Libano, il governo in fuga, mentre torna ad aleggiare lo spettro di una nuova guerra civile

L'ondata di dimissioni parlamentari e ministeriali scatenatasi sabato dopo le micidiali esplosioni nel porto di Beirut il 4 agosto è proseguita con le dimissioni della ministra della Giustizia, Marie-Claude Najm

Proteste in Libano
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Agosto 2020 - 17.04


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La collera non si placa. La rivoluzione non si arresta. E il Governo è spazzato via.  L’ondata di dimissioni parlamentari e ministeriali scatenatasi sabato dopo le micidiali esplosioni nel porto di Beirut il 4 agosto è proseguita oggi con le dimissioni della ministra della Giustizia, Marie-Claude Najm, e quella del deputato di Baabda Henri Hélou.

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La deputata Paula Yacoubian, che sabato aveva annunciato le sue dimissioni, l’ha consegnate oggi per iscritto alla Camera. Ancor prima della riunione di gabinetto delle 15, inizialmente prevista al palazzo presidenziale di Baabda ma che si terrà infine al Grand Seraglio per fare il punto della situazione, il ministro della Giustizia ha consegnato la lettera di dimissioni il giorno dopo quelle del ministro dell’Informazione Manal Abdel Samad e del ministro dell’Ambiente e dello Sviluppo amministrativo Damien Kattar. Anche il ministro dell’Economia Raoul Nehme aveva espresso la sua volontà di dimettersi, ma non l’ha presentata in attesa del Consiglio dei ministri dei ministri iniziato nel primo pomeriggio.

Governo dimissionario

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Ma per il ministro degli Interni, Mohammad Fahmi, dimettersi equivarrebbe a “fuggire dalle sue responsabilità”. “Inizialmente ero favorevole alle dimissioni del governo subito dopo l’esplosione perché mi sembrava logico. Ma oggi, dare le dimissioni equivarrebbe a sottrarsi alle proprie responsabilità sotto pressione. È vergognoso scappare dalle proprie responsabilità”, ha detto il ministro alla rete televisiva Lbci .

Il presidente del Parlamento, Nabih Berri, ha dichiarato che il governo dovrebbe rimanere in carica fino a giovedì, così che possa essere sfiduciato direttamente dall’Assemblea, riporta Mtv spiegando che sono in corso colloqui tra Berri e Hezbollah in merito. Un’ipotesi che servirebbe a fare formalmente ricadere su questo esecutivo la responsabilità del disastro nella capitale.

Ma la crisi politica non aspetta giovedì.I l primo ministro Hassane Diab si rivolgerà popolo libanese oggi alle 19.30, presumibilmente per annunciare le dimissioni del suo governo, sei giorni dopo le esplosioni che hanno devastato il porto di Beirut e i suoi dintorni. Hamad Hassan mentre lasciava il Grand Serail dove il governo si riuniva.

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Il primo ministro si recherà a Palazzo Baabda per presentare formalmente le dimissioni del suo gabinetto al presidente Michel Aoun, che dovrebbe accettarle. In attesa della formazione di un nuovo governo, l’esecutivo di Hassane Diab sarà incaricato di gestire gli affari correnti. Secondo il corrispondente  a Baabda del L’Orient-Le Jour, il giornale francofono di Beirut,  , la data delle consultazioni parlamentari vincolanti non dovrebbe essere fissata oggi dalla presidenza fino al raggiungimento di un accordo sul nome del prossimo primo ministro

Dopo che sabato, al grido di ‘rivoluzione’, migliaia di persone si erano riversate nelle strade di Beirut, ieri ci sono state nuove manifestazioni nel centro della città: è stato forzato un posto di blocco vicino al Parlamento e ci sono stati nuovi disordini, persino un principio di incendio.

Anche il patriarca maronita, Bechara Boutros al-Rahi, si è unito al coro di chi preme perché l’esecutivo si dimetta dopo quello che -ha detto- potrebbe definirsi “un crimine contro l’umanità'”. “Non basta che un deputato lasci, o un ministro si dimetta”, ha detto al-Rahi nell’omelia domenicale. “E’ necessario, per rispetto dei sentimenti dei libanesi e per l’immensa responsabilità’ richiesta, che l’intero governo si dimetta, perché’ incapace di far fare passi avanti al Paese”. E ha chiesto nuove elezioni, come del resto invoca il movimento di protesta che fa sentire la sua voce almeno dall’ottobre scorso, perché si faccia da parte una classe politica considerata inetta e incapace.

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Hezbollah sotto attacco

Il problema è che grazie al sistema elettorale basato su quote settarie, i capi delle comunità sono capaci di influenzare i loro elettori. Sciiti, sunniti, cristiani, drusi e tutte le 17 confessioni riconosciute nella Costituzione hanno poca libertà di manovra: di fatto sono costretti ad eleggere gli stessi capi-famiglia che negli anni sono diventati capi-mafia, impegnati nel depredare il Libano delle sue ricchezze. In tutta la parte del Paese che si oppone al ruolo crescete di Hezbollah, cresce l’ostilità per il ruolo crescente che stanno conquistando gli sciiti guidati da Hassan Nasrallah, legati all’Iran. Il fatto che le 2750 tonnellate di nitrato di ammonio depositate al porto fossero in qualche modo sotto il controllo della sicurezza di Hezbollah fa circolare in Libano mille supposizioni sul ruolo dell’ala militare del “partito di Allah” nel custodire quell’enorme deposito di esplosivo. O come minimo di non aver gestito correttamente l’affare assieme agli alleati cristiano-maroniti del partito di Aoun. Lo spettro politico libanese quindi sta tornando a dividersi pericolosamente fra i partiti collegati all’Iran (Hezbollah e il movimento del cristiano Aoun) e quelli legati all’Occidente, in particolare a Francia e Stati Uniti, come i sunniti di Saad Hariri e i cristiani di Geagea e Gemayel. Con la possibilità che ripartano violenti i contrasti settari che non sono mai stati scongiurati.

Le indagini

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Intanto, la commissione d’inchiesta creata dopo il disastro nel porto di Beirut ha concluso il suo primo rapporto e lo ha consegnato al governo libanese, scrive al-Joumhouria. E vicino ai palazzi delle istituzioni sono scoppiati nuovi scontri tra manifestanti e forze di polizia: decine di giovani con il volto coperto hanno iniziato a scagliare sassi contro la polizia in tenuta antisommossa nella zona del Parlamento, con gli agenti che hanno risposto con il lancio di lacrimogeni.

Con la crisi di governo in corso, per le strade della capitale si continua a scavare per cercare di recuperare i corpi delle persone che risultano ancora disperse. Oggi i soccorritori hanno trovato altri cinque corpi senza vita, ha fatto sapere l’esercito libanese, impegnato nelle ricerche insieme alla Protezione civile, ai Vigili del Fuoco e alle squadre inviate dalla Russia e dalla Francia.

Il bilancio di 220 uccisi e circa 7mila feriti delle esplosioni del 4 agosto è finora il più grave verificatosi a Beirut da quasi 40 anni.   Il 23 ottobre del 1983 un duplice attentato suicida, rivendicato dall’organizzazione Jihad islamica (da più parti identificato con l’allora nascente Hezbollah), uccise 346 persone: in larga parte soldati statunitensi (241) e militari francesi (58) presenti nel paese nel quadro della missione internazionale nel contesto della guerra civile libanese.

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Una guerra che potrebbe riesplodere. Uno spettro che torna ad aggirarsi in un Libano stremato e sotto shock per una tragedia appena consumatasi, e impaurito per ciò che potrebbe accadere.

L’Italia e l’allarme petrolifero

“Con il porto di Beirut devastato, gran parte dell’export italiano derivato dalla raffinazione con destinazione Libano sarà compromesso con forti perdite” dichiara il presidente di FederPetroli Italia – Michele Marsiglia. “Diverse raffinerie italiane -continua – fanno partire petroliere con destinazione Beirut. Il Libano per un’interessante fetta di mercato ha sempre rappresentato un mercato proficuo per l’Oil & Gas italiano. Parliamo non solo di Raffinazione ma siamo in gara per diversi asset nell’OffShore a largo di Beirut. Con la chiusura del porto lo scalo di Tripoli più a nord non sarà una sostituzione ottimale per lo scarico e la logistica dei prodotti”.

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In merito ad una possibile Inchiesta Internazionale per accertare le cause dell’accaduto il presidente di FederPetroli Italia si dice contrario: “Riteniamo che la verità la debbano trovare i libanesi e non paesi esterni, con l’intrusione di altri rischiamo di far diventare il Libano una seconda Libia con la Turchia che è già pronta a tendere la mano, come dimostrato con la disponibilità del porto di Mersin”.

 

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