detto sempre al Guardian Ömer, appena laureato in economia aziendale.

Determinazione e fantasia: il Bosforo in lotta

“Nel proclama che gli universitari hanno indirizzato ai media turchi, ricevendo scarso seguito vista la ‘normalizzazione’ attuata da anni sulla stampa dal governo dell’Akp, ricorre il concetto di trasparenza: – rimarca Enrico Campofreda su agoravox.it  Gli incarichi devono scaturire da una selezione fra più soggetti, non da investiture. E’ la stessa comunità accademica che può trovare la sua guida com’era costume fino al 2016Questa nomina ci riporta al 1980, un periodo di dittatura’ lamentano gli studenti. In effetti la vicenda rientra pienamente nella reazione e nel repulisti che il regime ha attuato nei confronti dell’ex alleato gülenista che per anni s’era occupato d’istruzione privata, col circuito di propri istituti, e d’infiltrazione accademica nelle università statali. I contrasti e la rottura fra Fethullah Gülen ed Erdoğan hanno portato, secondo la versione di quest’ultimo, al tentativo di golpe del luglio 2016. E trattandosi di ferreo controllo da quel momento l’apparato del partito di maggioranza (Akp) – associato agli inquietanti nazionalisti del Mhp, il partito dei ‘Lupi grigi’ – ha trasformato la stretta sulle libertà nel Paese in nodo scorsoio. I richiami studenteschi alla ‘straziante osservazione delle pratiche repressive negli atenei’ sembra l’ultimo epicedio dopo mesi e mesi di soffocamento che hanno afflitto un’infinità di settori. Lo statuto del Senato accademico del 2012, sventolato quale simbolo, ricordando come la libertà universitaria sia essenziale per il progresso sociale e scientifico  diventa carta straccia al cospetto del controllo che i nuovi nominati devono realizzare. Gli studenti denunciano: ‘le università non possono diventare strumenti della politica’.  Purtroppo sta succedendo, e la loro voce è un grido nel deserto”.

Ma la rivolta non si arresta. Racconta da Istanbul Mariano Giustino, tra i giornalisti italiani che meglio conoscono e raccontano la realtà turca““Lasciate stare i nostri figli! Lasciate stare i nostri figli!”, gridavano gli abitanti di Kadıköy alla polizia che costringeva minacciosamente i giovani manifestanti senza paura ad allontanarsi e a disperdersi a testa bassa. E puntualmente non è mancata l’ironia degli studenti che gridavano:“Aşağı Bak mayacağız”, ovvero: ‘Non staremo a testa bassa, perché guardare in basso potrebbe causare problemi alla colonna vertebrale, quindi per un vostro sano futuro non inchinatevi’. In 158 anni di storia dell’Università di Boğaziçi, 159 sono stati gli studenti arrestati, tutti in un solo giorno, tutti lunedì 1° febbraio, quando, dopo più di un mese di proteste, alle ore 21, la polizia in assetto antisommossa è entrata nel campus sud dell’Università e in una sola retata ha arrestato 159 studenti.

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Ma i giovani non si fermano: marciano, presidiano con straordinaria arguzia e coraggio, con spirito giocoso e nonviolento, ricevono botte, subiscono maltrattamenti, arresti, vengono inseguiti per tutte le vie lungo il Bosforo e a Kadıköy, ma raccolgono la solidarietà degli abitanti che danno vita alla ”tencere tava çalmak″ ovvero alla ″battitura di pentole e padelle″. Puntualmente, dall’inizio di gennaio,  tutti i giorni, alle ore 21 inizia uno spettacolo davvero incredibile nelle vie dei quartieri ribelli di Istanbul, al richiamo dello slogan ″9’da Cama″, ovvero: ″Alle 21 affacciati alla finestra″, per la battitura delle pentole, per accendere le luci con intermittenza e per gridare i loro slogan. Lo scrivono ovunque i giovani manifestanti e la scritta compare addirittura sul display scorrevole di una farmacia. La solidarietà agli studenti arriva da ogni parte. Un vero spettacolo! Dalle finestre e dai balconi gli abitanti sostengono in questo modo la comunità del Bosforo, racconta il corrispondente di Radio Radicale. 

«Percepiamo questa situazione come una violazione dell’autonomia di tutte le università», dice un appello  lanciato perfino da ex-studenti di Boğaziçi all’estero e ripreso dall’agenzia Pressenza, che si apre significativamente affermando: «Non accettiamo e non ci arrendiamo!». L’indignazione diffusa ha infatti travalicato in poco tempo le mura del campus universitario e ha avuto la capacità di rendere virale a livello nazionale, dopo poche ore, l’hashtag #kayyımrektöristemiyoruz (non vogliamo il rettore amministratore fiduciario).

L’appello degli studenti è stato sostenuto anche dai docenti dell’Università, che il tre gennaio hanno rilasciato una dichiarazione congiunta nella quale sottolineavano la gravità della nomina del nuovo rettore, non tanto per la sua affiliazione politica ma per il fatto che si trattasse della prima volta dopo la dittatura militare degli anni ’80 che la scelta del rettore ricadesse su una figura non facente parte della comunità accademica di Boğaziçi. Un parallelismo storico che denuncia indirettamente la questione della repressione e del controllo, che sotto il regime di Erdoğan hanno raggiunto livelli tali da richiamare alla mente lo spettro delle esperienze più autoritarie del passato turco.

“L’obiettivo del governo – dice a Dinamopress l’avvocato Engin Kara, che sta seguendo alcuni casi di studenti arrestati  – è quello di rappresentare questi studenti come dei terroristi, nonostante poi le indagini nei loro confronti non prevedono l’accusa di terrorismo. Nel corso delle perquisizioni le uniche cose che sono state trovate a casa degli studenti non sono nient’altro che telefoni, computer e libri. Siamo di fronte non ad una pratica legale ma ad una forma di repressione politica. Il regime di Erdoğan cerca di minacciare chiunque provi a fare opposizione, disconoscendo di fatto la legge e mostrando di poter fare ciò che più gli aggrada”.

Una storia che viene da lontano

Nel 2016, con lo stato di emergenza, un decreto presidenziale ha cancellato le elezioni universitarie in vigore dagli anni ’80. Da quel momento il presidente ha potuto dichiarare rettore uno qualsiasi dei candidati che avevano partecipato alle elezioni. Ciononostante, all’Università Boğaziçi è proseguita la tradizione – come da 158 anni – dell’elezione diretta e democratica dei propri rettori, interrotta soltanto durante il golpe militare del 1980. Per aggirare il decreto del 2016 a Boğaziçi dopo che era stato dichiarato il vincitore, tutti gli altri candidati si ritiravano, inviando così un solo nome al presidente per la nomina, quello del vincitore.

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L’Università Boğaziçi era da decenni nel mirino dei nazionalisti conservatori. Essere il più antico campus internazionale, fondato dal Senato degli Stati Uniti nel 1863, non aiuta. Dopo le proteste di Gezi Park del 2013, anche Erdoğan ha iniziato ad additare il campus come istigatore della protesta.

Già nel 2016, nonostante la vittoria del professore Gülay Barbarosoğlu con l’86% dei voti, era stato invece nominato rettore Mehmed Özkan, fratello di una deputata del partito Akp di Erdoğan, che ha servito fino a fine 2019. La reazione non fu abbastanza forte, e l’anno dopo prese il via il licenziamento sistematico degli accademici in tutta la Turchia. Una foto della polizia che faceva irruzione alla Facoltà di Legge dell’Università di Ankara, pulendosi gli stivali sui mantelli degli avvocati, aveva fatto il giro del paese. Quello fu un segnale forte di ciò che attendeva le università. Da allora il campus di Boğaziçi è entrato in una modalità di resistenza lenta; gli atenei hanno però iniziato a riempirsi di poliziotti sotto copertura che hanno iniziato a schedare studenti e accademici. Alcuni professori di Boğaziçi sono fuggiti dal paese, iniziando a formare all’estero reti di solidarietà per gli accademici in Turchia.

Guardarsi allo specchio

Il Dipartimento di Stato americano si è detto “preoccupato dagli arresti di studenti e altri manifestanti” e ha condannato fortemente la retorica anti-Lgbtqia che ha circondato le proteste. Questa linea dura rappresenta un cambio netto rispetto all’approccio più morbido sui diritti umani tenuto dal presidente Trump.

Il ministero degli Esteri turco ha risposto giovedì 4 febbraio invitando “quelli che osano dare una lezione di democrazia e legge” a guardarsi allo specchio, con un chiaro riferimento alle ultime elezioni e a quanto avvenuto al Campidoglio. “Nessuno deve osare interferire negli affari interni della Turchia”, ha dichiarato il ministero in un comunicato.

Tuttavia, gli studenti cominciano a riscuotere una certa approvazione nell’ambito politico turco, nonostante vengano ignorati da televisione e giornali favorevoli al regime. La principale figura dell’opposizione, Kemal Kılıçdaroğlu, ha chiesto pubblicamente per la prima volta al controverso nuovo rettore universitario di dimettersi.

“Le persone che esercitano il loro diritto costituzionale (di protesta) non possono essere definite ‘terroristi’”, ha detto Kılıçdaroğlu a Erdoğan in un confronto televisivo.

Tra gli appelli più significativi per volume di adesioni c’è quello firmato (finora) da oltre 1.600 accademici di tutto il mondo, da Berkeley a Yale, dalla Soas alla Sorbonne, a sostegno dell’indipendenza universitaria. Tra i primi firmatari Judith Butler, Seyla Benhabib e Noam Chomsky.

Intanto, il governatore di Istanbul, Ali Yerlikaya, ha vietato “tutti i tipi di incontri, manifestazioni e marce” nella parte europea della città, dove si trova l’università. Yerlikaya ha giustificato il divieto come misura per frenare la diffusione del nuovo coronavirus. Le autorità turche hanno recintato il campus universitario per impedire nuove manifestazioni. Secondo l’agenzia di stampa francese AFP, più di mille manifestanti si sono radunati lungo il fiume Bosforo, prima di attraversare la parte asiatica di Istanbul.

La lotta continua. 

La stretta nei confronti del mondo universitario era iniziata ancora prima del golpe. Gli atenei del Paese sono stati “purgati” e migliaia di accademici sono stati licenziati negli scorsi anni. Altri sono fuggiti all’estero. Gradualmente si è creato un clima di intimidazione che soffoca la ricerca e la libertà di espressione. «Quando vieni cacciato ti viene impedito di insegnare in qualsiasi struttura educativa. Non puoi neppure trovar lavoro in una scuola primaria – racconta 

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