Finanziamento alla Guardia costiera libica, quando il Consiglio di Stato copre un'ingiustizia
Top

Finanziamento alla Guardia costiera libica, quando il Consiglio di Stato copre un'ingiustizia

Respinto il ricorso dell'Asgi che contestava lo stanziamento di 2,5 milioni di euro del Fondo Africa al ministero dell'Interno libico per 4 motovedette e l'addestramento di 22 membri di equipaggio libici.

Migranti sotto il controllo dei libici
Migranti sotto il controllo dei libici
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Settembre 2020 - 14.42


ATF

Il politically  correct vorrebbe che le sentenze o i pronunciamenti di organi dello Stato vadano rispettati e non sottoposti a “processi”. Ma per Globalist è un punto di onore non allinearsi a questa vulgata, che spesso copre una sudditanza compiacente al potere politico e finanziario. Questa premessa, per dire che il pronunciamento del Consiglio di Stato secondo cui il sostegno dell’Italia alla Guardia costiera libica è “legittimo”, non ci convince neanche un po’.

Dopo il documento ufficiale con cui l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha ammonito l’Italia sui respingimenti effettuati dalla Guardia costiera libica accusata di violenze e collusione con i trafficanti, chiedendo di “astenersi dal far tornare in Libia le persone soccorse in mare e assicurare lo sbarco tempestivo in un luogo sicuro”, arriva una sentenza del Consiglio di Stato a rimettere in discussione il ruolo italiano. 

E a dire che è un “assunto del tutto ipotetico ed indimostrato» che “il supporto italiano alle forze libiche sia o sia stato quasi certamente destinato a rafforzare comportamenti e azioni costituenti illecito internazionale”. Lo stesso “supporto” che invece esporrebbe secondo l’Onu il nostro Paese a ricorsi e azioni giudiziarie per violazione dei diritti umani.

Se questa è giustizia

Con queste motivazioni il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) che contestava lo stanziamento nel 2017 di 2,5 milioni di euro del cosiddetto Fondo Africa al ministero dell’Interno libico per la manutenzione di 4 motovedette e l’addestramento di 22 membri di equipaggio libici. Per l’Asgi, in questo modo l’Italia causerebbe un deterioramento delle condizioni dei migranti in Libia, “rendendo sempre più difficile la fuga dalle carceri dove la loro vita ed incolumità sono in costante pericolo”. Invece, scrivono i magistrati, quell’intervento “aveva lo scopo di incentivare l’adozione da parte delle autorità libiche di pratiche rispettose del diritto internazionale nelle operazioni di controllo delle frontiere e di ricerca nelle acque prospicienti le coste”.

L’Asgi sottolinea che le autorità libiche sono state e sono anche ora responsabili di violazioni dei diritti umani attraverso le stesse motovedette fornite dall’Italia. Dunque, sottolinea, anche il «finanziamento di strumentazione finalizzata a bloccare migranti in Libia deve essere qualificato come un’attività di respingimento de facto posta in essere dal nostro Paese». Il ricorso era stato respinto dal Tar e per questo l’Asgi si era rivolta al Consiglio di Stato che però non ha accolto le istanze. Per i magistrati di Palazzo Spada “manca qualunque prova del fatto che lo Stato italiano eserciti o possa esercitare un ‘controllo’ effettivo sul territorio libico, ovvero sulle autorità libiche, tale da poter configurare l’esistenza di una sorta di respingimento delegato’ posto in essere dalle autorità libiche ma imputabile a quelle italiane, in violazione al principio di non refoulement stabilito dalle Convenzioni internazionali”.

Sconcerto tra gli avvocati Salvatore Fachile e Antonello Ciervo che hanno rappresentato Asgi: “Sono ormai noti – affermano in una dichiarazione – i legami tra la Guardia costiera libica e le organizzazioni criminali e le violente modalità con cui i migranti vengono intercettati e riportati nel paese ed è evidente che alla luce di tali circostanze la strategia italiana dovrebbe essere valutata””.

“È una sentenza deludente, che ignora la realtà – commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia –. Il Consiglio di Stato si limita a richiamare, delle misure contestate, le finalità astratte meramente dichiarate dal Governo italiano, senza tenerne in considerazione gli effetti concreti consistenti in violazioni del diritto di asilo, detenzione arbitraria e ampia diffusione della tortura – fenomeni la cui esistenza, peraltro, non è contestata dalle stesse autorità italiane. Ed è una sentenza altresì povera di argomenti, che non affronta adeguatamente il tema, approfondito negli interventi ad adiuvandum, della responsabilità internazionale dell’Italia per avere tenuto, in piena consapevolezza e senza prevedere condizioni, condotte che hanno aiutato e assistito le agenzie libiche a violare i diritti umani di rifugiati e migranti“.

La denuncia dell’Unhcr

A nulla è dunque servito il documento ufficiale di 17 pagine l’Alto commissariato Onu per i rifugiati che ha spazzato via ogni alibi: “L’Unhcr–Acnur non ritiene che la Libia soddisfi i criteri per essere designata come luogo sicuro ai fini dello sbarco dopo il salvataggio in mare”. 

Annota su Avvenire Nello Scavo: “Non è un parere negoziabile. Ogni collaborazione nei respingimenti, infatti, costituisce una violazione del Diritto internazionale. Pochi giorni fa era stata Stephanie Williams, capo pro–tempore della missione Onu a Tripoli, a ribadire con una lettera al Consiglio di sicurezza che «la Libia non può essere considerata un porto sicuro per lo sbarco». Nelle prigioni ufficiali si trovano circa 2.400 stranieri «regolarmente sottoposti – ha aggiunto Williams – a gravi violazioni dei diritti umani”.

Nella “Posizione” dell’Unhcr è sintetizzato l’orrore che non risparmia neanche i più piccoli: “In tutte le strutture di detenzione, le condizioni non soddisfano gli standard internazionali e sono state descritte come ‘orrende” e “crudeli, disumane e degradanti”. Sono stati segnalati decessi durante la detenzione a causa di violenza, suicidio e malattia. Richiedenti asilo, rifugiati e migranti, compresi i bambini, sia maschi che femmine, sono regolarmente sottoposti a tortura e altre forme di maltrattamento, inclusi stupri e altri forme di violenza sessuale”. 

“I governi italiani degli ultimi tre anni sono chiamati in causa direttamente”, rimarca ancora Scavo. Se è vero che “dal 2017 l’Italia e l’Ue forniscono assistenza alla Guardia costiera libica (Lcg) per aumentare la sua capacità di svolgere operazioni di ricerca e soccorso e prevenire partenze irregolari”, va tenuto in conto che “la Lcg è stata coinvolta in violazioni dei diritti umani contro richiedenti asilo, rifugiati e migranti, compreso l’uso di armi da fuoco ed è anche accusata di collusione con le reti di trafficanti”.

“Il rischio di nuove pesanti condanne per Italia e Malta davanti alle corti internazionali, da quella per i Diritti dell’Uomo a Strasburgo fino alla Corte penale dell’Aia, si fa dunque concreto – aggiunge Scavo -.  E’ oramai accertato, infatti, che le motovedette di Tripoli intervengono nella stragrande maggioranza dei casi dopo che i barconi sono stati avvistati da aerei delle forze armate europee e dell’agenzia Ue Frontex. Un coordinamento a distanza, già rivelato un anno fa con documenti audio, che l’Onu di fatto vieta con parole chiare: “Laddove è probabile che il coordinamento o il coinvolgimento di uno Stato in un’operazione di ricerca e soccorso (Sar) determini il respingimento, il Paese interessato deve attenersi agli obblighi sottoscritti, ‘ai sensi del diritto internazionale”.

E perché non ci siano operazioni di giocoleria interpretativa, ai governi è chiesto di “astenersi dal far tornare in Libia le persone soccorse in mare e assicurare lo sbarco tempestivo in un luogo sicuro». L’esatto contrario di quanto sta accadendo.

“Dimostrare che i guardacoste libici siano intervenuti su mandato di Roma o La Valletta da ieri è diventato più difficile. Le autorità italiane hanno ordinato il divieto di volo a Moonbird, l’aereo di Sea Watch. In questi anni la piccola flotta di sorveglianza civile aveva permesso di documentare le operazioni della cosiddetta guardia costiera libica, come quando con immagini ottenute da Avvenire nel 2019 fu possibile riconoscere l’intervento di una delle motovedette al comando del guardacoste–trafficante Bija, i cui uomini erano impegnati nel recuperare il motore di uno dei barconi messi in mare da scafisti in affari con la milizia dello stesso Bija. Altre volte i piloti volontari avevano permesso di scoprire conoscere e raccontare in diretta proprio quei respingimenti che l’Onu condanna”, conclude l’inviato di Avvenire.

Rapporto inquietante

il 27 luglio, l’Agsi ha pubblicato un rapporto in cui ha analizzato l’efficacia degli interventi italiani per migliorare le condizioni all’interno dei centri di detenzione libici arrivando alla conclusione che: “Nei centri nei pressi di Tripoli le ong italiane svolgano un’attività strutturale, che si sostituisce in parte alle responsabilità di gestione quotidiana dei centri che spetterebbe al governo libico. Inoltre, alcuni interventi non sono a beneficio dei detenuti ma della struttura detentiva, preservandone la solidità strutturale e la sua capacità di ospitare, anche in futuro, nuovi prigionieri”. 

Il rapporto si interroga sulla destinazione effettiva dei beni e dei servizi erogati: “L’assenza di personale italiano sul campo e il fatto che i centri siano in gran parte gestiti da milizie indubbiamente ostacolano un controllo effettivo sulla destinazione dei beni acquistati. L’approssimativa rendicontazione da parte di alcune ong delle spese sostenute sembra avvalorare il quadro di scarso o nullo controllo su quanto effettivamente attuato dagli partner libici sul campo. Non può così escludersi che di almeno parte dei fondi abbiano beneficiato i gestori dei centri, ossia quelle stesse milizie che sono talora anche attori del conflitto armato sul territorio libico nonché autori delle già ricordate sevizie ai danni dei detenuti”.

Il giorno dopo la presentazione di questo scottante dossier,  l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati e Mixed Migrant Centre del Danish Refugee Council, pubblicano un  rapporto intitolato “In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muori”, che descrive in che modo la maggior parte delle persone in viaggio lungo queste rotte cada vittima o assista a episodi di inenarrabili brutalità e disumanità per mano di trafficanti, miliziani e, in alcuni casi, perfino di funzionari pubblici.

“Per troppo tempo, gli atroci abusi subiti da rifugiati e migranti lungo queste rotte via terra sono rimasti largamente invisibili”, ha dichiarato in quell’occasione Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. “Questo rapporto documenta omicidi e diffuse violenze della più brutale natura, perpetrati contro persone disperate in fuga da guerre, violenze e persecuzioni.  È necessario che gli Stati della regione mostrino forte leadership e intraprendano azioni concertate, col supporto della comunità internazionale, per porre fine a tali crudeltà, proteggere le vittime e perseguire i criminali responsabili”.

Tra il 2018 e il 2019 sono morte 1750 persone. 

Raccogliere dati accurati inerenti ai decessi che si verificano nel contesto dei flussi irregolari di popolazioni miste controllati dalle reti del traffico e della tratta di essere umani è estremamente difficile, considerato che molti avvengono nell’ombra, lontano dallo sguardo delle autorità ufficiali e dai sistemi formali da esse utilizzati per gestire dati e statistiche. Tuttavia, i risultati del rapporto, basati primariamente sul programma di raccolta dati 4Mi del MMC, e su dati provenienti da fonti aggiuntive, suggeriscono che un minimo di 1.750 persone hanno perso la vita nel corso di questi viaggi nel 2018 e nel 2019. Si tratta di un tasso di almeno 72 decessi al mese, un andamento che rende la rotta una delle più mortali al mondo per rifugiati e migranti. Queste morti si sommano a quelle delle migliaia di persone che negli ultimi anni hanno perso la vita o sono risultate disperse tentando viaggi disperati attraverso il Mediterraneo per approdare in Europa dopo aver raggiunto le coste nordafricane.

 Molti tra quanti tentano la traversata via mare per l’Europa sono intercettati dalla Guarda Costiera libica e ricondotti alle coste libiche. Ad oggi, rifugiati e migranti fatti sbarcare in Libia nel corso del 2020 sono più di 6.200, cifra che suggerisce che il dato finale di quest’anno probabilmente eclisserà quello di 9.035 persone ricondotte nel Paese registrato nel 2019. Spesso sono portati e trattenuti arbitrariamente in centri di detenzione ufficiali, nei quali sono esposti quotidianamente ad abusi e vivono in condizioni raccapriccianti. Altri finiscono in ‘centri non ufficiali’ o depositi controllati dalle reti del traffico e della tratta che li sottopongono a maltrattamenti fisici per estorcere loro pagamenti in denaro.  
E c’è chi insiste a definire la Libia “Porto sicuro”. 

Il trattamento negligente riservato a rifugiati e migranti di cui siamo testimoni lungo queste rotte è inaccettabile”, ha dichiarato Bram Frouws, Responsabile del Mixed Migration Centre.  “I dati raccolti, inoltre, mostrano ancora una volta come la Libia non sia un luogo sicuro presso cui ricondurre le persone. Sebbene questo rapporto potrebbe non essere l’ultimo che documenta tali violazioni, arricchisce il crescente numero di prove che non possono più essere ignorate”.

Ma ad ignorare questa realtà è il Governo italiano. E il Consiglio di Stato.

Native

Articoli correlati