Libia e Mediterraneo orientale: uno-due del Sultano Erdogan, l'Italia tappeto
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Libia e Mediterraneo orientale: uno-due del Sultano Erdogan, l'Italia tappeto

Il porto di al-Khums verrà trasformato in una base navale turca con una concessione di 99 anni. E l'aviazione militare turca potrà utilizzare la base aerea di al-Watya nella Tripolitania Occidentale

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

26 Agosto 2020 - 16.34


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Segnatevi in rosso questa data. Perché è il giorno in cui il Sultano ci ha cacciati dalla Libia. Il giorno dell’umiliazione: il 17 agosto 2020 a Tripoli. Quel giorno, racconta Andrea Mucedola per difesaonline.it, “i responsabili della difesa turco Halusi Akar e quello del Qatar Khalid al Attyha hanno firmato un accordo con il premier di Tripoli Fayez al- Sarraj grazie al quale parte del porto di al-Khums verrà trasformato in una base navale turca con una concessione di 99 anni. In base allo stesso accordo l’aviazione militare turca potrà utilizzare la base aerea di al-Watya nella Tripolitania Occidentale. Il Qatar, invece, gestirà la ricostruzione e la riabilitazione di tutti i centri di sicurezza e di Tripoli distrutte o danneggiate durante l’ultima guerra inclusa la riorganizzazione dell’esercito. Naturalmente in simbiosi con le forze turche.

Interessante una voce non confermata che centri di addestramento saranno anche collocati in Qatar dove, a Doha, sarà realizzato un quartier generale per i militanti del Gna. Stando alle fonti della tv libica, sarebbe stato altresì concordato di istituire un centro di coordinamento tripartito (qatarino, turco e libico) che si riunirà mensilmente a Misurata al livello di capi di Stato maggiore”.

Una sconfitta politica italiana

“Con la firma di questo accordo – rimarca ancora l’analista militare, profondo conoscitore della realtà libica – la Turchia ha di fatto messo a segno il suo obbiettivo di allargamento nel Mediterraneo al fine di garantirsi lo sfruttamento un’area nord africana e marittima di grande importanza. La Libia è infatti un Paese ricco di riserve di petrolio e gas che confina con importanti rotte commerciali del Mediterraneo. Un Paese di importanza strategica per il Mediterraneo. Dopo oltre cento anni, l’accordo di Tripoli del 17 agosto 2020 ha di fatto ritrasformato la Tripolitania in un protettorato sotto il controllo della Turchia e dei suoi alleati, vanificando i deboli sforzi europei di creare zone neutrali a Sirte e nell’aeroporto di Jufra, occupati dalle forze del generale Khalifa Haftar e dai suoi alleati. Questo evento storico è la conseguenza della attiva politica di Ankara, presente nel territorio libico già ai tempi del dittatore Gheddafi. La Turchia negli ultimi mesi ha fornito sostegno al Governo di accordo nazionale (Gna) sia attraverso accordi di cooperazione (con un volume degli investimenti stimato in diversi miliardi di dollari Usa), sia militare per opporsi all’avanzata dell’esercito nazionale libico di Khalifa Haftar che gode del sostegno di diversi Paesi politicamente non vicini alla Turchia. In quel tormentato Paese stiamo assistendo alla lotta tra due fazioni, mirata ad accaparrarsi le ingenti risorse che, sotto Moammar Gheddafi, avevano forse trovato una possibilità di un più equo sfruttamento. Un bottino troppo ricco che di sicuro faceva gola ad alcuni Paesi che, caso strano, dopo aver contribuito alla caduta del dittatore e portato il Paese nel caos attuale si ritrovano ora schierati nei due blocchi. C’è chi vede anche l’esistenza di una motivazione politica tra i due schieramenti in quanto la Turchia, che sostiene il Gna, ha da sempre appoggiato gruppi libici vicini ai Fratelli musulmani durante la guerra civile che portò alla caduta di Gheddafi. Dall’altra parte il sostegno a Khalifa Haftar proviene invece dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Egitto che considerano i Fratelli Musulmani una forte minaccia per la loro stabilità. Un pasticciaccio che vede dalla parte di Haftar anche la Russia che, dopo essersi assestata militarmente in Siria, può ora contare su una potente flotta mediterranea supportata da una base navale efficiente, ed una sempre presente, anche se spesso ambigua nei suoi comportamenti, Francia da sempre interessata ai pozzi petroliferi.”.

L’Italia? Non pervenuta.

L’espansionismo neo-ottomano

E tutto questo mentre il Mediterraneo orientale continua ad essere teatro di tensioni tra blocchi contrapposti che vedono da un lato la Turchia, potenza regionale che da tempo cerca di espandere la sua influenza anche militare nella regione, e la Grecia che in questi anni ha contestato fortemente le mire espansionistiche di Ankara portando dalla sua parte diversi Stati arabi tra cui Egitto e Emirati Arabi Uniti. In queste ore sono in corso ben due esercitazioni militari che insistono nell’area: le prime hanno preso il via ieri e vedono impegnate le forze aeree di Grecia ed Emirati, mentre le seconde, denominate “Eunomia” coinvolgono le Marine militari di Grecia, Cipro, Francia e Italia. Le manovre militari si concluderanno il 28 agosto e seguono le esercitazioni condotte da Grecia e Francia dello scorso 13 agosto e quelle tra le Marine militari greca e statunitense dello scorso 27 luglio.

Alle esercitazioni “Eunomia” saranno impiegati tra i vari assetti il cacciatorpediniere lanciamissili della Marina militare italiana Durand de la Penne, la fregata francese Lafayette, che si unirà all’esercitazione nella fase finale nella giornata di venerdì, e assetti dell’aviazione tra cui tre Rafale francesi e tre F-16 greci, atterrati nelle scorse ore nella base militare cipriota Andreas Papandreou a Paphos. 

L’Italia in mare

Le esercitazioni “Eunomia” avvengono nel pieno delle tensioni con la Turchia per il controllo delle acque del Mediterraneo orientale ricche di idrocarburi che hanno portato lo scorso 12 agosto ad una collisione tra la fregata Limnos della Marina militare greca e la Tgc Kemalreis della Marina militare turca avvenuta a seguito di uno stallo navale dovuto alla decisione di Ankara di avviare l’esplorazione petrolifera nelle acque contese con la Grecia. L’organizzazione di manovre militari ormai a cadenza periodica sta rendendo la regione un nuovo teatro di confronto che va oltre i meri interessi di politica energetica. Nel confronto tra Grecia e Turchia giocano una partita importante anche Israele, Egitto ed Emirati, che nel Mediterraneo formano un ormai consolidato asse anti-turco. Proprio Abu Dhabi ha condotto ieri una serie di attività addestrative a livello di aeronautica militare con la Grecia inviando 4 caccia F-16 atterrati il 23 agosto presso la base di Souda sul’Isola di Creta. 
L’ingresso degli Emirati al fianco della Grecia nel confronto con la Turchia giunge dopo l’annuncio della normalizzazione delle relazioni tra Abu Dhabi e lo Stato di Israele, fortemente criticato dalla Turchia che ha minacciato di tagliare i rapporti con il regno del Golfo. Israele mantiene un’ampia cooperazione con la Grecia e ha partecipato a diverse esercitazioni militari di forze aeree, marittime e terrestri con Atene mediterraneo, soprattutto a seguito del declassamento dei rapporti con la Turchia. A maggio il ministero della Difesa israeliano ha firmato un accordo con la Grecia per il noleggio di diversi droni Heron per la difesa delle frontiere. Anche i cantieri navali greci Onex Neorion e Israel Shipyards hanno firmato un accordo di cooperazione per la costruzione di corvette di nuova generazione per la Marina greca. 
Il Sultano di Ankara non se ne cura e continua a mantenere alti i toni dello scontro e oggi ha dichiarato che la Turchia “si prenderà ciò che si merita” nell’Egeo, nel Mar Nero e nel Mediterraneo. Erdogan ha espresso le sue dichiarazioni durante la commemorazione della vittoria militare dell’XI secolo dei turchi selgiuchidi sull’impero bizantino a Malazgirt, una ricorrenza particolarmente simbolica per la Turchia sempre di più sfruttata dalla leadership di Ankara per lanciare messaggi sia alla popolazione che ai Paesi della regione, sia europei che arabi. Secondo quanto riporta il quotidiano Hurriyet il presidente turco ha anche invitato le controparti di Ankara, in chiaro riferimento alla Grecia, ad evitare errori che potrebbero portare alla loro distruzione. “Non comprometteremo ciò che è nostro. Siamo determinati a fare tutto ciò che è necessario”, ha affermato Erdogan sottolineando che la Turchia “non farà alcuna concessione” nel Mediterraneo orientale. 

Annota in una interessante intervista al Corriere del Ticino, Giampaolo Massolo,  alle spalle una brillante carriera diplomatica e ora presidente dell’Ispi  (Istituto per gli studi di politica internazionale) e di Fincantieri S.p.A: “Il conflitto intralibico – rimarca l’ambasciatore Massolo – ha anche una forte valenza regionale. Vi sono due schieramenti che si oppongono ormai in tutta l’area del Mediterraneo: dalla guerra in Siria, al Libano, al Mediterraneo orientale con la cosiddetta lotta delle trivelle (tra Turchia, Grecia e Cipro ndr). Da un lato abbiamo Egitto, Emirati ed Arabia Saudita, dall’altro Turchia e Qatar. Vi è poi l’aspetto globale che include Stati Uniti e Russia. Mosca è molto veloce a riempire i vuoti che l’Occidente le lascia, mentre Washington solo ora sembra riscoprire l’importanza della Libia e del Mediterraneo orientale come crisi sistemiche. Solo una diplomazia molto attiva che coinvolga chi influisce da fuori sul terreno, ossia quel gruppo di Paesi che ho appena nominato, potrebbe, sotto la pressione degli Stati Uniti, creare un meccanismo internazionale in grado di gestire una crisi che rischia di andare fuori controllo. L’UE avrebbe qui un ruolo rilevante. Penso in particolare all’Italia e alla Francia, i Paesi con più interessi in Libia, e alla Germania che è titolare del processo di Berlino (avviato nel gennaio del 2020 con lo scopo di raggiungere un cessate il fuoco duraturo in Libia ndr). Se questi tre Paesi procedessero con una forte intesa tra loro, insieme agli Stati Uniti, potrebbero essere il motore che riporta l’Occidente nella gestione della crisi libica e di quelle mediterranee, per cercare di creare quel meccanismo internazionale di cui parlavo”.

Un meccanismo tutto da realizzare e che, comunque sia, deve fare i conti con il “Putin del Bosforo”: Recep Tayyp Erdogan.

 

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