Perché nel Libano in piena crisi economica cresce l'odio verso i rifugiati siriani
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Perché nel Libano in piena crisi economica cresce l'odio verso i rifugiati siriani

Il campo informale di Bhannine, nel nord del Libano, dove 370 profughi siriani vivono da anni in tende, è stato dato alle fiamme da un gruppo di giovani del posto.

Il campo informale di Bhannine, nel nord del Libano dato alle fiamme
Il campo informale di Bhannine, nel nord del Libano dato alle fiamme
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

28 Dicembre 2020 - 11.59


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Sabato sera solo pochi in Libano hanno saputo di quanto accaduto nel cuore della notte, innescato, sembra, da un precedente diverbio tra un lavoratore siriano e un suo datore di lavoro libanese che non lo aveva pagato.
Il campo informale di Bhannine, nel nord del Libano, dove 370 profughi siriani vivono da anni in tende, è stato dato alle fiamme da un gruppo di giovani del posto. Non si è salvato nulla e l’esplosine di tutte le bombole del gas ha fatto temere il peggio. Dopo ore di ricerche i profughi hanno concluso che avevano perso tutto, nulla si era salvato dalle fiamme. L’episodio viene presentato come isolato, ma i volontari di Operazione Colomba, presenti in Libano da anni nel lavoro di assistenza ai profughi siriani per conto della Comunità Giovanni XXIII, già il 4 dicembre scorso avevano espresso “forte preoccupazione per i gravi episodi di razzismo avvenuti in Libano nei giorni scorsi ai danni dei profughi siriani”. Dunque più che un “episodio isolato” si può parlare di un “nuovo livello” di violenza razzista raggiunto in Libano contro i profughi siriani. Un fuoco fuoco pericolosissimo e che bisogna capire.

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Dunque per prima cosa i numeri: in Libano vivono circa 3,5 milioni di libanesi e dopo il 2011 sono arrivati 1,5 milioni di profughi siriani, espulsi o deportati dal loro Paese dal regime siriano che per riprendere il controllo del territorio ha ritenuto di liberarsi  della popolazione ritenuta etnicamente o religiosamente non fedele, per un totale di circa 6 milioni di persone su 20 milioni di siriani, ai quali 6 milioni vanno poi aggiunti i defunti, gli internati e i rifugiati interni, impossibilitati a fuggire all’estero: il totale fa certamente più di 10 milioni. 

Da parte sua il Libano, direttamente coinvolto nel conflitto siriano dall’intervento militare di Hezbollah al fianco del regime siriano, è sprofondato nel default economico, che ha ridotto sul lastrico la popolazione: un dollaro fino a un anno fa valeva 1500 lire libanesi, oggi ne vale 8mila, i conti correnti in valuta pregiata sono bloccati e pochi ricordano che quando si dichiarò il default i miliziani di Hezbollah esultarono, sostenendo che si era sfidato l’ordine americano. 

Oggi il costo di quella sfida si riversa sui libanesi, non sull’intero ceto politico libanese ritenuto da buna parte della popolazione (e non solo) il vero responsabile di un’autentica distruzione economica e strutturale del Paese. La riprova più elementare si ha nel fatto che ancora oggi nulla si sa sulla reale dinamica che ha portato ad agosto alla distruzione del porto e di molti quartieri di Beirut. Allora andò in crisi il governo, ma da allora il nuovo ancora non si è formato per le dispute sulla spartizione dei principali portafogli di spesa. Così è difficile non dare ragione al famoso opinionista libanese Michel Haj Georgiou, per il quale quanto accaduto sabato sera ha una causa evidente: “quando una vittima non può reagire contro il suo carnefice si scaglia sempre contro uno più debole di lui”.           

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Così ora è evidente che il rischio sia la trasformazione di quanto accaduto sabato in un nuovo rituale di vendetta pronto a esplodere in tutto il Paese nonostante i numerosi esempi di immediata solidarietà con le vittime. E’ noto infatti che alcuni leader politici, come l’ex ministro degli esteri e cognato del capo dello Stato libanese, hanno indicato da tempo nei profughi siriani la causa dei problemi libanesi, invocandone l’espulsione verso il loro paese d’origine, dove alcuni di loro sono stati forzatamente ricondotti per poi sparire nel nulla. Ma i profughi, pur non felici delle loro condizioni di vita in Libano, sanno benissimo che non possono tornare in patria, pena essere internati nei suoi lager dal regime che li ha espulsi. Spingere sul conflitto “etnico”, libanesi contro siriani, rimuove le cause del disastro siriano, dell’intervento militare di Hezbollah in Siria, del fallimento economico del ricco Libano,  crea un “noi” contro “loro” e rischia di creare un precedente esportabile all’estero, dove i profughi siriani sono tantissimi, a cominciare dalla Turchia. Anche lì una leadership in crisi di consensi per il disastro economico in cui ha gettato il Paese spinge con forza sul tasto identitario, nazionalista, e il malcontento per la presenza dei profughi siriani potrebbe condurre presto a derive simili. Quello di Bhannine, purtroppo, è solo un campanello d’allarme sulle conseguenze epocali del disastro rimosso: il disastro siriano e la compiacenza di molti verso il suo regime. 

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