Attacco all'Iran: fermate Trump lo Stranamore della Casa Bianca
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Attacco all'Iran: fermate Trump lo Stranamore della Casa Bianca

Donald Trump avrebbe chiesto la settimana scorsa ai suoi consiglieri più stretti di valutare l'opzione di un attacco contro l'Iran, per bloccare il suo programma nucleare. Da qui a gennaio ne farà delle brutte

Donald Trump
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

17 Novembre 2020 - 16.14


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L’ultimo “ricorso” del Nerone della Casa Bianca. Quello più pericoloso per il mondo intero: il ricorso alla guerra. Così ieri scrivevamo noi di Globalist.  Ventiquattr’ore dopo la clamorosa conferma: Donald Trump avrebbe chiesto la settimana scorsa ai suoi consiglieri più stretti di valutare l’opzione di un attacco contro l’Iran, per bloccare il suo programma nucleare.

Lo rivela il New York Times, citando quattro attuali ed ex funzionari dell’amministrazione americana, secondo cui i consiglieri sarebbero riusciti a dissuadere il presidente a ordinare l’attacco, sostenendo che un raid contro gli impianti nucleari della Repubblica islamica potrebbe causare un’escalation della tensione nella regione nelle ultime settimane del suo mandato.

A due mesi dalla fine del mandato, Trump avrebbe esplorato la possibilità di “agire” contro un sito nucleare iraniano “nelle prossime settimane”. Forse quello di Natanz. Giovedì scorso alla Casa Bianca si sarebbe tenuta una riunione dopo le notizie dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) secondo cui l’Iran sta continuando ad arricchire uranio da usare negli impianti nucleari sforando i limiti imposti dall’accordo internazionale sul suo programma nucleare (Jcpoa), tanto da essere arrivato ad almeno 12 volte la quantità consentita (oltre 2.400 kg a fronte dei 202,8 tollerati).

All’incontro avrebbero partecipato il vice presidente Mike Pence, il segretario di Stato Mike Pompeo, Christopher Miller, che ha preso temporaneamente il posto del segretario alla Difesa Mark Esper appena silurato da Trump, e il capo degli Stati Maggiori Riuniti, Mark Milley. E, secondo le fonti del Nyt, Trump potrebbe comunque non aver rinunciato a colpire obiettivi e alleati dell’Iran, anche le milizie attive in Iraq.

Gli Stati Uniti si sono ritirati nel maggio del 2018 dal Jcpoa, firmato nel 2015 all’epoca dell’Amministrazione Obama, e hanno ripristinato le sanzioni contro la Repubblica Islamica. Dallo scorso anno Teheran ha iniziato a fare marcia indietro rispetto agli impegni assunti con l’accordo.

Ci riproverà

Per il momento “Nerone” è stato stoppato. Ma l’uomo “barricato” alla Casa Bianca con i suoi fedelissimi ci riproverà. 

Venerdì, il New York Times ha riferito che il secondo in comando di al-Qaeda, Abu Mohammed al-Masri, è stato assassinato in Iran ad agosto da agenti israeliani su ordine degli Stati Uniti. A luglio, un incendio è scoppiato nell’impianto di Natanz, causando danni significativi. Un funzionario dei servizi segreti mediorientali citato dal New York Times ha attribuito l’incidente a una bomba piazzata da Israele, e i funzionari iraniani hanno detto alla Reuters che credevano fosse stato causato da un attacco informatico. Gli esperti hanno detto che l’esplosione ha messo fuori uso l’impianto e ha rallentato il programma nucleare iraniano di mesi, se non di anni.

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A gennaio, un attacco di droni statunitensi ha ucciso a Baghdad il comandante delle Guardie della rivoluzione iraniana, il generale  Qassem Soleimani. Per rappresaglia, l’esercito iraniano ha colpito le basi statunitensi in Iraq, ferendo molti soldati statunitensi ma non uccidendone nessuno.  

Quel messaggio a Biden

Vale la pena tornare sull’eliminazione del .2 di al-Qaeda, avvalendoci della ricostruzione d Yaniv Kubovich, analista di intelligence di Haaretz: “Le notizie sull’assassinio del n. 2 di al-Qaeda a Teheran, che il New York Times ha attribuito a Israele, non hanno sorpreso l’establishment della sicurezza israeliana – scrive Kubovich -.  Riconoscono che c’è una stretta collaborazione tra i servizi segreti israeliani e le agenzie di tutto il mondo. Ciò che li ha incuriositi è piuttosto la tempistica dell’annuncio, circa tre mesi dopo l’uccisione e una settimana dopo che Joe Biden aveva vinto le elezioni negli Stati Uniti. Secondo fonti dell’intelligence israeliana, la rivelazione dell’assassinio di Abdullah Ahmed Abdullah, noto anche come Abu Mohammed al-Masri, vuole trasmettere un messaggio al presidente eletto Biden, che intende rilanciare i negoziati con l’Iran. Al-Qaeda, che ha subito un duro colpo dagli Stati Uniti negli ultimi anni, non è una priorità assoluta per Israele, anche se è sotto controllo.

La fonte ha aggiunto che se fosse stata davvero un’operazione israeliana, Israele ‘ha usato le sue capacità in Iran, come se gestisse agenti in grado di farlo’ ma ‘sembra che non siano stati i servizi segreti israeliani a portare avanti questa operazione sul campo”

L’assassinio è stato preceduto da una rapida visita in Israele del gen. Mark Milley, presidente dei Capi di Stato Maggiore. Il 24 luglio, due settimane prima dell’operazione, Milley ha visitato la base aerea di Nevatim nel sud di Israele. Questa è stata la seconda visita di Milley in Israele da quando ha assunto il suo incarico, la prima è avvenuta pochi giorni prima dell’assassinio di Soleimani.

Durante la sua visita di luglio, Milley ha parlato con il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, il Ministro della Difesa Benny Gantz, il capo del Mossad Yossi Cohen, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi e il capo dei servizi segreti militari Tamir Hayman.

La visita a Nevatim è stata preceduta a fine giugno da un incontro a Gerusalemme tra Netanyahu e l’inviato americano per l’Iran, Brian Hook. ‘Abbiamo seri problemi da discutere. Sono così seri che non possono nemmeno aspettare Covid-19’, ha dichiarato Netanyahu prima dell’incontro.

In seguito si è rivolto all’inviato americano e ha detto: ‘Senza la determinazione di usare la forza militare contro chi ha intenzione di attaccarvi, il pericolo diventa sempre più grande. Questa è una politica, Brian, che abbiamo adottato anche noi’.

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La strategia di contenimento

Per cogliere gli elementi basilari della strategia del presidente eletto sull’Iran, è molto utile la lettura di un lungo report pubblicato dal Washington Post poche settimane prima del voto. Interessante perché a scriverlo sono due autorità quanto a conoscenza del “pianeta Iran” e delle complesse e conflittuali dinamiche interne alle varie anime del regime degli ayatollah: Philip H. Gordon, membro del  Council on Foreign Relations Mary e David Boies, senior fellow di politica estera. È stato assistente speciale del presidente e coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente nell’Amministrazione Obama, ed è autore di Losing the Long Game: La falsa promessa del cambiamento di regime in Medio Oriente”. La coautrice è Ariane M. Tabatabai è borsista per il Medio Oriente presso l’Alliance for Securing Democracy del German Marshall Fund, e ricercatore senior aggiunto alla Columbia University. È l’autrice di No Conquest, No Defeat: la strategia di sicurezza nazionale iraniana”.

Globalist ne ha sintetizzato i passaggi salienti: “Se l’ex vice presidente Joe Biden vincerà la Casa Bianca, dice che l’America si unirà al Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) – l’accordo nucleare iraniano del 2015 negoziato dall’amministrazione Obama che l’amministrazione Trump ha abbandonato. ‘Se l’Iran tornerà a rispettare rigorosamente l’accordo nucleare’, ha scritto Biden il mese scorso, ‘gli Stati Uniti si uniranno nuovamente all’accordo come punto di partenza per il proseguimento dei negoziati” per rafforzare ed estendere le sue disposizioni. Egli riconosce che non esiste una formula magica per trasformare rapidamente l’Iran in una democrazia pacifica e cooperativa. Ma dice che il suo approccio impedirebbe all’Iran di ottenere armi nucleari, eviterebbe una potenziale escalation militare, riconcilierebbe gli Stati Uniti con gli alleati europei Gran Bretagna, Francia e Germania (che, insieme a Cina e Russia, rimangono nell’accordo), e permetterebbe comunque a tutti loro di usare strumenti come la diplomazia, sanzioni mirate e deterrenza per affrontare questioni come la sponsorizzazione del terrorismo da parte dell’Iran, l’interferenza regionale e le violazioni dei diritti umani….

È innegabile che le sanzioni secondarie statunitensi hanno profondamente danneggiato l’economia iraniana e hanno inflitto grande dolore alla sua popolazione frustrata. Con le sue esportazioni di petrolio drasticamente ridotte, la sua economia continua a contrarsi. Ma anche dopo diversi anni di attuazione, le sanzioni statunitensi non si sono avvicinate agli obiettivi dichiarati dell’amministrazione. Nessun nuovo accordo nucleare è stato raggiunto per sostituire quello da cui Trump si è ritirato, e non ci sono nemmeno trattative all’orizzonte – il leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha detto che non negozierà, per evitare che Trump politicamente ‘tragga beneficio dai negoziati’. Né è cambiata in meglio la posizione dell’Iran, almeno secondo l’amministrazione Trump, che recita regolarmente una litania di misfatti iraniani e riconosce che il programma nucleare iraniano è andato avanti da quando gli Stati Uniti hanno lasciato l’accordo. Né, nonostante le proteste pubbliche, c’è alcun segno di un imminente crollo del regime. Lungi dal cambiare in meglio le sue strade, il regime sta brutalmente reprimendo una popolazione già sofferente.

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Nel frattempo, gli Stati Uniti si sono isolati dai loro alleati, come dimostra la recente umiliante sconfitta alle Nazioni Unite, quando solo un membro del Consiglio di sicurezza a 15, la Repubblica Dominicana, ha sostenuto l’embargo a tempo indeterminato della vendita di armi all’Iran. I partecipanti europei all’accordo nucleare lo vedono ancora tutti non solo come il modo migliore per impedire all’Iran di acquisire un’arma nucleare, ma anche per evitare le conseguenze umanitarie e il potenziale di escalation militare che ritengono derivino dalla massima pressione dell’amministrazione Trump. Presumere che la massima pressione che porterà alla capitolazione iraniana sarà quella di perseguire ancora una volta una politica estera basata sulla speranza piuttosto che sull’esperienza. Questo approccio potrebbe costringere l’Iran a tornare al tavolo dei negoziati, ma potrebbe anche portare a una continua espansione del suo programma nucleare, a nuovi sforzi da parte di un regime disperato per sferrare attacchi contro i suoi vicini, e contro gli interessi americani e americani in Medio Oriente, a una sofferenza diffusa per milioni di iraniani, e a un attacco militare americano o israeliano contro gli impianti nucleari iraniani, seguito da una probabile rappresaglia iraniana contro obiettivi statunitensi e alleati.

L’alternativa non è dare all’Iran un lasciapassare. È, come ha proposto Biden, contenere le sue ambizioni nucleari facendo rispettare il Jcpoa; continuare a dissuadere l’Iran dall’aggressione nella regione mantenendo gli impegni e gli schieramenti di difesa degli Stati Uniti; lavorare a stretto contatto con i partner nella regione e oltre per contrastare l’agenda regionale espansionistica dell’Iran e guadagnare tempo per permettere alla dinamica società civile del Paese di lavorare verso un cambiamento positivo. La diplomazia, la deterrenza e il controllo degli armamenti non offrono alcuna garanzia – e non sono necessariamente un grande slogan di campagna – ma sono quasi certi di funzionare meglio nel lungo periodo rispetto al rischioso perseguimento di obiettivi massimalisti che hanno poche basi nella storia o nella logica”.

Ma il “Nerone” della Casa Bianca non è di questo avviso ed è pronto a far esplodere la polveriera mediorientale. Una polveriera nucleare.

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