Gelsi: "Io, debuttante con la Fiorentina mandato a marcare Maradona al San Paolo"

Michele Gelsi, oggi cinquantaduenne, aveva 18 anni e mezzo quando il mister Bersellini lo schierò come mediano per tamponare il Pibe de Oro. "Vinse il Napoli ma Diego non segnò"

Michele Gelsi e Maradona nel Napoli-Fiorentina del 1987
Michele Gelsi e Maradona nel Napoli-Fiorentina del 1987
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Marco Buttafuoco Modifica articolo

27 Novembre 2020 - 17.33


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È morto Maradona e tutti i calciatori e i calciofili lo rimpiangono. Tutti scrivono e discettano sulla sua vita e sulla sua arte pedatoria, sulle sue contraddizioni, sul il suo essere artista maudit. Michele Gelsi, cinquantaduenne elbano trapiantato a Pescara, dove gestisce uno stabilimento balneare ha incontrato solo una volta, come avversario,  l’argentino, ma sente che con la morte di quello che fu il suo avversario per una sola domenica si chiude, anche per lui, un’ epoca. 

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“ Mi sono sempre sentito un ex calciatore, almeno fino a ieri sera, anche se ho appeso le scarpe al mitico chiodo nel 2005. Con la morte di Diego, invece si chiude un’epoca, anche per me. Non c’è più niente come prima, con lui si è chiusa l’epoca dei grandissimi campioni. Quelli venuti dopo, i Totti, i Del Piero, i Ronaldo, i Messi, sono fuoriclasse, nessuno lo mette in dubbio, ma non avevano e non hanno quel qualcosa d’indefinibile che separa un genio da un campione vero, da un mito. Io sono stato sempre un buon comprimario, niente di più, ma sento, con malinconia, che il mio libro calcistico sia arrivato all’ultima pagina ieri, ieri, con la morte di Diego.  E in ogni caso ho avuto l’occasione di stare vicino (non dice affrontare, nda) anche se una volta soltanto a un personaggio di cui difficilmente ci sarà un eguale”. 

Quando avvenne questo duello?   

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Fu a fine campionato del 1987, il Napoli affrontò al San Paolo, la Fiorentina (la mia squadra fin dalle giovanili) con l’obiettivo di conquistare quei pochi punti che gli mancavano al primo scudetto. Noi, invece avevamo bisogno di punti. Io avevo già debuttato in serie A, ma avevo disputato poche partire, tre o quattro. Quando il Mr. Bersellini mi disse che avrei dovuto giocare da mediano per arginare Maradona capii che quello era il mio vero battesimo del fuoco. Lo affrontai con spavalderia, a diciotto anni e mezzo anni ci si sente forti e invincibili, solo con gli anni ho capito che quel giorno avrei potuto andare incontro a una meschina figura. L’allenatore mi chiese di seguire El Pibe passo dopo passo, di disseccare la sua ispirazione e di impedirgli sia di rifornire Giordano e Carnevale che erano le punte, sia di liberarsi al tiro. Cosa ricordo? Si muoveva come una farfalla, con scatti brevi e imprevedibili, in continuazione. Prevedevi un suo spostamento a destra e lui era già, mentre tu prevedevi a sinistra. Con il pallone fra i piedi era inarrestabile. Potevi solo anticiparlo prima che toccasse palla e, a onor del vero, lo feci diverse volte, in quella giornata. Vinsero loro, ma Diego non segnò.  Aveva un’altra caratteristica. Se lo facevi cadere, lui rimbalzava quasi sul terreno, un attimo dopo era in piedi, pronto a ripartire, se non era stato colpito duramente. Non simulava falli, non si lamentava della rudezza degli avversari. Se poteva, si rialzava. Se l’arbitro non fischiava, non rimaneva a terra. Di brutte botte ne ha prese tante. In quell’epoca c’erano difensori veri, fisici, determinati, e non erano condizionati dal Var e dalle mille telecamere che invadono i campi. Diego non faceva sceneggiate. Pochi le facevano allora. Segnare un gol in quei tempi era molto più difficile di oggi, epoca in cui gli attaccanti sono molto protetti dalla tecnologia e da una mentalità che identifica il calcio con i tanti gol. Diego segnava molto, nonostante i difensori rudi, prendeva i suoi colpi ma si faceva rispettare. Con me fu gentile a fine partita, mi fece i complimenti ma non riuscii a parlarci tanto, loro avevano vinto quel giorno lo scudetto, e lui fu inghiottito dalla sua gente. Lo amavano tutti. Era sempre pronto a dare una mano, i suoi compagni di squadra lo adoravano perché non era supponente ed era un compagnone, un tipo molto alla mano, la classica persona con cui andare a far baldoria. Un capitano.

Messi è quello che gli si avvicina di più, ma non ha quella scintilla, quel carisma, quella forza di cui parlavo prima. E ‘un dono per pochi. 

Dopo quella partita? Ho subito un grave infortunio, sono stato fermo nove mesi, nella stagione successiva e non sono riuscito a essere titolare fisso. Ho chiesto di andare a giocare in Serie B, a Parma, poi sono finito a Pescara, dove sono stato anni e dove vivo ancora. Quasi a fine carriera ho vinto un campionato Saudita e una coppa D’Asia con il Ryad, dove fui chiamato da Dossena. I rimpianti sono inutili, le recriminazioni anche. Rimpianti? Il calcio di allora, nel quale non avevi le televisioni addosso anche negli spogliatoi, dove parlavi con i media una volta a settimana e non c’era tutto questo chiacchiericcio e questo divismo. Magari è meglio così, per i ragazzi che giocano ora, sono più famosi, hanno più visibilità e più occasioni. Ma un calcio dove non si può nemmeno più esultare per un gol perché devi aspettare il responso del Var, non fa per me Io sono, serenamente un uomo d’altri tempi. I tempi di Diego Maradona.  

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