Professor Draghi, ma per Lei la Libia è un porto sicuro?

Il ministro degli Esteri in carica, si spera ancora per poco, continua a ripetere la favoletta di una Italia perno di un processo di stabilizzazione che sarebbe in atto nel martoriato Paese nordafricano. Ma...

Abusi in Libia
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9 Febbraio 2021 - 16.45


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Pace? Ma dove. Stabilità? A parole. Diritti umani? Non pervenuti. 

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Viviamo in un tempo in cui la realtà e la percezione. Dove una comunicazione mainstream si fa veicolo, più o meno consapevole, delle veline dei palazzi della politica. Prendete la Libia.

Il ministro degli Esteri in carica, si spera ancora per poco, continua a ripetere la favoletta di una Italia perno di un processo di stabilizzazione che sarebbe in atto nel martoriato Paese nordafricano. Che l’Italia non tocchi da tempo più palla in Libia Globalist lo ha documentato con decine di articoli e interviste. Ma la panzana più grande, e. più grave, è spacciare la Libia per un Paese pacificato

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Realtà e narrazione

Per fortuna che come il famoso giudice di Berlino, possiamo dire che esistono ancora giornalisti a Roma. Giornalisti che ricercano, indagano, scavano, rivelano verità scomode. E di verità scomode, la Libia è un pozzo senza fondo.

Ed è grazie a giornalisti coraggiosi come Nello Scavo di Avvenire  che certe veline di Stato vengono smascherate. 

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Scrive Scavo: La Libia non è un Paese sicuro. E a causa del conflitto ‘la situazione è grave’. E’ questa la posizione delle autorità militari italiane che, a giudicare dalle comunicazioni via radio ottenute da Avvenire, vanno nella direzione opposta a chi anche in questi mesi ha sostenuto che, in presenza della cosiddetta guardia costiera libica, non vi sia ragione per sottrarre i migranti al rischio di venire deportati nei campi di prigionia libici. La prova è contenuta nei messaggi radio trasmessi domenica 7 febbraio da un velivolo militare del nostro Paese in pattugliamento nel Canale di Sicilia. L’equipaggio vede sul radar e poi sorvola un motopesca, presumibilmente della marineria siciliana, che si sta spingendo in acque internazionali che dal 2005 Tripoli rivendica come proprie.

L’intera registrazione, che ei passaggi salienti, conferma una delle più serie ambiguità nel Mediterraneo Centrale. Ad ogni salvataggio di migranti da parte delle navi umanitarie, le autorità marittime italiane chiedono agli equipaggi che hanno operato il soccorso di rivolgersi alla capitaneria di porto di Tripoli. Una prassi vietata dal diritto internazionale quando si ha a che fare con Paesi in guerra. Nel corso delle comunicazioni, ai pescherecci viene invece ordinato di rientrare verso Nord, perché la Libia è un Paese in conflitto, come del resto ribadiscono le Nazioni Unite che non a caso invitano gli Stati a non cooperare nel respingimento dei naufraghi verso le coste libiche, perché non ritenute ‘luogo sicuro di sbarco’. L’ultimo fine settimana è stato tra i più difficili. Più di 1.550 persone in mare, 800 deportate in Libia, 424 soccorse da Ocean Viking, di Sos Mediterranee, che dopo giorni ha ancora l’assegnazione del porto di Augusta dopo essere stata invitata anche da Roma a contattare le autorità libiche, nonostante le autorità militari ritengano che a Tripoli ‘la situazione è grave’. Sempre nel Canale di Sicilia Open Arms ha soccorso nei giorni scorsi 45 persone, poi trasferite da una motovedetta italiana a Lampedusa. Di almeno 130 persone non si hanno notizie da giorni e si teme siano definitivamente disperse.

Per scoraggiare la pesca in acque giudicate a rischio, specialmente dopo il lungo sequestro dei 18 pescatori della marineria di Mazara del Vallo, dal velivolo militare si mettono in contatto con il peschereccio chiedendo di passare al canale radio marino 72, abitualmente adoperato per comunicazioni tra navi e tra navi e aerei. L’operatore incaricato di contattare la plancia del motopesca è chiaro: ‘La situazione è grave’. E perché non ci siano dubbi, ripete: ‘La situazione di conflitto presente in Libia’.

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Prima però viene ricordato ‘che vi trovate all’interno della zona di pesca protetta’, un ampio specchio di mare che dal 2005, all’epoca del colonnello Gheddafi, Tripoli dichiarò unilateralmente come ‘zona di pesca esclusiva’, pur trattandosi di acque internazionali. ‘Si comunica inoltre che siete in una zona pericolosa’, spiegano dall’aereo, a causa di ‘assetti navali libici che potrebbero intervenire nell’ambito delle proprie attribuzioni’.

A questo punto la comunicazione non lascia ai pescatori molte possibilità. ‘La situazione è grave – scandisce la radio -. La situazione di conflitto presente in Libia’, in conseguenza della quale ‘è aumentata la pericolosità in queste acque’…”.

Lo scoop di Scavo è la realtà che sconfessa la narrazione.

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E in una situazione di guerra come è quella libica, l’Italia aiuta, finanzia, copre politicamente, la cosiddetta Guardia costiera libica nella vergognosa opera di respingimenti in mare. “Circa 300 migranti sono stati rimpatriati in Libia dalla guardia costiera”. Lo scrive su Twitter l’Organizzazione internazionale per le migrazioni in Libia, aggiungendo che “negli ultimi quattro giorni sono state intercettate circa 1.500 persone, la maggior parte delle quali detenute”. L’Oim chiede alle autorità di “smantellare il sistema di detenzione arbitraria e di fornire alternative sicure e praticabili”.

 Secondo Lucia Gennari di Mediterranea Saving Humans “l’Unione Europea ritiene che monitorando dai mezzi aerei i casi di emergenza in mare e le intercettazioni da parte della cosiddetta Guardia Costiera libica si possa evitare la responsabilità per le violazioni dei diritti che queste pratiche comportano. Questo rapporto afferma il contrario”. “La politica dei respingimenti di massa in zona di guerra libica è una vera e propria politica europea, di cui l’Ue e i suoi Stati membri sono direttamente responsabili”, aggiunge Kiri Santer di Alarm Phone.

“Le autorità dell’Ue hanno ulteriormente strumentalizzato la crisi Covid-19 per normalizzare le pratiche già esistenti a violare il principio di non respingimento in mare. In nessun caso la pandemia Covid-19 può giustificare il respingimento dei migranti in fuga verso la Libia”, dicono le Ong.

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Il Mediterraneo Centrale sancisce il naufragio del Diritto Internazionale. 

A darne conto è il Rapporto dell’Arci  “Finanziare il confine”.

“Dal Gennaio 2020 ad oggi quasi un migrante su due partito dalle coste libiche è stato vittima di una procedura direspingimento per procura” da parte delle “guardie costiere libiche”. 10.000 persone respinte verso Tripoli, abbandonate ad un destino di detenzione, violenze e sfruttamento, mentre sono più di 500 le vittime nel Mediterraneo nel 2020, senza contare i naufragi fantasma. La macchina dei respingimenti, che dal 2016 ad oggi ha permesso alla Libia di rinviare al porto di partenza più di 60.000 persone, è il frutto di un’operazione che vede come principale partner l’Italia, con il supporto politico ed economico delle istituzioni europee – principalmente attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa – e, più recentemente, Malta. Attraverso l’esternalizzazione del controllo delle frontiere la politica di criminalizzazione della solidarietà, la creazione di una zona SAR libica e l’inerzia delle navi di salvataggio nazionali, negli ultimi anni si è quindi lasciato il Mediterraneo alla ’Guardia Costiera libica’ per operare respingimenti, in una sistematica violazione del principio di non refoulement. Dopo l’arrivo in Italia di 11.620 tunisini nel 2020, la risposta italiana si è esplicitata su diversi fronti: la minaccia di tagliare i fondi allo sviluppo se la Tunisia non si fosse impegnata nel bloccare le partenze; l’incremento settimanale di espulsi fino a 500 persone al mese; l’attivazione con la Francia di un nuovo piano di collaborazione con la Tunisia dopo l’attentato di Nizza, che somiglia a un blocco navale e a un nuovo sistema di respingimenti per procura. Chi riesce a scampare da intercettazione e respingimento, in molti casi è destinato ad un altro limbo giuridico: le navi quarantena, nate con il pretesto di contenere l’epidemia da Covid19. Di fatto un sistema discriminante, perché creato ad hoc solo per gli stranieri, che comporta gravi violazioni dei diritti soprattutto nel caso della detenzione di minori e del trasferimento di migranti positivi al test Covid”.

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Da Arci a Oxfam. “Come riconosciuto dalle istituzioni internazionali ed europee, comprese le Nazioni Unite e la Commissione europeala Libia non può in alcun modo essere considerata un porto sicuro dove far sbarcare le persone soccorse in maresia perché è un Paese instabile, sia perché migranti e rifugiati sono sistematicamente esposti al rischio di sfruttamento, violenza e tortura e altre gravi e ben documentate violazioni dei diritti umani. Eppure continua ad aumentare il contributo italiano ed europeo alla Guardia Costiera libica, che negli ultimi 4 anni ha intercettato e riportato forzatamente nel Paese almeno 50 mila persone, 12 mila solo nel 2020.

Molti vengono detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione ufficiali, dove la popolazione oscilla tra le 2.000 e le 2.500 persone. Tuttavia, meno noti sono i numeri dei detenuti in altri luoghi di prigionia clandestini a cui le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie non hanno accesso e dove le condizioni di vita sono persino peggioriLa detenzione arbitraria è però solo una piccola parte del devastante ciclo di violenza, in cui sono intrappolati migliaia di migranti e rifugiati in Libia. Uccisioni, rapimenti, maltrattamenti a scopo di estorsione sono minacce quotidiane, che continuano a spingere le persone alle pericolose traversate in mare, in assenza di modi più sicuri per cercare protezione in Europa”.

E’ un passaggio del Rapporto reso pubblico nei giorni scorsi da ASGI, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Oxfam e Sea Watch.

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Promemoria per una ministra (confermata?)

Lo scorso 12 gennaio, L’ong Mediterranea, il collettivo Josi & Loni Project, Alarm Phone e decine di attivisti hanno scritto alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese per chiedere l’apertura di “un canale legale e sicuro tra la Libia e l’Italia”, di concedere “subito il nulla osta per attuare i 5 voli di evacuazione urgente” ma anche “di mettere in atto una svolta nella politica migratoria italiana e far sì che essa ispiri il resto d’Europa”.

“I soggetti organizzatori, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Comunità di Sant’Egidio, sono gli stessi che da anni evacuano con successo rifugiati siriani dal Libano ed hanno, quindi, tutte le carte in regola per gestire accoglienza e ricollocamento di persone nei vari Paesi europei senza gravare sullo Stato italia – scrivono i firmatari dell’appello nella lettera – Questi corridoi umanitari permettono a persone fuggite dai loro paesi e in condizione di vulnerabilità di accedere al loro diritto di chiedere asilo usufruendo di vie legali e sicure. Sappiamo che ogni progetto ha il suo iter, ma considerata l’emergenza umanitaria in Libia, le chiediamo di concedere subito il nulla osta per attuare i 5 voli di evacuazione urgente”

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Nelle ultime settimane diverse persone che avrebbero avuto diritto ad un posto su quei voli sono morte. Di malattia, fame e abbandono. Tra di loro c’erano anche un minorenne e una bimba di un anno e mezzo. “Le condizioni dei migranti in Libia peggiorano di giorno in giorno – continuano – Centinaia di donne e di uomini sopravvivono dietro le sbarre degli atroci campi o per strada, ad esempio nella pericolosa area di Tripoli. Molti hanno bambini piccoli. Tutti sono alla mercé di un Governo, quello libico, che li considera esseri inferiori da utilizzare come forza lavoro in un redivivo sistema economico basato sulla divisione in razze e sulla riduzione in schiavitù degli ultimi”.

L’articolo 6 della legge libica 19/2010 sull’immigrazione clandestina viene tuttora applicato dal Governo di Accordo Nazionale Libico (GNA). Una legge che per il reato di immigrazione clandestina, prevede la pena della detenzione con lavori forzati. “Alla schiavitù si aggiunge la fame – spiegano Mediterranea e Alarm Phone – E le conseguenti malattie. Anche chi è riuscito a scappare da prigioni, lavori forzati e torture sta morendo. Soprattutto i bambini. Soffrono di calo della vista, problemi cardiaci e di una serie di patologie provocate dallo stato di denutrizione in cui versano.In Libia i migranti non hanno accesso a cure mediche. Seguiamo donne incinte che non hanno mai visto un dottore e saranno costrette a partorire nascoste, perché un’altra legge libica prevede l’arresto immediato per le donne che hanno figli senza marito. L’estate scorsa hannoarrestato una ragazza che conosciamo: la sua unica colpa era stata recarsi in un ospedale di Tripoli per non morire di parto, è stata portata in prigione poche ore dopo la nascita del suo bambino. Se non interveniamo, queste persone moriranno in Libia, oppure tenteranno il mare, con i rischi che conosciamo bene”.

E ancora: “L’Europa, come esposto nella denuncia presentata da Juan Branco e Omer Shatz alla Corte penale dell’Aia per Crimini contro l’umanità a giugno del 2019, è coscientemente responsabile delle morti per annegamento, dei respingimenti sia in Libia che lungo le rotte balcaniche, dei conseguenti crimini contro le persone respinte. Vediamo la politica italiana esprimere accorate parole di cordoglio per casi particolarmente drammatici, come la morte del piccolo Joseph o l’abbandono dei rifugiati nel campo di Lipa, ma non possiamo fare a meno di notare la sua ignavia, quando si tratta di intervenire con i fatti. L’emergenza Covid-19 viene troppo spesso utilizzata come scusante per bloccare i corridoi umanitari. Eppure, la recentissima esperienza dal Libano ci ha dimostrato che non c’è cosa più sicura dei corridoi legali, che prevedono controlli medici accurati sui rifugiati in entrata nel nostro Paese. Tra qualche anno, ciò che oggi stiamo raccontando finirà sui libri di Storia. Ma non vi finirà solo ciò che abbiamo detto, vi finirà anche e soprattutto ciò che abbiamo fatto – o non fatto – per evitarlo”.

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Probabilmente la ministra Lamorgese sarà confermata da Mario Draghi al Viminale. Darà finalmente una risposta? O dovrà mediare con il “novello europeista” Matteo Salvini, convertitosi al “draghismo”?

E visto che ci siamo, vorremmo chiedere al premier in pectore, facendo nostre le domande che le ha posto, via Twitter, un altro dei pochi giornalisti che di Libia ne sanno molto, Sergio Scandura di Radio Radicale “Professor Draghi, i disperati in fuga dall’inferno libico li salviamo o li lasciamo annegare? Continueremo a finanziare le cosche libiche? Legge e convenzioni internazionali saranno ancora una conquista di civiltà da rispettare? Attendiamo fiduciosi le sue risposte.

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