Beirut, l'Italia non pervenuta. Ma esiste ancora un ministro degli Esteri?
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Beirut, l'Italia non pervenuta. Ma esiste ancora un ministro degli Esteri?

Luigi Di Maio, si è perso traccia. Ma “Giggino” è impegnato nella caccia ai 5 parlamentari (5 l'hanno chiesto e 3 lo hanno intascato) con il bonus partite Iva.

Di Maio
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Agosto 2020 - 15.03


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Libano, non pervenuto. Una “comparsata” in video del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, alla conferenza dei donatori, voluta dal presidente francese Emmanuel Macron, e poi il nulla. Il vuoto assoluto. Del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si è perso traccia.

Tranquilli: “Giggino” sta bene, non è in vacanza, ed è impegnato, come testimonia la raffica di Twitter e le dichiarazioni a getto continuo, nella caccia ai 5 parlamentari (5 l’hanno chiesto e 3 lo hanno intascato) con il bonus partite Iva.

Il Di Maio furioso proclama: “Via i furbetti”. Impegnato nella campagna interna, “Giggino” non ha tempo per occuparsi di un Paese che sta implodendo, un Paese, il Libano, che sul piano geopolitico e commerciale (nel Mediterraneo siamo il primo partner europeo quanto a scambi commerciali) e, least but non lest, sono stazionati oltre 1000 caschi blu italiani, parte di una missione, Unifil II, che pure è a guida italiana. Certo, un ministro degli Esteri decente dovrebbe occuparsi di questo, magari volare a Beirut (non è poi così lontana),i nterloquire anche solo telefonicamente, con il suo omologo libanese, magari coordinarsi con i suoi colleghi europei.

Ma forse è pretendere troppo da uno che sembra capitato per caso alla Farnesina. Per essere obiettivi e non parziali nell’informare, va anche detto che il nostro ministro degli Esteri cinque minuti per fare una dichiarazioncella sul disastro libanese l’ha trovata: “Quello che è accaduto in Libano è una tragedia, per noi è una seconda casa. Aiutare quel paese significa stabilizzarlo, e significa evitare i flussi migratori. Abbiamo inviato team specializzati, 8 tonnellate di aiuti sanitari ed nostri militari che erano lì per la missione Unifil hanno messo a disposizione anche le loro competenze come psicologi”, annuncia il capo della diplomazia italiana. 

La “seconda casa” brucia e noi mandiamo 8 tonnellate di aiuti sanitari e facciamo dei nostri soldati dei provetti psicologici. Il tutto condito dalla solita melassa di ovvietà su “aiutare quel paese significa stabilizzarlo. In verità, Di Maio poi aggiunge un’altra considerazione, che racchiude l’unica vera preoccupazione italiana: “stabilizzarlo (il Libano) vuol dire evitare i flussi migratori”. Ecco l’ossessione che risorge: dei lager libici, della Tunisia alle prese con una drammatica crisi sociale ed economica, di un Libano in fiamme, al prode di Maio, ma non solo a lui, interessa una cosa sola: evitare una “invasione” di disperati sulle italiche coste.

Ma il tono sarcastico finisce qui. Perché la latitanza italiana nelle drammatiche vicende libanesi, è qualcosa di ingiustificato, ingiustificabile, pericoloso. A una settimana, una settimana, non un giorno, dall’esplosione del porto di Beirut, dopo che sono iniziate le più dure proteste di piazza nella vita del Libano democratico, a parte la partecipazione di Conte alla video conferenza di Macron, l’Italia non esiste. Siamo costretti a ripeterci: L’Italia del Conte II non conta, sorry per il gioco di parole, perché non ha uno straccio di visione strategica per e sul Mediterraneo, perché in politica estera il fattore-tempo è decisivo, e noi, anzi loro, sono puntualmente in ritardo. Emblematica è la giornata di ieri a Beirut.

In una città ferita, in ginocchio, segnata dal dolore ma anche dalla rabbia, esplosa in questi giorni, contro un governo di corrotti, incapaci, che ha ridotto il Libano alla bancarotta e ora annaspa miserabilmente nella ricerca dei responsabili della tremenda esplosione nel porto di Beirut, che ha causato almeno 157 morti e oltre 5mila feriti (cifre ufficiali, sicuramente in difetto, e di tanto), in questa città in macerie, si precipita, neanche 24 ore  dopo la devastante esplosione di martedì 4 agosto, il presidente francese, Emmanuel Macron. Non si venga a parlare della storica influenza, coloniale, che la Francia ha sempre avuto in Libano. Questa è una pietosa giustificazione per non ammettere la “Caporetto libanese” dell’Italia.

Ossessionati dai migranti, l’unica preoccupazione che attanaglia i nostri governanti, e una opposizione sempre più becera, è che i libanesi non diventino come i tunisini ingrossando le fila degli “invasori” del Belpaese. Eppure non ci vorrebbe un eccesso di coraggio e di acume politico, perché il governo italiano, di cui fanno parte forze che si dicono progressiste e di sinistra, mettessero in atto i suggerimenti di quel mondo solidale che nel Mediterraneo e in Libano ha operato e continua ad operare soprattutto a sostegno dei più indifesi tra gli indifesi: il milione e mezzo di rifugiati siriani. Saper ascoltare è un bene, e dovrebbe essere una pratica costante per chi ha importanti responsabilità politiche. Sembra una ovvietà, ma nell’Italia di oggi, è una disarmante constatazione.

C’è chi ha scritto che Macron, prima recandosi a Beirut e successivamente convocando la conferenza dei donatori, abbiam “commissariato” “Forse è troppo, di certo l’inquilino dell’Eliseo ha guadagno il centro della scena, non solo mediatica. E l’ha fatto a scapito dell’Italia. L’assenza a Beirut del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha l’acre sapore della rinuncia dell’Italia a giocare un ruolo importante in un momento drammatico nella storia del Libano e del Medio Oriente. Non c’eravamo fisicamente, perché non ci siamo politicamente. E a ricordare che esistiamo, sono i nostri caschi blu, lasciati soli a rappresentare l’Italia che non abbandona il campo. Un campo minato, ma cruciale. Un Mediterraneo destabilizzato, dalla Libia al Libano, dalla Tunisia all’Iraq, dallo Yemen alla Siria, non può non provocare ricadute pesantissime per l’Europa, e in essa soprattutto per i Paesi euromediterranei. La Francia l’ha capito. L’Italia, o almeno chi la rappresenta, no.

Un tempo non lontano, quello della tanto vituperata, ma ora da più parti rimpianta, prima Repubblica, l’Italia aveva una politica estera nella quale, oltre la fedeltà atlantica, era forte la vocazione mediterranea. Nel Mediterraneo c’eravamo, eravamo riconosciuti perché attivi, curavamo i nostri interessi geopolitici ed energetici, intrecciando rapporti e stringendo alleanze, provavamo a essere soggetto stabilizzatore nel Vicino Oriente, cercavamo di essere un “ponte” di dialogo fra israeliani e palestinesi. Non sempre ci riusciva, ma quanto meno provavamo. Ora, neanche questo. Che brutta fine.

 

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