Beirut, il giorno della collera e della rivolta popolare: "Via i criminali, ora o mai più"
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Beirut, il giorno della collera e della rivolta popolare: "Via i criminali, ora o mai più"

Una immane tragedia che ha provocato 158 morti, oltre 6mila feriti 100 dei quali dei quali in condizioni critiche, 21 i dispersi, e 300mila senza tetto. E per tanti sono numeri sottostimati

Rabbia contro il governo a Beirut
Rabbia contro il governo a Beirut
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

8 Agosto 2020 - 16.51


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Ragione e sentimento. Una miscela esplosiva che può far saltare il banco della corruzione in Libano.  E’ una rabbia lucida, determinata, quella che porta in piazza a Beirut decine di miglia di persone, mosse da una rivendicazione di verità e giustizia per le vittime dell’esplosione nel porto della capitale.

Una immane tragedia che ha provocato, stando al bilancio ufficiale, che molte fonti indipendenti sostengono al di sotto della realtà, 158 morti, tra cui 21 non ancora identificati, oltre 6mila feriti , 100  dei quali in condizioni critiche, 21 i dispersi,  300mila senza tetto. A dar conto dello “spirito di Beirut,è Fifi Abou Dib, in un articolo per L’Orient-Le Jour (il giornale francofono di Beirut), meritoriamente tradotto e pubblicato da Internazionale: “ Non parlateci più di ‘coraggio’, parlateci di ‘rabbia’!”. Queste sono le parole ammirevoli pronunciate il 5 agosto da Josyane Boulos, attrice e attivista libanese. Il suo messaggio va confrontato con quello del ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che ha espresso il sostegno del suo paese al resiliente popolo del Libano. Sopporta docilmente colpe non sue, il popolo resiliente. E allora, una volta per tutte, dobbiamo dire no a questa resilienza letale in cui prosperano i nostri governanti, che si affidano alla nostra capacità di rialzarci in piedi ogni volta che la loro slealtà, la loro stupidità e la loro avventatezza ci spingono nel baratro.  Sotto un rullo compressore che non ci lascia tregua da quando siamo venuti al mondo, in questo paese dalle infinite promesse e miserie, abbiamo imparato a rialzare la testa, a rimetterci in piedi, a ricostruire quello che è stato distrutto, a curare chi è stato ferito, a seppellire chi è morto, e a riprendere la vita da dove si è fermata.

“E senza dire una parola, metterti a ricostruire”, dice la famosa poesia di Rudyard Kipling nel riadattamento di André Maurois che i genitori appendono da anni nelle stanze dei bambini, come se fosse una fatalità, come se bisognasse abituarli fin dalla culla a questo gioco di scale e serpenti, a questi sfiancanti nuovi inizi che impediscono di avanzare. “Sarai un libanese, figlio mio”, avrebbe dovuto scrivere l’autore del Libro della giungla. Come si fa allora- prosegue il giornalista e scrittore libanese –  dopo che da due giorni nelle strade risuona il frastuono metallico così tipico dell’indomani delle catastrofi, a non pensare che questa è la goccia che fa traboccare il vaso, che ci rende troppo stanchi per seppellire, curare, o ricostruire? Per la crisi economica c’eravamo organizzati, facendo del nostro meglio perché in nessuna famiglia mancasse il cibo. Per la pandemia c’eravamo adattati, con mascherine, igiene, distanziamento. Ma che, oltre a tutto il resto, un’esplosione distrugga un’area enorme nel cuore di Beirut, gettando nel lutto il paese, che si scopra che la cosa è frutto di negligenza, di favoritismi, di traffici, di abusi di potere o delle tre cose insieme, e che con totale impudenza i nostri “responsabili” dicano di voler trovare a tutti i costi i responsabili, è più di quanto possiamo sopportare. Non possiamo sopportare che il presidente della repubblica creda di consolare le famiglie definendo “martiri” le vittime, ignorando che questa parola, nella sua bocca, suona come un insulto. Martiri di cosa? Vorremmo proprio saperlo, quando l’unica cosa che sembra contare è la sua ossessione di regnare, di trasmettere la carica per via ereditaria, disprezzando le speranze di un popolo che, suo malgrado, è costretto a servire i piani di paesi stranieri. Sono morti, i nostri morti, signor presidente. E di una morte orribile. Nessuna promessa di paradiso o risarcimento divino ci consolerà per questo dolore”.

Lo spirito di Beirut

E’ questo lo “spirito di Beirut”. Uno spirito di rivolta che mette in crisi il tribalismo etnico-confessionale e riscrive il vocabolario politico del Paese dei Cedri. Nella piazza riecheggia diverse volte un coro diffusosi durante tutte le primavere arabe: “Al shab yurid isqat al nizam, “il popolo vuole la caduta del sistema”. Il popolo, non una delle sue comunità etnico-confessionali. Oggi è tutto l’establishment ad essere sotto accusa, e lo si vede dalla diffusione del coro “Killon yanii Killon” (“tutti significa tutti”). Come ha scritto L’Orient le Jour, il giornale francofono di Beirut, al contrario di trovare la raison d’être nell’identitarismo etnico settario, l’onda di proteste libanesi sembra trovare la propria spinta nella riscoperta di un’unità fra libanesi finalmente trascendente la setta d’appartenenza di ognuno. Ed è questo spirito indomito che è vissuto oggi pomeriggio una manifestazione di massa voluta per chiedere “Giustizia per le vittime, vendetta contro il regime”. “  “L’idea di una cerimonia funebre di massa non si può realizzare a causa di problemi logistici ma ci sarà una grande marcia di protesta contro la classe dirigente”, hanno dichiarato gli organizzatori. “La marcia sarà come un gigantesco funerale e chiediamo a tutti i partecipanti di vestire di nero”, afferma Lina Boubis, una dei promotori.

“E’ stata la negligenza del governo libanese a causare questa tragedia”, le fatto eco Wissam Harake, un altro degli organizzatori. “Oggi è la prima manifestazione dall’esplosione, un’esplosione in cui ognuno di noi sarebbe potuto morire”, ha detto ad Afp un’attivista Hayat Nazer. “Si tratta del più grande avvertimento per ciascuno, non abbiamo più niente da perdere”. Issam Mouawad, residente ad Ashrafieh, uno dei quartieri investiti dall’esplosione : “Non ci è rimasto nulla – dice –  La mia casa è stata distrutta dall’esplosione di martedì, le case dei miei genitori e dei miei fratelli sono state distrutte, così come i miei uffici. Un grande cambiamento deve avvenire. Se non succede oggi, non succederà mai”.

Maya, una donna libanese trentenne: “Se la gente continua a rimanere in silenzio dopo la tragedia nel porto di Beirut, allora significa che abbiamo perso. Questo è ciò che temo. Ma la cosa importante è che loro (i politici) sappiano che noi ci sputiamo sopra.  Sharif Majdalani, scrittore libanese, tra i manifestanti in piazza dei Martiri: “Sono venuto a gridare rabbia, rabbia. Siamo venuti tutti a dire la stessa cosa: “Andatevene!”

Walid el-Kouch, accompagnato dal figlio, è in Piazza dei Martiri: “Siamo qui per esprimere la nostra rabbia. Ho la sensazione che qualcosa cambierà dopo questa esplosione”, afferma.

Zaher, un giovane di Tripoli, è tra i manifestanti in Piazza dei Martiri: “Il peggio che poteva capitarci è successo. Morire nella propria casa in queste condizioni… Quindi se non dimostriamo oggi, se non gridiamo la nostra rabbia oggi, allora non c’è più niente da fare. Non potremo mai più cambiare nulla. Abbiamo bisogno di un cambiamento ora, come leader di questo Paese. Dobbiamo cambiare tutto”.

Una folla oceanica riempie Piazza dei Martiri. Non c’è distinzione comunitaria, sciiti, cristiani, sunniti.. Si sentono tutti Libanesi. E intonano, come una sola voce, l’inno nazionale. E’ una scena da brividi. Nella piazza sono state allestite forche da cui pendono numerosi capestri, un’immagine forte rivolta all’élite al potere. Quella odierna è la prima grande manifestazione dopo la tragedia di martedì e sono subito scoppiati scontri: gruppi di giovani hanno lanciato pietre contro gli agenti di sicurezza. Vicino al palazzo del Parlamento, la polizia in assetto antisommossa ha sparato i lacrimogeni contro quanti lanciavano oggetti e tentavano di superare le barriere per avvicinarsi all’edificio. I dimostranti hanno anche dato fuoco a un camion che era stato posto in strada per rafforzare le barriere. Negli scontri sono stati feriti 10 dimostranti
Mentre la rabbia cresce, una delle principali emittenti del paese, Lbc, ha annunciato che non trasmetterà più alcun discorso politico o dichiarazione del leader sulla promessa di un’indagine. Il boicottaggio senza precedenti ha significato l’assenza totale venerdì su Lbc dei discorsi del presidente Michel Aoun, né del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. “La capitale di Beirut è stata distrutta e state ancora facendo trucchi?” ha detto il presidente, Pierre Daher. “Non potete continuare in questo modo”.

 

Voci del Libano che non si piega, che non accetta “verità” di comodo, che non intende affidare il proprio futuro e quello del Paese a quelli che hanno fatto bancarotta, non solo sociale, ma politica, morale.

L’esercito libanese ha lanciato un appello alla folla radunatasi nel perimetro del parlamento a manifestare “pacificamente”. “Il comando dell’esercito comprende la profondità del dolore che invade il cuore dei libanesi e comprende la difficoltà della situazione che sta attraversando la nostra patria. Ma ricorda ai manifestanti la necessità di attenersi ad esprimere pacificamente ed evitare di bloccare le strade e di assaltare le proprietà pubblica e privata. L’esercito ricorda altresì che ha avuto dei martiri che sono caduti nell’esplosione al porto”, ha detto l’esercito in una dichiarazione ripresa dall’emittente radiofonica Voice of Lebanon.

Quando su Beirut calano le prime ombre della sera, diverse migliaia di manifestanti affollano ancora il centro della città. La Croce Rossa ha riferito di aver trasportato 22 feriti negli ospedali e di aver curato 87 civili nel centro di Beirut. Ma è un bilancio destinato a crescere perché gli scontri non si placano.  “Di fronte ai proiettili lanciati contro le nostre forze, chiediamo ai manifestanti pacifici di lasciare il luogo degli scontri”, hanno twittato le forze di sicurezza interna. I militari hanno sparato gas lacrimogeni e pallottole di gomma per disperdere la folla. Una parte dei manifestanti si è riparata dietro un muretto di pietra accanto alla Moschea al Amin, nella Piazza dei Martiri, gridando: “Rivolta! Rivolta!”.

La rivolta dilaga

I manifestanti scandiscono “il popolo vuole la caduta del regime”, un canto popolare durante le rivolte della primavera araba del 2011. “Rivoluzione”. Rivoluzione”.  “Andatevene, siete tutti assassini”, c’è scritto su cartelli e striscioni. Un’effigie di cartone del primo ministro Hassane Diab con la corda al collo viene  brandita in Piazza dei Martiri.

Inizia l’assalto ai palazzi del potere. Un gruppo di dimostranti  riesce a penetrare all’interno del Bustros Palace, la sede del Ministero degli Esteri gravemente danneggiata dalla doppia esplosione di martedì, e srotolano  uno striscione con la scritta “Beirut, città senza armi”, in riferimento a Hezbollah, e “capitale della rivoluzione”. Prendendo la parola, il generale in pensione Sami Rammah ha annunciato che il Bustros Palace era diventato una sede del movimento di protesta. Le riprese televisive hanno mostrato un manifestante che bruciava un ritratto ufficiale del presidente Michel Aoun. I manifestanti intendono occupare tutti i ministeri. La tensione è altissima. Il generale in pensione Georges Nader in una drammatica testimonianza dal Bustros Palace, dice  che la polizia ha aperto il fuoco contro i manifestanti, ferendo otto persone. Un giornalista de L’Orient-Le Jour presente sulla scena e diversi manifestanti affermano di aver sentito degli spari in diretta.

Beirut si appresta a vivere una notte di fuoco. La collera non si placa. La rivolta non si arresta.

Seguaci Hezbollah tentano l’assalto a piazza dei Martiri

Seguaci di Hezbollah sono scesi in strada nel centro città, dal vicino quartiere di Zoqaq al Blatt, per protestare contro l’esposizione di manichini di Nasrallah. L’esercito libanese si è frapposto e per ora ha respinto l’assalto sul Ring, la sopraelevata che si affaccia su Piazza dei Martiri. Qui, le forze dell’ordine si sono scontrate con manifestanti antigovernativi, sparando pallottole di gomma e gas lacrimogeni. 

I media libanesi riferiscono, inoltre, che la rete Internet è stata interrotta in tutta la zona del centro. Già nelle scorse settimane vi erano state interruzioni delle comunicazioni telefoniche nella zona dovute a mal funzionamenti tecnici. Ma i media ipotizzano che l’interruzione odierna sia stata decisa dalle autorità per limitare la capacità dei manifestanti di comunicare via Internet tra loro e diffondere immagini delle violenze in corso.

“La strage al porto di Beirut non resterà impunita” ha assicurato il premier Hassan Diab, in un discorso alla nazione. “Tutti i responsabili del porto saranno indagati”, ha aggiunto. Diab ha invitato i partiti politici a risolvere la crisi del paese in due mesi altrimenti ci saranno le elezioni anticipate. Il premier non si è dimesso, ma ha dato così un ultimatum politico: “Ora è il momento della responsabilità collettiva. Vogliamo una soluzione per tutti i libanesi”.

Ma per il Libano che non si arrende, l’unica soluzione è la fine del regime della corruttela e del sangue.

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