Noa Rothman: "Contro l'annessione in nome di mio nonno, Yitzhak Rabin"
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Noa Rothman: "Contro l'annessione in nome di mio nonno, Yitzhak Rabin"

Parla la nipote del premier laburista assassinato la notte del 4 novembre 1995 da un giovane estremista di destra, Yigal Amir, al termine di una imponente manifestazione per la pace a Tel Aviv.

Noa Rothman
Noa Rothman
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Luglio 2020 - 12.44


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“Mio nonno, Yitzhak Rabin, ha combattuto per tutta la sua vita in difesa di Israele. Lo ha fatto perché in gioco c’era la sicurezza stessa del Paese, del suo popolo. Ma mai avrebbe intrapreso una qualsiasi azione militare per realizzare il disegno della Grande Israele. L’ultima battaglia che lui ha combattuto è stata quella della pace. E’ per questo è stato assassinato”.

“A sostenerlo, è Noa Rothman, la nipote del premier laburista assassinato la notte del 4 novembre 1995 da un giovane estremista di destra, Yigal Amir, al termine di una imponente manifestazione per la pace a Tel Aviv.

Il nuovo governo israeliano ha in programma l’annessione di una parte della Cisgiordania. La discussione sembra riguardare i tempi e le dimensioni di tale annessione ...

E’una scelta gravissima, il responsabile che rischia di innescare una nuova ondata di violenza e di isolare Israele sul piano internazionale. A muovere Netanyahu non vi sono ragioni di sicurezza, bensì la volontà di portare a compimento quello che è sempre stato il disegno della destra più oltranzista: la grande Israele. E’ una scelta ideologica, prim’ancora che politica.
Dietro ad essa c’è una visione messianica di Israele, un misto di ultra nazionalismo e fanatismo religioso. Ad ispirarla è l’idea di un Paese in trincea, sempre alle prese con un Nemico, sia esterno che interno. Ma il sionismo non è stato mai questo. I fondatori dello Stato d’Israele erano animati da una concezione aperta, inclusiva, dello stesso ebraismo e il loro sogno era quello di far vivere un Paese ‘normale’, che non aveva missioni divine, da popolo eletto, da dover condurre né territori da conquistare in nome di ‘Eretz Israel’, la sacra Terra d’Israele.

Mio nonno, Yitzhak Rabin ha trascorso gran parte della sua vita a combattere i nemici d’Israele: alla storia è passata una foto, che conservo gelosamente, di lui e Moshe Dayan al Muro del Pianto, dopo la vittoria nella Guerra dei Sei giorni.
Ma quella guerra, nella visione di coloro che la combatterono veramente, era comunque una guerra di difesa, che non aveva nulla di mistico: una narrazione che invece fu portata avanti dalla destra oltranzista.
L’Israele di Yitzhak Rabin era un Paese orgoglioso dei suoi successi in campo economico, dell’innovazione tecnologica, oltre che fiero di Tsahal, il suo esercito.
Ma mio nonno era anche consapevole che la sicurezza d’Israele non può reggersi sempre e solo sulla forza militare, e che la pace comporta anche il riconoscimento dell’altro da sé, in questo caso dei Palestinesi, e necessita di compromessi. E la pace la si fa con il nemico. Per lui, mi creda, non fu facile, stringere la mano a Yasser Arafat, quel giorno di settembre del 1993 alla Casa Bianca, davanti agli occhi di tutto il mondo e, quello che per lui contava sopra di ogni altra cosa, agli occhi del popolo d’Israele. No, non fu affatto facile,  ma lo fece per dimostrare che il dialogo era possibile, e che la più grande vittoria che Israele avrebbe potuto conquistare era quella di una pace nella sicurezza. Per averci provato, è stato accusato dalla destra di essere un traditore, che aveva svenduto Israele ai terroristi di Arafat. Forse Yigal Amir (il giovane estremista di destra che assassinò Rabin, ndr) ha agito da solo, ma una cosa è certa: in molti hanno ideologicamente armato la sua mano, e alcuni hanno anche provato a giustificare, se non addirittura ad esaltare, il suo gesto criminale. L’odio è un virus letale, che può portare ad uccidere una persona o a distruggere le fondamenta di una convivenza civile tra cittadini dello stesso Paese. Ma a questa deriva io non mi arrendo, né la ritengo iscritta in un destino ineluttabile per il Paese che amo”.

Le fa davvero così paura la destra del suo Paese?

”Sì, mi fa paura. Per quello che è diventata, qualcosa di altro rispetto a ciò che per decenni il Likud era stato: una forza conservatrice, certo, ma che non aveva mai sposato le posizioni più estreme, avventuriste, che erano proprie di frange minoritarie di una destra estrema. Pur di restare al potere, con un cinismo senza eguali, Netanyahu ha radicalizzato le posizioni del suo partito, alimentando un clima di odio, proclamando che in caso di vittoria avrebbe annesso parte della Cisgiordania occupata, dando un colpo mortale ad ogni residua possibilità di rilanciare un processo di pace. Di una cosa dargli atto: è stato coerente nel portare avanti le promesse fatte in campagna elettorale. Non ha tradito i suoi elettori, a differenza di Benny Gantz.

Lei nelle precedenti elezioni aveva sostenuto la candidatura di Gantz a primo ministro. Anche lei si sente tradita?

Più che tradita mi sento, e come me tantissimi altri, delusa, amareggiata. Gantz si era presentato come l’uomo del cambiamento, come un’alternativa, e non come un vassallo dal volto pulito, a Netanyahu. La realtà è stata un’altra: Gantz, pur di andare al potere, ha spaccato il suo partito (Blu e Bianco, ndr), avallato il piano Trump, ed ora cerca di ritagliarsi un ruolo di “moderatore” rispetto ai propositi di Netanyahu di annettere il 30% della Cisgiordania. Ma il problema non è la dimensione dell’annessione, è l’annessione in sé. E’ la logica che la sottende, e le conseguenze che inevitabilmente scatenerà. Mi lasci aggiungere che in gioco non c’è solo la pace con i palestinesi, ma anche l’identità stessa di Israele. A rischio vi sono i due pilastri che sono stati a fondamento della nascita dello stato di Israele: l’identità ebraica e la democrazia.

 

Perché questi due pilastri sarebbero a rischio?

Perché annettersi territori occupati significa “inglobare” anche i loro abitanti palestinesi. Cosa ne sarebbe di loro di certo, Netanyahu e i suoi sostenitori non intendono farne cittadini di Israele, con tutti i diritti anche elettorali, che ciò comporterebbe. L’annessione istituzionalizzerebbe l’apartheid, e così facendo darebbe un colpo mortale alla nostra democrazia. L’annessione sarebbe la morte del sionismo.

Tra i sostenitori esterni di Netanyahu, al primo posto c’è senz’altro il presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Purtroppo è così. Senza il totale, incondizionato appoggio di Trump, Netanyahu non si sarebbe spinto a tanto. A Trump non interessa la sicurezza di Israele, tanto meno una pace giusta e duratura, fondata sulla soluzione “a due Stati”. Trump è in piena campagna presidenziale e avallare l’annessione significa per lui garantirsi il sostegno degli evangelici ancor più che delle componenti più conservatrici dell’ebraismo americano. Sia per Netanyahu che per Trump il fattore-tempo è decisivo: bisogna chiudere prima del 3 Novembre, quando gli americani decideranno il nuovo presidente e, se come spero e come sembrano indicare tutti i sondaggi dovesse vincere il candidato democratico Joe Biden, le cose nei rapporti tra Israele e Usa potrebbero cambiare, e di certo Netanyahu non avrebbe carta bianca come gli è stata garantita non avrebbe quell’assoluta libertà di manovra che ha sempre ricevuto dal suo amico Donald.

Nel mondo si moltiplicano gli appelli contro l’annessione. Netanyahu ne terrà conto?

Conoscendolo non credo proprio. Per lui ciò che importa veramente è il sostegno dell’America. Ma queste prese di posizione aiutano quanto in Israele? Continuano a battersi e a manifestare contro l’annessione. Sapere che nel mondo sono in tanti a dire no “No”, e tra questi anche personalità non certo sospettabili di essere filo-palestinesi, come il premier britannico Boris Johnson, questo ci da speranza e forza per continuare la nostra lotta.

Per anni, sua nonna, Leah Rabin, la moglie di Yitzhak, si rifiutò di stringere la mano a Netanyahu. Già malata (Leah è morta il 12 novembre del 2000 per un tumore ai polmoni),  alla fine quel gesto lo compì. Il tempo lenisce il dolore?

”No, quando il dolore è così forte, straziante, il tempo non fa da anestetizzante né cancella la memoria di quell’atto che non ha stravolto la vita di una famiglia ma ha cambiato la storia d’Israele e del Medio Oriente. Quello di mia nonna fu un gesto che non equivaleva a un perdono ma che era un tributo alla memoria di suo marito, di mio nonno, del primo ministro d’Israele che aveva provato a far vincere le ragioni della speranza su quelle dell’odio. Ma questo Netanyahu non l’ha compreso”.

Yitzhak Rabin fu ucciso per aver negoziato e sottoscritto accordi di pace con l’Olp di Yasser Arafat. Si dice che la storia non si fa con i se e con i ma…Ma se Yitzhak Rabin fosse rimasto in vita…”.

E’ vero, la storia non si fa con i se e con i ma. Ma in tutti i grandi eventi della storia la soggettività di un capo di Governo o di Stato, di un leader politico, si è spesso rivelata decisiva, nel bene e nel male. Quel che so, è che mio nonno soleva ripetere che bisogna negoziare la pace come se non ci fosse il terrorismo, e combattere il terrorismo come se non vi fosse un negoziato di pace. Non erano parole ad effetto, ma la linea di condotta che ispirò gli accordi di Washington. Mai avrebbe fatto qualcosa, concesso qualcosa che avrebbe potuto mettere a rischio la sicurezza d’Israele. Mai. Ma nel tempo che ebbe per arrivare a quegli accordi, ebbe modo di conoscere meglio il nemico di sempre, Yasser Arafat. Non divennero amici, questo no, ma impararono a rispettarsi vicendevolmente e, soprattutto, a cercare un compromesso che fosse un incontro a metà strada tra le aspirazioni dei loro popoli. Avevano imparato l’importanza dell’ascolto, del fare i conti con le ragioni dell’altro. Solo così la pace non resterà un sogno irrealizzabile.

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