Rischia di slittare il Next Generation Eu: l'unica soluzione è un accordo a 25 stati
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Rischia di slittare il Next Generation Eu: l'unica soluzione è un accordo a 25 stati

I contrasti maggiori sono tra Bruxelles e Polonia-Ungheria: l'Italia affida a questa misura gran parte del suo rilancio economico

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9 Dicembre 2020 - 10.07


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In vista del Consiglio europeo del 10-11 dicembre, in Italia si è discusso solo delle intenzioni di voto di qualche deputato del M5S nel dibattito parlamentare sul Mes, mentre nel resto d’Europa al centro della discussione c’era l’esito del duro confronto in atto tra Polonia e Ungheria e gli altri 25 Stati membri.

Se non si troverà una via d’uscita, lo scontro rischia di impedire l’approvazione del Quadro Finanziario Pluriennale (Qfp) e ritardare la partenza del programma Next Generation Eu (Ngeu), a cui l’Italia stessa lega gran parte delle sue chance di rilancio dell’economia per il post-Covid.

Per meglio comprendere la posta in gioco e le posizioni delle parti, occorre però fare qualche passo indietro.

Da qualche anno c’è una crescente tensione tra Bruxelles, da un lato, e Varsavia e Budapest, dall’altro, per il rispetto delle regole di base dello Stato di diritto (indipendenza della magistratura, libertà di espressione, diritti delle minoranze, etc.).

Il Trattato Ue (Tue) prevede la possibilità di sanzionare la violazione grave e persistente da parte di un paese membro dei principi sui quali poggia l’Unione, addirittura sospendendogli i diritti di voto in seno al Consiglio, ma è richiesta l’unanimità. Così, finora, non si è mai riusciti ad arrivare fino in fondo alla procedura. Per questo, da tempo si discute di condizionare l’esborso di fondi strutturali e di investimento europei, di cui gli Stati in questione sono grandi beneficiari, al rispetto delle predette regole dello stato di diritto.

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Nel 2018, Polonia e Ungheria sono stati i due principali fruitori del bilancio europeo, con un beneficio netto pari a 5,0 e 11,6 miliardi di euro. La loro posizione netta è destinata a crescere ulteriormente col varo delle misure per far fronte alla crisi pandemica, che tra l’altro spingeranno paesi tradizionalmente contributori netti (come l’Italia) dal lato opposto. Si capisce, quindi, quanto il piatto sia ricco, e anche quanto sia unica l’occasione di cui gli altri Stati membri possono approfittare per fare pressioni sui due paesi più problematici. Tuttavia, nel negoziato finale nel Consiglio europeo del 17-21 luglio, per superare la ferma contrarietà di Polonia e Ungheria, si è raggiunta una ambigua soluzione di compromesso, limitandosi a richiamare l’art 2 del Tue, che enuncia i valori fondamentali, e a una generica formulazione che sottolinea l’importanza del rispetto dello stato di diritto, rinviando a una successiva regolamentazione l’introduzione del regime di condizionalità.

Mettendo la polvere sotto il tappeto, però, prima o poi inevitabilmente ci si inciampa. E così è avvenuto anche in quest’occasione. La Germania, che ha la presidenza di turno del Consiglio, ha cercato di trovare una soluzione accettabile per tutti sulla base di una bozza del del 2018, ma il Parlamento europeo e alcuni Stati membri si sono dichiarati ostili a qualsiasi forma di concessione “politica” in una materia come questa che per l’Unione è veramente identitaria.

Così, il 5 novembre si è raggiunto un accordo provvisorio tra i rappresentanti delle due istituzioni chiamate a deliberare (Consiglio e Parlamento Europeo) per introdurre un nuovo regime di condizionalità, legato al rispetto dello Stato di diritto, in relazione al nuovo Qfp e al Ngeu. E tale accordo ha avuto anche l’imprimatur del Coreper il 16 novembre. Il che ha fatto immediatamente scattare le reazioni di Polonia e Ungheria che in quell’occasione hanno fatto mancare l’accordo per l’approvazione della decisione sulle risorse proprie, necessaria tanto per il  Qfp che per il Ngeu.

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Ma cosa prevede esattamente la bozza di regolamento da suscitare una così dura risposta? A ben vedere, nulla di straordinario: la bozza si limita, infatti, a consentire l’adozione di talune misure sanzionatorie nei confronti degli Stati solo qualora la violazione dei principi dello Stato di diritto rischi seriamente di influenzare la sana gestione finanziaria del bilancio dell’Ue o la tutela degli interessi finanziari dell’Unione in modo sufficientemente diretto. In concreto, non basta dimostrare che l’indipendenza della magistratura sia a rischio, che le autorità pubbliche possano assumere decisioni arbitrarie o illegittime o che sia stato limitato l’accesso alla giustizia; occorre altresì provare che ciò abbia avuto un impatto sulla gestione dei fondi Ue.

Il che può accadere, per esempio, perché le autorità nazionali non effettuano i controlli dovuti, vi è un serio rischio di frodi a danno del bilancio dell’Unione, la magistratura non interviene in relazione alle predette carenze nella vigilanza, ecc. Solo in questi e altri analoghi casi esemplificati nella bozza, l’erogazione dei fondi potrà essere sospesa. Insomma, al di là dell’enunciazione di principio pare ben difficile riuscire a far scattare le sanzioni nei confronti dello Stato in violazione della rule of law.

Se, effettivamente, si è fatto di una mosca un elefante, perché questa reazione così spropositata, tanto più considerando che Polonia e Ungheria sarebbero tra i paesi più danneggiati dal mancato accesso ai fondi del bilancio e del Ngeu? Perché temono che questo regolamento, benché tutto sommato innocuo, diventi una sorta di cavallo di Troia che può poi essere invocato anche in altre situazioni suscettibili di porre a rischio lo stato di diritto, legittimando il controllo continuo delle istituzioni europee sulla loro politica interna.

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E allora, come se ne esce? In caso di mancato accordo, è previsto che si proceda solo allo stanziamento mensile di un dodicesimo dei capitali di spesa del bilancio precedente (facendo dunque saltare molte spese in materia di sanità, clima, migrazione, oltre alla quota parte dei 750 miliardi per i piani di ripresa e resilienza). Nei giorni scorsi, per la prima volta è stata ventilata la possibilità, in caso di mancato accordo di cercare una soluzione a 25vper quanto attiene il piano Ngeu.

Una simile minaccia aveva funzionato in occasione della firma del Trattato di Lisbona, sempre con la Polonia, per indurla a più miti consigli. E invero, anche questa volta la Polonia ha fatto sapere che una soluzione potrebbe forse trovarsi, allegando ai lavori del vertice, una dichiarazione che definisca più puntualmente i limiti di applicabilità del regolamento.

 

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