Yossi Beilin: "La vera sfida è una confederazione tra Israele e Palestina".

Parla il principale negoziatore per Israele negli accordi di Oslo, che ha avuto incarichi diplomatici ed è stato il ministro israeliano per la giustizia

Yossi Beilin
Yossi Beilin
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Settembre 2020 - 14.46


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E’ stato il principale negoziatore per Israele negli accordi di Oslo. Ha ricoperto incarichi ministeriali nei governi di Yitzhak Rabin, Shimon Peres (del quale è stato collaboratore per 18 anni, sette come consigliere diplomatico e poi 11 in ruoli diversi) ed Ehud Barak, Dal 1999 al 2001 è stato ministro della Giustizia. Assieme al leader palestinese Yasser Abed Rabbo, Yossi Beilin è stato uno degli artefici dell’Iniziativa di Ginevra, il più avanzato e dettagliato piano di pace messo a punto da israeliani e palestinesi.

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Oggi, a 72 anni, Beilin non è solo testimone di una fase storica e politica d’Israele del quale è stato tra i protagonisti, ma, girando il mondo per tenere conferenze, è tra i più autorevoli analisti diplomatici dell’intero Medio Oriente. A conferma sono le sue considerazioni , in un report per Haaretz, in merito ai recenti accordi di pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein,

“L’Iniziativa di pace araba del 2002 è stata una specie di bomba: è stata lanciata nella foga della seconda intifada, sullo sfondo delle violenze in corso tra palestinesi e israeliani. Quella violenza è esplosa un giorno dopo la provocatoria ‘visita’ al complesso della Spianata delle moschee dell’allora leader dell’opposizione, Ariel Sharon, e di un migliaio di sostenitori. L’iniziativa ha dichiarato la disponibilità di tutti i membri della Lega araba a fare la pace con Israele e a normalizzare i rapporti con esso, se farà la pace con i palestinesi, sulla base della soluzione dei due Stati, e con la Siria (da allora estromessa dalla Lega araba). L’iniziativa di pace araba è stata molto sorprendente, e ha dato una risposta schiacciante alla principale rivendicazione della destra in Israele: che il cuore del conflitto in Medio Oriente è l’assoluto rifiuto degli Stati arabi di riconoscere Israele, e non la disputa territoriale tra Israele e i palestinesi. Improvvisamente, è arrivato il mondo arabo e ha dichiarato, come collettivo, una disponibilità condizionata a riconoscere Israele.

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La svolta del 2002

Prima c’è stata l’Iniziativa Saudita, nata in un’intervista del febbraio 2002 che l’allora Principe Abdullah, rilasciò a Thomas Friedman sul New York Times. Nel giro di poche settimane, e con pochi cambiamenti, l’Iniziativa Saudita divenne quella della Lega Araba. Era importante anche per l’Olp, perché l’altro scopo dell’Iniziativa era quello di preservare il potere e l’unità del collettivo arabo, impedendo a quei Paesi arabi che avevano giocato con l’idea di stabilire, in modo indipendente, relazioni diplomatiche complete con Israele (come la Mauritania, che lo aveva fatto proprio nel 1999) di farlo prima che ci fosse un accordo condiviso  su una soluzione di  pace israelo-palestinese.  Il governo di Israele fu rapido  nel rifiutare l’Iniziativa, leggendovi l’intenzione di ‘distruggere Israele’, secondo Sharon. Ma l’Iniziativa Araba non era una promessa eterna. Nel corso degli anni, sempre più Paesi arabi hanno sviluppato relazioni segrete con Israele per beneficiare della sua vicinanza strategica agli Stati Uniti, delle sue conquiste tecnologiche e della sua potenza militare, come parte di una coalizione contro i nemici comuni della regione. L’Iniziativa di pace araba è diventata un ostacolo nel loro cammino verso la piena e aperta collaborazione con Israele, che non era mai stato il loro vero nemico. La possibilità di presentare la normalizzazione come un compromesso, per convincere Israele a non annettere unilateralmente parte della Cisgiordania, è stato un bel modo per giustificare qualcosa che volevano fare con o senza una scusa. Questo è lo sfondo degli accordi di normalizzazione tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che sono stati firmati a Washington la settimana scorsa. L’Arabia Saudita sostiene queste decisioni, nel suo modo reticente (sembra improbabile che gli Emirati Arabi Uniti, e – di sicuro – non il Bahrein avrebbero preso decisioni così audaci senza il suo consenso), e continua a dichiarare di essere totalmente impegnata nell’Iniziativa Araba. Ma i sauditi capiscono perfettamente che l’Iniziativa si basa sia sull’azione collettiva unanime che sulla condizionalità, due elementi basilari che non esistono più, che gli piaccia o meno. Le decisioni di normalizzare le relazioni con Israele, di porre fine al boicottaggio anti-israeliano e di dichiarare una politica dei cieli aperti per i voli israeliani sono eventi storici che portano con sé molte conseguenze positive per Israele.  Ma dobbiamo tener presente che non possono e non devono aggirare la necessità di una soluzione pacifica con i palestinesi, basata su due Stati, sotto l’ombrello di una confederazione o senza di essa. Questo è l’unico modo che abbiamo per assicurare che una minoranza ebraica non dominerà la maggioranza araba in futuro. Non c’è pace con nessun altro Stato arabo e nessun numero di Stati arabi può assicurarcelo. Per i palestinesi, è l’unico modo per porre fine all’occupazione e per avere l’indipendenza. Hanno anche bisogno di adattarsi alla nuova realtà: dovrebbero smettere di chiamare i Paesi che siglano accordi di pace con Israele traditori’, ma usare il fatto che oggi ci sono quattro importanti Paesi della Lega Araba che hanno fatto la pace con Israele, e che quel blocco può e deve diventare una lobby importante per una pace israelo-palestinese. L’Iniziativa di pace araba è irrilevante oggi nella sua formulazione originale come promessa di normalizzare le relazioni con Israele a condizione che faccia pace con i palestinesi. Ma ha giocato un ruolo importante nel mostrare ad entrambe le parti la potenziale accessibilità di un orizzonte di pace. Ora, l’Iniziativa di pace araba dovrebbe essere trasformata in un gruppo di pressione per la pace intensiva, potenziato da buone relazioni con entrambe le parti, sia israeliana che palestinese, e che sia in grado di fare la spola tra di loro, parlare con loro seriamente, e aiutare ciascuno di loro a percorrere il miglio in più verso la pace.

Una riflessione sul passato, guardando al futuro

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Beilin crede, retrospettivamente, che Oslo avesse assolutamente ragione. Incolpa ciò che non è andato bene al primo ministro Benjamin Netanyahu e agli estremisti di destra della parte israeliana.

“E’ molto difficile definire Oslo un fallimento”, dice. “Il fallimento è che Oslo non è stata implementata”. La ragione più importante è che Yitzhak Rabin è stato assassinato, e dopo alcuni mesi di Shimon Peres, a capo del governo, è stato eletto un altro primo ministro che era contro Oslo. “Sia chiaro – rimarca Beilin -: con questo non sto esonerando i palestinesi dalle loro responsabilità, ma a mio parere, la parte israeliana è stata il più grande ostacolo”.

La memoria torna ai mesi post accordi di Oslo-Washington. Mesi di speranza, ma che finirono quando iniziò il bagno di sangue. “La prima uccisione di massa è stata fatta da Baruch Goldstein [dei palestinesi a Hebron] nel febbraio 1994, prima che gli autobus israeliani esplodessero ad Afula e Hadera. Quello che Goldstein  (un medico-colono, legato all’estrema destra israeliana, che ancora lo venera come un eroe, ndr) ha fatto è qualcosa che non avevamo previsto. Temevamo che i palestinesi avrebbero fatto qualcosa del genere. Non abbiamo calcolato abbastanza l’opposizione ebraica all’accordo. Forse il grande sostegno all’inizio ci ha accecati”. “Entrambe le parti non hanno fatto ciò che avrebbero potuto fare per attuare il processo. I palestinesi avrebbero potuto fare di più per impedire ai loro estremisti di silurare il processo disarmandoli. L’Autorità palestinese aveva paura di una guerra civile, il che è comprensibile, ma avrebbero potuto fare di più. E questo rimane ancora il caso. Penso che sia giusto esigere che facciano tutto il possibile per disarmare i loro estremisti. Da parte israeliana, dopo l’assassinio del primo ministro Rabin a causa della sua prospettiva orientata alla pace, Benjamin Netanyahu è salito al potere per porre fine al processo di Oslo. Il suo più grande successo fu che nel maggio 1999, alla fine dei cinque anni, non c’era nemmeno l’inizio dei negoziati per una soluzione permanente. L’idea di un processo quinquennale con passi intermedi è nata da processi precedenti, compreso quello che ha portato al ritiro dal Sinai. Già allora, ai tempi di Oslo, cercai di convincere Rabin ad andare immediatamente verso una soluzione permanente, ma lui riteneva che fosse prematuro. Ma non posso provare che una soluzione del genere avrebbe avuto successo”.

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E alla domanda se pensa che i palestinesi siano stati irrazionali nel rifiutare ciò che Barak ha offerto loro a Camp David nell’estate del 2000, Beilin risponde così: “Beh, questa è stata l’offerta più ampia che un primo ministro israeliano abbia mai fatto al popolo palestinese. Detto questo, non voglio dire che i palestinesi avrebbero potuto o dovuto accettarla. E i palestinesi hanno anche fatto alcune importanti concessioni che prima non avevano offerto, per esempio che i quartieri ebraici di Gerusalemme potessero essere sotto la sovranità israeliana. Se si soppesano le concessioni da entrambe le parti sarebbe giusto dire che le concessioni israeliane erano più grandi, forse perché si poteva dare di più. Il risultato di Camp David avrebbe dovuto essere un maggior numero di negoziati, non una proclamazione di ‘collasso’ o di esplosione….”.

In Israele, e non solo tra i falchi, sono in moti a sostenere che non esista attualmente una leadership palestinese autorevole con cui riprendere a negoziare”. “Se non c’è un partner, deve essere fatto unilateralmente- dice Beilin –  Non abbiamo altra scelta”. Non possiamo mettere il nostro destino nelle mani dei palestinesi. La nostra prima priorità deve essere il raggiungimento di un confine”.

Beilin minimizza il problema dei profughi palestinesi che ha fatto notizia negli ultimi tempi grazie a un cambiamento della politica statunitense in materia.

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“I palestinesi sanno che non possiamo andare oltre un numero simbolico di rifugiati e gli israeliani sanno che non possiamo tenere i palestinesi nei campi profughi”, afferma. “I palestinesi hanno accettato di essere smilitarizzati. Hanno detto che non possono competere con Israele su aerei e carri armati e sanno che se avranno un esercito, saranno guidati da generali, quindi anche questo non è stato un problema. La minaccia più grande per raggiungere un accordo è il gran numero di persone che vivono negli insediamenti”.

Una confederazione israelo-palestinese

La seconda idea che Beilin solleva è quella di due Stati che farebbero anch’essi parte di una confederazione – non con la Giordania o l’Egitto, ma l’uno con l’altro. “Una confederazione, piuttosto che una federazione – spiega – è costituita da Stati indipendenti e sovrani separati che preferiscono esistere in un quadro comune e che determinano insieme la portata della loro cooperazione. L’idea non è una novità. In realtà, la Risoluzione della Partizione (Assemblea Generale delle Nazioni Unite , nr. 181) suggerisce una confederazione economica, e se si tiene conto dell’area molto piccola ad ovest del fiume Giordano, sembra molto artificiale che due entità totalmente separate pianifichino le loro infrastrutture separatamente, e che affrontino separatamente le sfide comuni come le malattie agricole tra molte altre. La cooperazione e il coordinamento sono indispensabili.

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Non sto parlando di un super-parlamento congiunto o di una sorta di leadership a rotazione, ma di autorità congiunte in settori concordati, e di accordi che possono rendere la vita di entrambi i popoli molto più conveniente. La questione degli insediamenti può essere risolta in modo che gli israeliani ad est del nuovo confine possano rimanere negli insediamenti, se lo desiderano, come cittadini palestinesi permanenti che obbediscono alla legge palestinese. Questi insediamenti non saranno più villaggi o città israeliane esclusive, ma nessun israeliano dovrà essere evacuato da casa sua. Lo stesso numero di cittadini palestinesi dovrebbe poter vivere in Israele come residenti permanenti, controllati da Israele.

Sulla questione della sicurezza, ci può essere una divisione del lavoro, in modo che i palestinesi siano totalmente responsabili della loro sicurezza interna (e l’Idf non potrà bussare alle porte dei palestinesi e arrestarli nel cuore della notte), mentre Israele (almeno per un periodo concordato) sarà responsabile della difesa strategica, contro le minacce di terzi… I confini tra gli Stati possono essere molto rigidi all’inizio, e molto più permeabili quando la situazione sarà  più sicura e stabile. La Città Vecchia di Gerusalemme può ospitare alcune delle autorità congiunte, e con questo intendo permettere la realizzazione di idee creative per risolvere lì la questione della sovranità (come la doppia sovranità)”.

E’ la terza via di Yossi Beilin, tra una soluzione a due Stati di fatto impossibile da realizzare, vista la massiccia colonizzazione dela Cisgiordania da parte d’Israele, né uno Stato bi-nazionale, che smantellerebbe uno dei pilastri identitari d’Israele: il focolaio nazionale ebraico che si fa Stato.

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