Regeni, omicidio di Stato. Cos'altro deve accadere per ritirare il nostro ambasciatore?
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Regeni, omicidio di Stato. Cos'altro deve accadere per ritirare il nostro ambasciatore?

I diritti umani non sono negoziabili con petrolio, armi e soldi. Vorremo la stessa fermezza e abnegazione da parte di chi ci governa, affinché dimostrino che la giustizia non è barattabile.

Paola e Claudio Regeni
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10 Dicembre 2020 - 17.41


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Peggio che nell’Argentina dei generali fascisti. Un “garage Olimpo” sotto le Piramidi. Una cella, la “numero 13” in cui Giulio Regeni, cittadino italiano, è stato seviziato, torturato, brutalizzato per giorni prima di morire.  Giulio Regeni, un assassinio di Stato. Torture e sevizie con oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni che gli causarono “acute sofferenze fisiche” portandolo lentamente alla morte. Sono i pm di Roma a ricostruire nell’atto di chiusura delle indagini gli ultimi, drammatici giorni di vita di Giulio Regeni, catturato e torturato a morte dalla National Security egiziana dal 25 gennaio al 3 febbraio 2016, quando il suo corpo senza vita venne ritrovato lungo l’autostrada del deserto che collega Il Cairo ad Alessandria.

La procura di Roma ha chiuso l’inchiesta sull’uccisione del ricercatore friulano, emettendo quattro avvisi di chiusura delle indagini, un atto che solitamente prelude la richiesta di rinvio a giudizio, per altrettanti appartenenti ai servizi segreti del Cairo, mentre per il quinto indagato è stata chiesta l’archiviazione. Le accuse, a seconda delle posizioni, sono di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. “Per l’omicidio di Giulio Regeni si svolgerà un solo processo e si svolgerà in Italia con le garanzie procedurali dei nostri codici”, ha assicurato il procuratore capo di Roma, Michele Prestipino, in audizione insieme al sostituto procuratore Sergio Colaiocco davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni.

Assassinio di Stato

Nella ricostruzione dei magistrati si parla di violenze perpetrate per “motivi abietti e futili e con crudeltà” che hanno provocato “la perdita permanente di più organi”. Giulio, scrivono, è stato seviziato “con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni attraverso strumenti affilati e taglienti e di azioni con meccanismo urente”. Un trattamento che ha causato “numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico-dorsale e degli arti inferiori”.

Adesso, a rischiare di finire a processo sono il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e appunto Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Chiesta invece l’archiviazione per Mahmoud Najem. “Per quest’ultimo – spiega una nota della Procura di Roma – non sono stati raccolti elementi sufficienti, allo stato, a sostenere l’accusa in giudizio”. Ma dalla descrizione delle atrocità subite da Regeni emerge anche il nome di colui che, sostengono i pm, è stato il carceriere, l’aguzzino e il boia del giovane ricercatore: si tratta del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. A inchiodarlo sono le parole di alcuni testimoni sentiti nei mesi scorsi dai pm di piazzale Clodio che hanno definito la morte di Giulio un “atto volontario e autonomo” da parte dell’indagato con l’aiuto di altre persone rimaste ignote: “Al fine di occultare la commissione dei delitti suindicati – scrivono i magistrati -, abusando dei suoi poteri di pubblico ufficiale egiziano, con sevizie e crudeltà, mediante una violenta azione contusiva, esercitata sui vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava imponenti lesioni di natura traumatica a Regeni da cui conseguiva una insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava a morte”.

Testimoni oculari

La ricostruzione dei magistrati è stata possibile grazie alle testimonianze di cinque testimoni oculari. Uno di loro ha dichiarato ai pm di aver “visto Giulio ammanettato a terra con segni di tortura sul torace”. “Ho lavorato per 15 anni nella sede della National Security dove Giulio è stato ucciso – ha raccontato – È una villa che risale ai tempi di Nasser, poi sfruttata dagli organi investigativi. Al primo piano della struttura c’è la stanza 13 dove vengono portati gli stranieri sospettati di avere tramato contro la Sicurezza Nazionale. Il 28 o 29 gennaio ho visto Regeni in quella stanza con ufficiali e agenti. C’erano catene di ferro con cui legavano le persone, lui era mezzo nudo e aveva sul torace segni di tortura e parlava in italiano. Delirava, era molto magro. Era sdraiato a terra con il viso riverso, ammanettato. Dietro la schiena aveva dei segni, anche se sono passati anni ricordo quella scena. L’ho riconosciuto alcuni giorni dopo dalle  foto sui giornali e ho capito che era lui”.

La testimonianza del teste Delta

In base all’atto di conclusione delle indagini, Regeni venne condotto “contro la sua volontà e al di fuori di ogni attività istituzionale, prima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Lazougly” dove venne “privato della libertà personale per nove giorni”.
Riferisce il teste Delta: 
“Il 25 gennaio, mentre ero nella stazione di polizia di Dokki, potevano essere le 20 o al massimo le 21, è arrivata una persona… Avrà avuto tra i 27 e i 28 anni, aveva una barba corta, indossava un pullover, verosimilmente tra blu e grigio, se non ricordo male con una camicia sotto… Si esprimeva in italiano e ha chiesto un avvocato… Sono sicuro che si trattasse di Giulio Regeni. Nelle foto che ho visto su internet aveva la barba più lunga. 
Mentre ero alla stazione di Dokki ho visto arrivare il ragazzo che solo successivamente ho riconosciuto come Giulio Regeni che, mentre percorreva il corridoio, chiedeva di poter parlare con un avvocato o con il Consolato. In quel frangente ho visto bene il ragazzo italiano, che arrivava con quattro persone in abiti civili. Contestualmente ho visto uno di questi quattro soggetti con un telefono in mano”. 
Più avanti Delta precisa che Regeni “è stato fatto salire su un’auto modello Shine, è stato bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly. Uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sherif… un altro si chiamava Mohamed, ma non so se è il vero nome”.  Inoltre, mentre Regeni “chiedeva un avvocato, un altro arrestato, che provava ad aiutarlo, riceveva una gomitata al volto da un poliziotto che disse che il ragazzo italiano parlava anche arabo”. 

La notifica della conclusione “delle indagini è avvenuta tramite il rito degli irreperibili” direttamente ai difensori di ufficio italiani non essendo pervenuta l’elezione di domicilio degli indagati dal Cairo. “Come previsto dal codice di procedura penale gli indagati e i loro difensori d’ufficio hanno ora venti giorni di tempo per presentare memorie, documenti ed eventualmente chiedere di essere ascoltati”, conclude la nota della Procura. “Abbiamo acquisito elementi di prova univoci e significativi (sui quattro agenti egiziani, ndr). Questo è un risultato estremamente importante e non scontato”, ha detto Prestipino. “Abbiamo fatto di tutto per accertare ogni responsabilità, lo dovevamo a Giulio e all’essere magistrati di questa Repubblica”. E ha inviato un messaggio alla famiglia di Regeni: “Ringrazio la famiglia di Giulio per la tenacia con la quale ha saputo perseguire le proprie ragioni”. Colaiocco ha però aggiunto che questo primo importante risultato è stato comunque viziato dalla mancata collaborazione da parte della controparte egiziana: “Sono altri 13 i soggetti nel circuito degli indagati” di cui la mancata collaborazione dell’autorità egiziana ha impedito di accertare le posizioni, ha spiegato alla commissione.

Ritirare l’ambasciatore

Alle 14.30, l’avvocato della famiglia di RegeniAlessandra Ballerini, e i genitori, Paola Deffendi e Claudio Regeni, hanno parlato in conferenza stampa alla Camera affermando che “i diritti umani non sono negoziabili con petrolio, armi e soldi. E questo ce lo dimostra la famiglia Regeni – ha detto Ballerini – Vorremo la stessa fermezza e abnegazione da parte di chi ci governa, affinché dimostrino che la giustizia non è barattabile. Questo è un punto di partenza, ci sono voluti cinque anni”.

Anche la madre Paola ha preso la parola ed è tornata a chiedere all’esecutivo il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo, data la mancanza di collaborazione delle autorità egiziane sul caso del ricercatore di Fiumicello: “Sono passati due anni dalle dichiarazioni del governo in cui si chiedevano impegni, conseguenze e responsabilità e non abbiamo capito ancora a quali il governo si riferisse. Chiediamo di richiamare immediatamente l’ambasciatore per consultazioni in Italia. Da quando è stato reinviato l’ambasciatore non sono stati fatti passi in avanti, anzi c’è stata recrudescenza. Bisogna dichiarare l’Egitto ‘Paese non sicuro’ e bloccare la vendita di armi“. Il padre ha aggiunto che “uno degli scopi del ritiro era la ricerca di verità e giustizia per nostro figlio Giulio. Purtroppo questo punto è stato messo in secondo piano dando priorità alla normalizzazione dei rapporti tra Italia ed Egitto e a sviluppare i reciproci interessi in campo economico, finanziario e militare, vedi la recente vendita delle fregate, e nel turismo, evitando di affrontare qualsiasi scontro. L’atteggiamento dell’ambasciatore Cantini è una chiara dimostrazione di tutto ciò”.

Paola Deffendi si dice soddisfatta per questo primo importante risultato ottenuto nella ricerca di verità e giustizia per il figlio: “Nessuno avrebbe pensato di arrivare dove siamo oggi. Oggi è una tappa importante per la democrazia italiana e per l’Egitto. Niente ci ferma. La nostra lotta di famiglia è diventata una lotta di civiltà per i diritti umani, è come se agisse Giulio. Giulio è diventato uno specchio che riverbera in tutto il mondo come vengono violati i diritti umani in Egitto ogni giorno. Chiediamo rispetto per Giulio e la sua figura. No libri, film o canzoni che pretendano di raccontarlo. Solo noi possiamo farlo, nessuno pensi di cannibalizzare la sua figura”.

La famiglia ha poi chiesto che venga fatta chiarezza anche sulle responsabilità italiane: “Chiediamo alla Commissione d’inchiesta di fare chiarezza sulle responsabilità italiane, quelle che mio marito ha definito le zone grigie – ha continuato Paola Deffendi – Cosa è successo nei Palazzi italiani da quel 25 gennaio al 3 febbraio? Come mai Giulio, un cittadino italiano, non è stato salvato in un Paese che era amico e che continua ad essere amico? Chiedete (ha detto rivolgendosi alla stampa, ndr) premier Conte e al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, cosa stanno facendo per Giulio e come va con questi rapporti con l’Egitto che sono diventati sempre più amichevoli”. Mentre invece i rapporti tra famiglia e governo italiano si sono di fatto azzerati: “Quando abbiamo avuto l’ultimo contatto con il governo? Non me lo ricordo neanche, è passato tanto tempo”, ha detto Ballerini. “E’ stato nell’ottobre 2019 quando abbiamo incontrato il ministro Di Maio”, ha precisato poi Claudio Regeni.

Ed ora signor presidente del Consiglio? Ed ora signor ministro degli Esteri? Ora che dei magistrati coraggiosi hanno ricostruito il brutale assassinio di un cittadino italiano. Ora che, come più volte scritto da Globalist, il rapimento, le sevizie, l’uccisione di Giulio Regeni sono acllarate responsabilità del regime sanguinario che ha a suo capo il presidente-carceriere Abdel Fattah al-Sisi. Ora cosa farete? Continuerete a vendere fregate e altri armamenti agli aguzzini del Cairo? Continuerete a sostenere, come ha fatto anche il senatore Renzi, che con l’Egitto dei desaparecidos bisogna sviluppare i rapporti di cooperazione, perché per stabilizzare il Nord Africa e il Medio Oriente c’è bisogno di al-Sisi? Ora che, si spera, abbiate letto le angoscianti testimonianze raccolte dalla Procura di Roma, quali passi avete intenzione di intraprendere  verso l’Egitto? Presidente Conte, un’altra telefonata al presidente egiziano suonerebbe oggi come una intollerabile presa in giro. Richiamare l’ambasciatore Contini è il minimo. E quel minimo va fatto subito. Ogni ora che passa senza deciderlo, è un segno di concorso morale, e di complicità politica, con gli assassini di Giulio Regeni. Conte, Di Maio, battete un colpo se avete ancora un briciolo di dignità. E lo stesso facciano i ministri di quei partiti che si dicono progressisti e di sinistra. Non bastano i twitter. Occorre una decisione forte: rottura di ogni rapporto diplomatico, politico, commerciale con l’Egitto fino a quando non verranno consegnati alla giustizia italiana, o in subordine processati al Cairo, i quattro rinviati a giudizio. Se non lo farete, Zingaretti, Speranza, di rosso vi rimarrà solo la vergogna.

 

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