Adesso Biden riapre i cordoni della borsa in favore della Palestina

La nuova amministrazione sta ribaltando le politiche unilaterali di Trump: "La sospensione degli aiuti al popolo palestinese non ha prodotto progressi politici ma solo danneggiato palestinesi innocenti"

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Febbraio 2021 - 16.54


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La prima conferenza stampa non si dimentica mai. Soprattutto se segna l’inizio di una svolta. In questo caso, nella politica mediorientale della nuova amministrazione Usa. 

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Cambio in corsa

Nel suo primo briefing ufficiale con la stampa, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha ribadito il precedente elogio del Segretario di Stato Antony Blinken dei patti di normalizzazione, aggiungendo che “gli Stati Uniti continueranno a sollecitare altri paesi a normalizzare le relazioni con Israele”.

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Tuttavia, ha detto Price, la normalizzazione “non è un sostituto della pace israelo-palestinese… Speriamo che Israele e altri paesi della regione si uniscano in uno sforzo comune per costruire ponti e… contribuire a progressi tangibili verso l’obiettivo di avanzare una pace negoziata tra israeliani e palestinesi”. Price ha anche confermato che gli Stati Uniti intendono ripristinare gli aiuti ai palestinesi “molto rapidamente”, dicendo che è “nell’interesse degli Stati Uniti farlo”.”

La sospensione degli aiuti al popolo palestinese non ha prodotto progressi politici né ha ottenuto concessioni dalla leadership palestinese. Naturalmente ha solo danneggiato palestinesi innocenti”, ha affermato, aggiungendo che gli Stati Uniti si sforzeranno di “sollecitare la comunità internazionale per adempiere suoi obblighi umanitari, anche nei confronti del popolo palestinese”.

Sull’Iran, Price ha detto che né il neo nominato inviato speciale per l’Iran Rob Malley né alcun funzionario del Dipartimento di Stato hanno ancora avuto contatti con l’Iran, ribadendo che la strategia dell’amministrazione Biden sul contenimento del programma nucleare iraniano sarà basata sulla stretta consultazione con gli alleati, i partner e i membri del Congresso degli Stati Uniti. 

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“Se l’Iran torna a rispettare pienamente i suoi obblighi ai sensi del Jcpoa, gli Stati Uniti farebbero lo stesso. Lo useremmo poi come piattaforma per costruire un accordo più lungo e più forte che affronti anche altre aree di preoccupazione. Naturalmente siamo molto lontani da questo”, ha detto Price. “L’Iran ha preso le distanze dalla conformità su una serie di fronti, e ci sono molti passi in quel processo prima di raggiungere il punto in cui ci impegneremo direttamente con gli iraniani e saremo disposti a prendere in considerazione qualsiasi tipo di proposta – soprattutto perché siamo stati molto chiari sulla proposta che abbiamo messo sul tavolo”. Price ha notato che Malley ha “toccato il fondo”, ed è nelle prime fasi delle telefonate con gli alleati statunitensi, i partner e i membri del Congresso. Ha sottolineato il senso di urgenza con cui gli Stati Uniti si stanno avvicinando alla sfida più ampia di assicurare che l’Iran non sia in grado di sviluppare un’arma nucleare, in particolare per quanto riguarda i rapporti sull’arricchimento dell’uranio pianificato dall’Iran.

Price ha poi elogiato le relazioni diplomatiche appena stabilite tra Israele e il Kosovo. “Gli Stati Uniti si congratulano con Israele e il Kosovo per aver formalmente stabilito relazioni diplomatiche”, definendolo “un giorno storico”. 

“Legami internazionali più profondi aiutano a promuovere la stabilità, la pace e la prosperità in entrambe le regioni. Quando i nostri partner sono uniti, gli Stati Uniti sono più forti. Gli Stati Uniti saranno al fianco del Kosovo, mentre continua ad andare avanti nel suo percorso euro-atlantico”, ha detto Price.

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Il nodo dei caccia 

Annota Zvi Bar’el, firma storica di Haaretz: “Il sovrano degli Emirati Arabi Uniti, il principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed bin Zayed, si rende anche conto che, al contrario del periodo di Trump in carica, nel chiamare la Casa Bianca, ora potrebbe trovarsi messo in attesa, e che l’affidamento su Israele per comunicare con Biden potrebbe anche rivelarsi una prospettiva instabile. Israele sembra ora trovarsi in una nuova, paradossale situazione in cui non solo gli verrà chiesto di approvare la vendita di armi a un paese arabo, ma gli verrà anche richiesto di spendere grandi sforzi per far passare l’accordo. E questo non è solo dovuto ai suoi aspetti di sicurezza. Ecco un’altra ragione. Sabato è stato annunciato un emendamento storico alla legge sulla cittadinanza degli EAU. D’ora in poi, gli investitori, le persone in professioni richieste, i medici, gli scienziati e persino gli artisti e gli intellettuali di tutto il mondo potranno acquisire la cittadinanza emiratina. La legge richiede che i candidati non solo abbiano la professione richiesta, ma anche una reputazione globale. Saranno inclusi artisti famosi che hanno dato prova di sé e scienziati che sono stati riconosciuti attraverso premi o che hanno al loro attivo anni di finanziamenti internazionali. Inoltre, i candidati potranno mantenere la loro cittadinanza originale, anche se dovranno dichiarare la loro fedeltà agli EAU. Tale cittadinanza, tra l’altro, potrà essere conferita non solo ai richiedenti stessi ma anche alle loro famiglie. La legge permette anche a chiunque sia definito come avente un “talento unico” di ricevere la cittadinanza, comprese le persone che hanno registrato almeno un brevetto per un’invenzione e gli artisti che hanno vinto prestigiosi premi internazionali.

 

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I talenti dei richiedenti saranno esaminati da un comitato speciale e, almeno al momento, non ci sono restrizioni sul paese di origine del richiedente. Per gli israeliani, questo potrebbe fornire un’opportunità non solo di lavorare negli Emirati Arabi, ma di avere una cittadinanza che teoricamente potrebbe permettere loro di visitare paesi off limits per gli israeliani.

Ma tutto questo a condizione che l’accordo di pace degli Emirati Arabi Uniti con Israele rimanga in vigore e che non sia sconvolto da qualche piccolo accordo sui jet F-35”.

Israele, ultimo treno per la sinistra

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Tutto questo avviene mentre Israele si accinge, in piena crisi pandemica, alla quarta campagna elettorale in due anni, in vista delle elezioni del 23 marzo. Elezioni cruciali per la sopravvivenza della sinistra ebraica israeliana

 A lei spetta un’impresa storica: non far scomparire dalla Knesset, il Parlamento israeliano, il partito che “fondò” lo Stato d’Israele: il Partito laburista. Il partito che fu, solo per citare alcuni dei suoi leader storici, di David Ben Gurion, Golda Meir, Abba Eban, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Shimon Peres. Il partito-Stato che governò ininterrottamente, e da solo, Israele dalla sua fondazione, il 1948, al 1977, quando per la prima volta a vincere le elezioni fu il Likud di Menachem Begin.

I laburisti hanno visto precipitare le loro fortune elettorali negli ultimi anni, colpiti da uno spostamento a destra tra gli elettori israeliani, da turbolenze nel partito e dall’emergere di nuovi attori politici che hanno eroso la sua base. Da quando è entrato nel governo dopo le precedenti elezioni, il partito ha perso praticamente tutto il suo sostegno e nessun recente sondaggio d’opinione ha previsto che entri nella prossima Knesset. Ed è in questo cupo scenario che il glorioso ma devastato Labour ha deciso di affidare la sua sopravvivenza politico-parlamentare ad una donna coraggiosa, che chi scrive ha avuto modo di conoscere personalmente: Merav Michaeli. Giornalista, femminista, 54 anni, è l’unica parlamentare rimasta ai laburisti: Michaeli ha stravinto le primarie del partito.

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In neanche due mesi, dovrà dare uno scossone fortissimo ad un partito annichilito dagli ultimi disastri, motivare gli iscritti a impegnarsi in una campagna elettorale anomala, perché avviene nel pieno di una crisi pandemica tutt’altro che risolta.

«All’ultimo momento, abbiamo salvato questo movimento dall’essere cancellato. Capisco l’enormità dell’ora. Il partito laburista è ancora bloccato nel fango e io ho la missione di salvarlo e ricostruirlo», ha detto Michaeli subito dopo l’ufficializzazione dei risultati. Michaeli ha anche detto che permetterà a chiunque di presentare la propria candidatura per la lista elettorale del partito, ma non ha fatto menzione di una possibile corsa congiunta con altre fazioni di sinistra, scommettendo sul sulla ripresa della sua. «Il Partito Laburista è ancora bloccato nel fango e la mia missione è salvarlo e ricostruirlo», ha affermato dopo aver ottenuto il 77% dei voti, battendo Avi Shaked (19%).

Un sasso nello stagno

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«Merav è una leader importante. Inizieremo immediatamente una discussione sulla costruzione di una grande casa per tutto il centro-sinistra. Ci uniremo per sconfiggere Netanyahu e portare il cambiamento nello Stato di Israele», ha scritto su Twitter il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai che ha recentemente lanciato il partito The Israelis. «Ora è il momento di agire e di unirsi rapidamente senza esitazione», gli ha fatto eco il leader del partito Tnufa, Ofer Shelah. Anche il leader dell’opposizione Yair Lapid, che guida il centrista Yesh Atid, si è congratulato con Michaeli, così come Nitzan Horowitz, capo del partito di sinistra Meretz.

Michaeli incassa gli apprezzamenti, registra le aperture, ma sa che stavolta il Labour si gioca le ultime fiches rimastegli al tavolo ingombro della politica israeliana. I rilevamenti di opinione successivi alla sua vittoria nelle primarie aprono un piccolo spiraglio alla speranza. Per la prima volta, infatti, alcuni sondaggi danno il Partito laburista poco sopra la soglia di sbarramento per restare alla Knesset.

«È durissima, ma dobbiamo fare di tutto e di più per provarci – dice la neo leader del Labour –. Dobbiamo rimotivare i nostri iscritti, convincere i tantissimi che ci hanno lasciato che è ora di tornare a casa. E che il nuovo Labour può essere, grazie all’impegno di tutti, una casa accogliente per chi coltiva ancora quei valori di solidarietà, di giustizia sociale, di una pace nella sicurezza, di una democrazia inclusiva che rafforza l’identità ebraica. Valori e principi che sono stati l’essenza del pionierismo sionista e che oggi vanno rilanciati adattandoli all’oggi».

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Michaeli non chiude definitivamente le porte ad un’alleanza con il Meretz e The Israelis, ma annota: «Dobbiamo far tesoro delle dure lezioni che abbiamo ricevuto dagli elettori. Coalizioni raffazzonate all’ultimo momento sottraggono e non incrementano i consensi. Oggi è davvero in gioco uno dei fondamenti di una democrazia compiuta: l’alternanza al governo di forze diverse, che danno vita ad alleanze che non sono anti ma per qualcosa. Non basta essere contro Netanyahu per essere convincenti agli occhi degli israeliani».

E per essere convincenti, e alternativi alle destre, una delle prime decisioni di Michaeli è stata quella di chiedere al suo predecessore alla guida del partito Amir Peretz e a Itzik Shmuli di lasciare il governo di unità guidato da Netanyahu. «Se vogliono continuare come ministri, non faranno parte del partito», avverte Michaeli, accusandoli di «ingannare i nostri elettori aderendo ad un governo corrotto». La risposta è l’uscita dei due dal partito. 

Una delle sue grandi bandiere è non far parte di alcun governo Netanyahu. «È inaccettabile che collaboriamo con un imputato per corruzione e uno dei responsabili di incitamento all’odio a sinistra e alla divisione nel Paese», dice.

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«A tutti quelli che vi hanno ingannato e hanno preso il vostro voto, vi dico che è ora di tornare a casa», chiede Michaeli che ammette: «È un momento molto emozionante per me perché sono stato scelta a capo del partito guidato dai fondatori di Israele e perché siamo riusciti all’ultimo minuto a salvare questo movimento dall’essere cancellato dalla mappa politica».

Buona fortuna, Merav.

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