Avner Gyaryahu: "Rompiamo il silenzio e diciamo no al piano Trump-Netanyahu"
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Avner Gyaryahu: "Rompiamo il silenzio e diciamo no al piano Trump-Netanyahu"

Intervista all'attivista israeliano che da tempo è nel mirino delle frange più estreme della destra del suo paese per il suo impegno per una pace giusta tra Israele e Palestina.

Avner Gyaryahu
Avner Gyaryahu
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

8 Giugno 2020 - 15.12


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E’ stato uno degli organizzatori della grande manifestazione di sabato sera, 6 maggio, a Piazza Rabin, nel cuore di Tel Aviv. Nonostante il Coronavirus, decine di migliaia di israeliani, arabi ed ebrei, si sono ritrovati assieme, dotati di mascherina e rispettando scrupolosamente il distanziamento sociale, per dire no al piano di annessione di parti della Cisgiordania che, nella volontà ribadita a più riprese dal primo ministro Benjamin Neanyahu, dovrebbe prendere avvio il l’1 luglio. Il suo è stato uno degli interventi più applauditi, secondo solo all’ovazione che ha accolto e accompagnato il vide intervento del senatore dem americano Bernie Sanders.
Avner Gyaryahu è un personaggio scomodo per i falchi di Tel Aviv, il più odiato. Da tempo è nel mirino, non metaforico, delle frange più estreme della destra israeliana. Ormai, dice, ha smesso di leggere i messaggi di morte che gli arrivano quotidianamente. Gyaryahu è il direttore di Breaking the Silence, (in ebraico Shovrim Shtika) l’organizzazione  fondata da tre ex soldati dell’Idf (l’esercito israeliano), Avichai Sharon, Yehuda Shaul and Noam Chayut per raccogliere le testimonianze di militari israeliani che hanno svolto il servizio militare nelle zone dei Territori Occupati, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme Est fin dal periodo della seconda intifada.
Lo scopo esplicito dell’organizzazione è di fornire ai soldati la possibilità, una volta tornati alla vita civile, di “mettere a nudo la distanza tra la realtà che si sono trovati ad affrontare e il silenzio che incontrano una volta tornati a casa”.
Dal 2004, la Ong porta avanti un progetto chiamato “Soldiers Speak Out”, che ha raccolto alcune centinaia di testimonianze tra coloro che “nel corso del loro servizio militare nell’Idf, nella guardia di confine e nelle forze di sicurezza, hanno svolto un ruolo nei Territori Occupati” al fine di rendere la società israeliana più consapevole della “realtà che ha creato” e “degli abusi nei confronti dei palestinesi”.
Una possibilità per cambiare l’opinione pubblica è stata offerta dalla lettera che 43 riservisti dell’unità 8-200, una delle più prestigiose dell’intelligence militare, hanno recentemente recapitato al premier Netanyahu. Nella missiva ufficiali e militari dichiaravano di non essere più disposti a “raccogliere materiale che colpisce palestinesi innocenti“e che la finalità del lavoro di intelligence “non è tanto la difesa di Israele quanto la prosecuzione della occupazione dei Territori”.

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La lettera ha rappresentato una delle più importanti espressioni di obiezione di coscienza mai registrate in Israele, ma la risposta dai vertici dello stato non si è fatta attendere: il generale Motti Almoz, portavoce dell’esercito israeliano, ha scritto che i “Refusenik” (letteralmente “rifiutati”) affronteranno “un procedimento disciplinare che sarà nitido e chiaro” aggiungendo che “non c’è posto per il rifiuto nell’Idf”

.In questa intervista esclusiva concessa a Globalist, il direttore di Breaking the Silence, spiega il senso della rivolta contro il piano Trump-Netanyahu. “Trump non sta mandando i suoi figli a guardia degli avamposti. I figli dei sostenitori dell’annessione americana non possono essere uccisi o uccisi nei territori, ma i nostri figli sì”.

Sabato sera, decine di migliaia di israeliani, arabi ed ebrei, si sono radunati in Piazza Rabin, a Tel Aviv, per dire no al piano di annessione di parti della Cisgiordania che il primo ministro Netanyahu intende avviare a partire dal prossimo 1° luglio. Cosa c’è alla base di questa protesta capace di vincere anche la paura del Coronavirus?

C’è la consapevolezza che il piano di annessione segna un punto irreversibile, di non ritorno che porterà non solo alla morte del processo di pace ma modificherà l’identità stessa d’Israele, minandone la sua stessa democrazia.

Un j’accuse durissimo

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Non potrebbe essere altrimenti. Con la totale complicità del presidente americano, Netanyahu porta a compimento un disegno che è stato sempre a fondamento, ideologico oltre che politico, della destra nazionalista israeliana: la realizzazione della “Grande Israele”. Dietro il progetto di annessione di almeno il 25% della Cisgiordania non ci sono motivi di sicurezza o la necessità di contrastare minacce terroristiche. L’annessione istituzionalizza l’apartheid e un Paese che fa questo finisce per minare uno dei suoi pilastri fondamentali: quello democratico.

C’è un rischio anche per i giovani soldati che saranno impiegati nell’attuazione di questo piano?

Assolutamente sì. Ripeto qui quanto ho affermato dal palco della manifestazione di Tel Aviv: Trump non sta mandando i suoi figli a guardia degli avamposti. I figli dei sostenitori dell’annessione americana non possono essere uccisi o uccisi nei territori, ma i nostri figli sì.

Lei ha parlato di “annessione americana”. E’ un lapsus freudiano?

No, nessun lapsus. Senza il via libera dell’amministrazione Trump, senza quel Piano che tutto è meno che di pace, Netanyahu non si sarebbe spinto sino a questo punto di rottura. Ma l’America si sta ribellando a un presidente suprematista, e le ragioni della rivolta che si sta estendendo a tutta l’America, sono le stesse ragioni che ci spingono a batterci contro questo piano di annessione. Alla base di questa comunanza, c’è una visione della democrazia che non discrimina per razza o fede religiosa, che non ti fa sentire più forte o impunibile perché sei bianco o, per quanto riguarda Israele, non discrimina tra cittadini di serie A, gli ebrei, e quelli di serie B, gli arabi israeliani. Non c’è democrazia quando si opprime un altro popolo.

Cosa pensa di Benny Gantz?

Penso la stessa cosa dei tanti suoi elettori che erano sabato in piazza con noi a Tel Aviv. Gantz ha tradito il suo elettorato. Si era presentato come un’alternativa a Netanyahu. In campagna elettorale aveva ripetuto che ogni voto a Blu e Bianco era un voto contro un primo ministro inquisito per gravi reati, un primo ministro che stava affossando lo stato di diritto. Ora, è diventato co-premier di un governo dell’annessione e dell’impunità. Se non è un tradimento questo…

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Cosa si sente di chiedere oggi alla comunità internazionale?

Breaking the silence: rompere il silenzio e prendere una posizione netta sul piano di annessione. Non bastano i distinguo, le sottili prese di distanza. Se è vero come è vero che il piano di annessione pregiudica ogni residua chance di dialogo, cancella di fatto la soluzione “a due Stati”, e può aprire una nuova stagione di violenza, allora non è più tempo di parole. Chi governa Israele non può sentirsi al di sopra della legalità internazionale, non può continuare a ignorare le risoluzioni Onu, il diritto internazionale, la stessa Convenzione di Ginevra. Chi si comporta cosa deve essere sanzionato.

Lei sa che nell’affermare questo verrà tacciato di tradimento da una parte d’Israele

Ognuno deve rispondere anzitutto alla propria coscienza. Per quanto mi riguarda, ho fatto l’abitudine a ricevere ogni giorno accuse di questo genere e anche di peggio. Ma molti di questi odiatori da tastiera non hanno fatto un giorno di servizio militare, non sanno cosa significhi rischiare la vita per difendere anche la loro sicurezza. Io l’ho fatto. E non me ne pento. Ma respingere a un checkpoint una donna anziana, ho reprimere con la forza manifestazioni non violente, beh, questo non c’entra niente con il difendere la sicura d’Israele. Significa farsi strumento di una occupazione che  opprime un altro popolo. Ed è a questo che diciamo signornò”.

 

 

 

 

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