Palestina, l'uomo di Abu Dhabi, Dahlan sfida Abu Mazen

Il dissidente palestinese in esilio Mohammed Dahlan è considerato l'architetto dell'accordo tra Israele e gli Emirati arabi che scatenato tante proteste.

Abu Dhabi, Dahlan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Agosto 2020 - 12.45


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L’uomo di Abu Dhabi sfida Abu Mazen. “Marchiato come ‘un
traditore’ nelle proteste di strada, il dissidente palestinese in
esilio Mohammed Dahlan è definito un architetto del dietro le
quinte dell’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti che ha
scatenato una furia in patria,scrive France24 in un reportage dai
Territori occupati palestinese, rimarcando che Dahlan è il
consigliere di uno degli uomini più potenti del Medio Oriente, il
principe ereditario di Abu Dhabi e leader effettivo degli Emirati
Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al-Nahyan,
altrimenti noto come MBZ. “Ad Abu Dhabi è diventato molto,
molto vicino al sovrano come consigliere economico, uno che
conosce bene Israele”, dice all’AFP. Yaakov Peri, ex capo di
Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano. Ma “coloro
che accusano Dahlan per l’accordo con gli Emirati non stanno
dicendo qualcosa di vero”, aggiunge Peri, anche se l’esule aveva
incontrato “molti israeliani” in visita ad Abu Dhabi prima
dell’accordo. “Siamo sicuri che sia stato complice e sponsor di
questa normalizzazione”, è la ferma opinione di Adnan al-
Dumairi, portavoce dei servizi di sicurezza a Ramallah.
Affondo finale
Ha la fama di duro Mohammed Dahlan. Cinquantanove anni, ha
guidato la lotta di Fatah contro Hamas a Gaza e oggi si propone
come un leader energico capace di cambiare davvero le cose. Ma
è anche stato esiliato dalla Cisgiordania con accuse di corruzione
quando ha iniziato a opporsi politicamente ad Abu Mazen. Per
qualsiasi altro questa avrebbe potuto essere l’inizio della fine
politica, ma per Dahlan è invece stato un nuovo inizio: rifugiatosi
negli Emirati Arabi Uniti è diventato consigliere del sovrano
locale. Come inviato degli Emirati negli ultimi anni ha girato
l’Europa e il Medio Oriente, come diplomatico, contribuendo, tra
le altre cose, a mediare gli accordi diplomatici tra Egitto ed
Etiopia circa il progetto della Renaissance Dam. In passato ha
dovuto subire l’emarginazione sulla base di accuse di corruzione;
accuse rivoltegli quando Dahlan annunciò di voler correre contro
Abu Mazen. Una coincidenza che alla fine ha fatto il gioco

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dell’emarginato, che l’opinione pubblica palestinese ha visto a
quel punto sotto una luce diversa: vale a dire come l’uomo che
aveva osato sfidare una nomenclatura inamovibile, sempre più
lontana dai problemi, drammatici, della popolazione. Insomma,
come i leader “anti-casta”.
L’avanzata di Dahlan va inquadrata all’interno dello scontro che
segna l’intero scacchiere mediorientale: quello tra sunniti e sciiti.
Il ritorno in Palestina dell’Egitto, il sostegno di Arabia Saudita,
Qatar, EAU e ora anche della Giordania, a Dahlan sono anche
l’investimento su un leader che sta cercando di riportare Hamas
nell’alveo sunnita, strappandolo dalle “braccia” dell’Iran sciita e
di Hezbollah libanese. Nel gennaio 2017, nel pieno di una
sanguinosa guerra civile a Gaza, Dahlan concesse una
interessante intervista ad Haaretz, il quotidiano progressista
israeliano. Il presidente in pectore palestinese aveva sfidato
Hamas intervenendo a una manifestazione di Fatah nella Striscia,
la prima dopo tanti anni. All’intervistatore che gli chiedeva
perchè fosse il bersaglio dei radicali islamici, Dahlan rispose
così, in terza persona: “Sono sicuri che se uccidono Mohammed
Dahlan, Fatah scomparirebbe, ma non capiscono che questo
(Fatah) è un movimento popolare”. E poi l’avvertimento, una
sorta di pizzino palestinese: “Loro (i capi di Hamas, ndr) sanno
che io li conosco personalmente meglio di chiunque altro, da
quando Israele ha cercato di collaborare con loro contro Fatah,
dagli anni in cui Mahmoud al-Zahar (il ministro degli Esteri di
Hamas, ndr) era in contatto con Yitzhak Rabin ma hanno
commesso una infinità di errori, indebolendo la causa
palestinese, e adesso pensano di risalire la china minacciando di
morte fratelli palestinesi solo perché aderiscono a Fatah.
Dall’avvertimento all’apertura. Nell’intervista Dahlan non chiude
le porte ad un riavvicinamento, poi messo in atto.
La soluzione – rimarcò allora – è quella democratica: libere
elezioni, alla fine dobbiamo andare avanti assieme, ma per
procedere in questa direzione dobbiamo prima rafforzare Fatah
per dimostrare ad Hamas che Gaza non è loro, Gaza non è Tora

Bora. In passato abbiamo commesso degli errori, ma abbiamo
imparato la lezione, e non li ripeteremo”.
Dahlan è quello che il noto editorialista di Yedioth Ahronoth, – il
più diffuso quotidiano d’Israele – Alex Fishman, ha definito
“l’asso nella manica della coalizione filo-occidentale formata da
Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Israele.
La regia sunnita manovra dietro le quinte: a rivelare il piano pro-
Dahlan a Middle East Eye sono state fonti giordane e palestinesi.
Secondo tali indiscrezioni, Abu Dhabi avrebbe già informato
Israele dell’intenzione di sostituire Abu Mazen con Dahlan e la
questione sarebbe in via di definizione anche con l’Arabia
Saudita. Gli obiettivi del progettato cambio al vertice sarebbero
unificare e rafforzare Fatah in vista delle elezioni che Abu Mazen
non può più congelare all’infinito; indebolire Hamas; assumere il
controllo dell’Olp e dell’Anp; arrivare ad un accordo di pace con
Israele con il sostegno dei regimi arabi sunniti.
Questo nel lungo periodo; nel breve l’obiettivo di Dahlan è
soprattutto il rilancio economico e il miglioramento delle
condizioni di vita dei Palestinesi. Condizioni sempre più
degradate, soprattutto nella Striscia: il tasso di disoccupazione di
Gaza è il più alto del mondo, secondo un rapporto della Banca
mondiale. L’economia nel territorio palestinese, “strangolata”
dalla guerra dell’estate 2014 e dall’embargo israeliano, entrato
nel suo tredicesimo anno, è sull’orlo del collasso. Il 43% degli
1,9 milioni dei residenti della Striscia (che vivono in 160
chilometri quadrati) sono disoccupati. Tra i giovani il 60% non
ha un lavoro. Il prodotto interno lordo pro capite nella Striscia di
Gaza è calato di oltre un terzo negli ultimi vent’anni. Negli ultimi
due anni l’economia si è ridotta di almeno mezzo miliardo di
dollari, mentre il tasso di povertà ha raggiunto il 42% nonostante
l’80% della popolazione riceva aiuti umanitari.
Per far fronte a questa situazione catastrofica, sono vitali i
finanziamenti delle petromonarchie del Golfo. E i petrodollari
sono vincolati da una successione “pilotata” ai vertici dell’Anp:
le chiavi del forziere sono nelle mani di Mohammed Dahlan.

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