La storia di Toby Levy: "L'Olocausto mi ha rubato la giovinezza, il covid i miei ultimi anni"

"Non c’è paragone tra l’ansia della pandemia e il terrore provato da piccola, ma mi abbatte il pensiero di perdere un altro anno della mia vita, quando di anni me ne restano pochi"

Toby Levy
Toby Levy
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4 Gennaio 2021 - 17.02


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Toby Levy quando era piccola ha conosciuto in prima persona l’orrore dell’Olocausto. Con la sua famiglia è stata costretta a nascondersi per anni, per sfuggire alla persecuzione nazista. Ora di anni ne ha 87 e la pandemia l’ha costretta nuovamente all’isolamento, per proteggersi dal contagio. La sopravvissuta ha raccontato al New York Times cosa significhi per lei sopravvivere anche a una pandemia.
“Mi tengo impegnata e questo mi aiuta”, scrive sulle pagine del quotidiano, “Sto provando a non arrendermi. Ma mi abbatte il pensiero di perdere un anno. Mi infastidisce terribilmente. Sto facendo di tutto per mantenermi attiva. Anche col covid, racconto la mia storia tramite conferenze su Zoom”.

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Toby è nata nel 1933 in una piccola città chiamata ai tempi Chodorow. Viveva in centro, nella casa del nonno. I russi occuparono la città dal 1939 al 1941, poi i tedeschi dal 1941 al 1944: “Mio padre era benvoluto in città, da ebrei e non ebrei”. Un giorno, all’inizio del 1942, qualcuno avvisò il nonno: presto molti ebrei sarebbero stati uccisi, bisognava trovare un nascondiglio. Il padre costruì un posto sicuro in cantina, ma il nonno non voleva saperne di chiudersi lì. Lo colpirono mentre si trovava in cucina, i suoi familiari nascosti sentirono tutto, senza poter fare niente.

“Non molto tempo dopo, i tedeschi dissero che avrebbero trasferito gli ebrei rimasti nel ghetto di Lvov, quindi mio padre e mia zia cercarono qualcuno che li nascondesse in modo più permanente” ricorda Toby. Trovarono Stephanie, che aveva una casa sulla strada principale con un giardino e un fienile. Conosceva i suoi genitori da tutta la vita. Anche questa volta è toccato al padre ricavare un nascondiglio.

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Ha costruito un muro all’interno della stalla, lì hanno dormito in nove, “stretti come sardine”: i genitori, i due zii, la nonna materna e i quattro figli di 4, 6, 8 e 12 anni: “Abbiamo avuto i pidocchi. C’erano ratti. Ma ogni giorno nella stalla era un miracolo. Non sono una persona normale. Sono una miracolata. La maggior parte degli ebrei di Chodorow non tornarono mai più. Quindi, quando è arrivato il coronavirus, ho pensato: ‘Sono un miracolo. Ce la farò. Devo farlo’”.

Durante la guerra non aveva alcun diritto: “Non potevo parlare ad alta voce, non potevo ridere, non potevo piangere. Ora posso sentire la libertà. Resto alla finestra. La prima cosa che faccio al mattino è guardare fuori e vedere il mondo. Sono viva. Ho da mangiare, esco, vado a passeggio, faccio la spesa. Nessuno vuole uccidermi”. Eppure sente di perdersi qualcosa: “Ho perso la mia infanzia, non ho mai avuto la mia adolescenza. E ora, nella mia vecchiaia, questo accorcia la mia vita di un anno. Non me ne restano così tanti”.

Toby Levy durante l’isolamento è diventata bisnonna: “Questo bambino non mi conoscerà mai. È una perdita. Non c’è paragone tra l’ansia del coronavirus, al terrore che provavo da bambino. Quella era una paura senza confini. Questo finirà e sto già pensando a cosa fare”

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