Migranti, la farsa di Bruxelles, l'orrore della Libia. Amnesty denuncia gli "abusi di Stato"
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Migranti, la farsa di Bruxelles, l'orrore della Libia. Amnesty denuncia gli "abusi di Stato"

Tra maggio e settembre 2020, Amnesty International ha raccolto informazioni sulle condizioni di detenzione in almeno 13 luoghi di detenzione in tutta la Libia.

Lager in Libia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

24 Settembre 2020 - 17.07


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La realtà e la narrazione. Verità e “affabulazione” . Un consiglio per i lettori di Globalist: mettete a confronto il “Patto sull’immigrazione” presentato ieri in pompa magna a Bruxelles dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, con “Tra la vita e la morte”, il rapporto sull’inferno libico che Amnesty International ha respo pubblico ventiquattr’ore dopo

Il “parto” europeo.

Metteteli a confronto. E avrete la riprova del cinismo e le complicità di una Europa che ha affidato, finanziandoli, a criminali spacciati per militari o guardie costiere il lavoro sporco di rigettare nei lager libici le migliaia di esseri umani intercettati nelle acque del Mediterraneo.

Abusi di Stato

Tra maggio e settembre 2020, Amnesty International ha raccolto informazioni sulle condizioni di detenzione in almeno 13 luoghi di detenzione in tutta la Libia. Tra di loro c’erano sei centri di detenzione Dcim, il Dipartimento del governo per l’immigrazione illegale.

Ecco ciò che accade.

Decine di migliaia di donne, uomini e bambini subiscono violazioni e abusi indicibili in Libia. Solo perché sono rifugiati e migranti. Sono intrappolati in un paese dilaniato dal conflitto, dove la mancanza di leggi e l’impunità diffusa permettono ai criminali di prosperare. Molti, temendo per la propria vita e senza alternative legali per lasciare il paese, si sono imbarcati su fragili gommoni nel tentativo di raggiungere l’Europa. Sono sempre di più quelli che vengono fermati e riportati in Libia, vittime delle misure europee per chiudere la rotta del Mediterraneo e contenere le persone nel Paese, rimarca il dossier di AI.

La maggior parte dei rifugiati e dei migranti in Libia provengono dall’Africa sub-sahariana e del nord, con una piccola percentuale originaria dell’Asia e del Medio Oriente. Hanno lasciato i loro paesi per svariate ragioni. Alcuni sono fuggiti da guerrepersecuzionicarestie. Altri cercavano un’istruzione o un lavoro migliore. Molti sono determinati a rimanere in Libia, altri sognano l’Europa o sono costretti a farlo per il peggioramento delle condizioni in Libia.

Tutti hanno in comune il desiderio di vivere in sicurezza e dignità.

“Queste non sono tutte nuove rivelazioni – scrive ancora Amnesty International -. Per anni rifugiati e migranti, difensori e attivisti dei diritti umani libici, giornalisti, organismi delle Nazioni Unite e organizzazioni umanitarie e per i diritti umani hanno lanciato l’allarme sulle orribili condizioni che rifugiati e migranti sono costretti a sopportare in Libia”

La precedente ricerca di Amnesty International ha costantemente mostrato la sconvolgente gamma di violazioni dei diritti umani e abusi commessi contro rifugiati e migranti in Libia negli ultimi dieci anni. Questo rapporto descrive anche modelli di abuso emersi più di recente, incluso il trasferimento di persone sbarcate in Libia in luoghi di detenzione non ufficiali e la loro successiva sparizione forzata, nonché la deportazione sommaria di migliaia di rifugiati e migranti dalla regione orientale della Libia.

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“Un Paese ridotto a pezzi da anni di guerra è diventato un ambiente ancora più ostile per rifugiati e migranti in cerca di una vita migliore. Invece di essere protetti, vanno incontro a una lunga serie di agghiaccianti violenze e ora sono persino ingiustamente accusati, per motivi profondamente razzisti e xenofobici, di aver diffuso la pandemia da Covid-19“, ha dichiarato in una nota ufficiale Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

Nonostante tutto questo, anche quest’anno l’Unione europea e i suoi Stati membri stanno portando avanti politiche che intrappolano decine di migliaia di uomini, donne e bambini in un circolo vizioso di crudeltà, dimostrando un cinico disprezzo per la loro vita e la loro dignità“, ha aggiunto Eltahawy.

Poiché le autorità libiche seguitano a non agire a fronte di un consolidato sistema di violenze contro i rifugiati e i migranti, l’Unione europea e i suoi stati membri dovrebbero rivedere completamente la loro cooperazione con la Libia, condizionando ogni ulteriore forma di sostegno all’adozione di misure immediate per fermare le orribili violenze ai danni dei rifugiati e dei migranti, come ad esempio porre fine alla detenzione arbitraria e chiudere i centri di detenzione per migranti. Fino ad allora, nessuna persona soccorsa o intercettata in mare dovrebbe essere fatta tornare in Libia e, al contrario, dovrebbe essere fatta approdare in un porto sicuro“, ha proseguito Eltahawy.

Dal 2016 i Paesi europei hanno messo in campo una serie di misure per bloccare le rotte migratorie dalla Libia attraverso il mar Mediterraneo.

Complici

Hanno equipaggiato la Guardia costiera libica per intercettare rifugiati e migranti e riportarli in Libia, impedito alle persone soccorse in alto mare di sbarcare in Europa, criminalizzato il lavoro delle Ong di ricerca e soccorso, stretto accordi con le autorità locali e le milizie per impedire alle persone di lasciare la Libia.

Queste politiche di contenimento hanno lasciato centinaia di migliaia di donne, uomini e bambini a languire in Libia. Rifugiati e migranti che tentano la traversata sono intercettati in mare dalla Guardia costiera libica, supportata dall’Unione europea, e riportati in Libia, dove vengono detenuti per un tempo indefinito in condizioni disumane, a rischio costante di abusi e violazioni.

Nel dossier di Amnesty International non ci sono solo le testimonianze dalle prigioni clandestine, soprattutto ci sono le prove raccolte sul campo e che inchiodano le autorità ufficiali. Investigazioni condotte incrociando i dati: “Dopo aver ottenuto gli screenshot dai prigionieri che mostravano la loro posizione in tempo reale su Google Maps, Amnesty International ha esaminato le immagini satellitari delle coordinate Gps e ha identificato la posizione nella città di al Zawiyah, 45 km a ovest di Tripoli, con una forte presenza di veicoli militari”. Una fonte indipendente ha confermato che il luogo individuato quale prigione “è il quartier generale delle forze di supporto di al Zawiyah. Alcuni internati sono riusciti a sfuggire poche settimane fa e hanno confermato le acquisizioni: “Venivano tenuti in condizioni orribili senza cibo o acqua potabile a sufficienza e picchiati regolarmente. I loro rapitori hanno chiesto chiesero un riscatto di 6.000 dinari libici”, circa 4mila euro.

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Non è l’unica conferma del coinvolgimento diretto di funzionari pubblici nel traffico di esseri umani. “Due uomini su cui pende un mandato d’arresto da parte delle autorità libiche e i cui nomi figurano nella lista delle persone sottoposte a sanzioni da parte delle Nazioni Unite per il loro presunto coinvolgimento nel traffico di esseri umani, sono ufficialmente legati al Gna (il governo riconosciuto di Tripoli, ndr): Ahmad al-Dabbashi, detto “al-Amou”, è stato visto combattere con le forze del Gna nell’aprile 2020, mentre il ben noto Abdurhaman al Milad, detto “al Bija”, è il comandante della guardia costiera libica presso la raffineria della città portuale di al-Zawiya”. 

Alla galleria degli orrori raccontati a più riprese dai rifugiati e dai migranti in Libia, “si aggiungono sviluppi inquietanti – commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty in Italia -, come il trasferimento in strutture di detenzione non ufficiali delle persone intercettate in mare.” Di fronte a tutto questo, “il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo e il memorandum d’intesa Italia-Libia esemplificano esattamente tutto ciò che non andrebbe fatto in termini di cooperazione con la Libia”.

Storie  tragicamente esemplari

Come quella di Ahmed, che vicino Tripoli aveva un alloggio e un lavoro. Ci era arrivato nel 2017 per stare alla larga dai fanatici di al-Shabaab in Somalia. “Una notte alle 3 del mattino alcuni criminali sono entrati in casa nostra. Hanno picchiato mia moglie. Ho reagito. Mi hanno pugnalato a una gamba e hanno detto: “Se ti muovi, le spariamo”. Ci hanno rapiti e ci hanno portati in un hangar”. Per liberarli hanno chiesto “20 mila dollari a persona. C’erano 16 o 17 prigionieri nell’hangar: Somalia, Eritrea, Etiopia. Siamo rimasti circa 15 giorni. Ci picchiavano. Quando arrivi ti spogliano, picchiano gli uomini e violentano le donne. Dopo due settimane, ho colto un’occasione e sono scappato”.

Storie di brutalità senza fine, come quella di Adam, rapito insieme ad altri 25 connazionali del Gambia mentre da Sabha si dirigeva verso Tripoli. Anche in questo caso i prigionieri erano picchiati ogni giorno e costretti a chiamare le loro famiglie per chieder loro di pagare un riscatto. Adam è riuscito a versare la sommA richiesta solo dopo 9 mesi: soldi che i suoi parenti hanno potuto raccogliere solo vendendo la casa di famiglia. A quel punto il giovane è stato portato a Tripoli, dove una persona lo ha trovato per strada in condizioni di estrema difficoltà e lo ha portato all’ospedale. Lì la sua foto è stata postata su Facebook e a quel punto l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) ha inviato lì un proprio medico per farlo visitare. Ci sono volute 3 settimane di ricovero per farlo riprendere: al momento dell’ospedalizzazione pesava 35 chili e presentava serie ferite da tortura.

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La storia di SC è questa: una volta arrivato a Sahba – sud ovest della Libia – il ragazzo è stato accusato dal conducente del pick-up di non aver mai pagato la somma pattuita dal trafficante, ed è stato portato insieme a tutti gli altri compagni di viaggio in un’area di parcheggio dove ha potuto assistere a un vero e proprio “mercato degli schiavi”.

SC ha raccontato di essere stato “comprato” e di essere stato trasferito nella sua prima prigione, una casa privata dove oltre 100 migranti erano tenuto come ostaggi. In quel posto, i rapitori costringevano i migranti a chiamare le loro famiglie a casa, e spesso erano picchiati durante la telefonata proprio per fare sentire ai loro cari le torture subite.

A SC è stato chiesto di pagare 300.000 franchi CFA (circa 480 dollari). Soldi che non aveva. E’ stato quindi “comprato” da un altro libico, che lo ha portato in una casa più grande, dove è stato fissato un nuovo prezzo per il suo rilascio: 600.000 franchi CFA (970 dollari), da pagare tramite Western Union o Money Gram a una persona chiamata “Alhadji Balde’, basata in Ghana.

SC è riuscito a raccogliere qualche soldo grazie all’aiuto ottenuto dalla famiglia e ha lavorato come interprete per i rapitori, in modo da evitare ulteriore torture. Le condizioni sanitarie erano spaventose e il cibo veniva dato solo una volta al giorno. Alcuni migranti che non erano in grado di pagare erano uccisi o lasciati morire di fame.

SC ha riferito all’Oim che quando qualcuno moriva o veniva rilasciato, i rapitori tornavano al mercato per “comprare” altri migranti. Anche le donne erano comprate – apparentemente da persone di nazionalità libica – e portate in abitazioni dove erano costrette a diventare schiave sessuali.

Ahmed, Adam, SC non erano a Bruxelles ad ascoltare la presidente della Commissione europea. Avrebbero avuto molto da raccontare. Tanto da far arrossire di vergogna i “dignitari” europei.

 

 

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