Gaza, una prigione ai tempi del Coronavirus. Racconti dall'inferno
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Gaza, una prigione ai tempi del Coronavirus. Racconti dall'inferno

La striscia è isolata dal mondo, messa in ginocchio da un assedio che dura da oltre 13 anni, con un sistema sanitario collassato, con il 97% dell’acqua non potabile.

Coronavirus a Gaza
Coronavirus a Gaza
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

26 Marzo 2020 - 17.23


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Gaza, aprite quella prigione a cielo aperto, dove vivono nello spazio di soli 365 chilometri quadrati quasi 2 milioni di persone, il 56% minorenni. Isolata dal mondo, messa in ginocchio da un assedio che dura da oltre 13 anni, con un sistema sanitario collassato, con il 97% dell’acqua non potabile. Aprite quella prigione prima che si trasformi in un immenso lazzaretto infestato dal coronavirus.

Aprite quella prigione

A Gaza sono stati individuati almeno sette casi di contagiati dal Covid-19. Se sei rinchiuso in una gabbia, sei protetto, ma, allo stesso tempo, sei anche molto più a rischio di essere gravemente colpito. Se la gente di Gaza non si sente bene, a qualcuno importa, non più che nella minima misura che ha in passato? Cambierà qualcosa per loro o semplicemente peggiorerà molto? Con notevoli problemi economici a Gaza, il più alto tasso di disoccupazione nel mondo e la mancanza di forniture a causa delle restrizioni all’importazione di beni, è impossibile per le famiglie fare scorta di articoli e medicinali essenziali. Quelli con problemi di salute esistenti sono particolarmente vulnerabili alla malattia. Con la salute generale di molte persone a Gaza in costante calo a causa di un grave deficit sanitario e di un basso tenore di vita, la popolazione ne risentirebbe in modo univoco… Nel migliore dei casi, quando i pazienti a Gaza sono così malati da chiedere il permesso a Israele di partire attraverso il valico di Erez per cure mediche in Cisgiordania o in Israele, spesso non ricevono risposta o vengono respinti. Nel caso di un focolaio di coronavirus a Gaza, la probabilità che vengano respinte le autorizzazioni di uscita per l’assistenza medica è quindi elevata, in particolare se Israele sta lottando contro il proprio focolaio..”, scrive su Haaretz, il quotidiano progressista israeliano, Shannon Marre Torrens, avvocato internazionale e per i diritti umani, con una vasta esperienza in materia.

Condanna a morte

Il titolo dell’articolo è, insieme, una drammatica constatazione di fatta e un disperato appello alla comunità internazionale: “Coronavirus è una condanna a morte per i Palestinesi ingabbiati a Gaza”. Nella prima fase della diffusione del virus molti articoli definivano Gaza il luogo più sicuro in cui trovarsi, elogiando i risvolti positivi che le restrizioni alla libertà di movimento per e dalla Striscia imposta da 13 anni da Israele avevano avuto fino sul contenimento del Covid-19. Ad un mese dall’inizio del contagio, le valutazioni sulla Striscia sono decisamente cambiate: adesso la diffusione del virus nell’enclave palestinese è descritta dalla Sicurezza israeliana come un “God-save-us scenario”.

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Il 97% di tutta l’acqua di Gaza non è adatta al consumo umano, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), il che pone un interrogativo estremamente urgente: come potrebbero gli ospedali di Gaza affrontare l’epidemia di Coronavirus quando, in alcuni casi, l’acqua pulita non è nemmeno disponibile allo Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza?  Anche nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri ed il personale sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima qualità di quest’ultima.  Il gel disinfettante per le mani è sempre stato quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di settimane.

Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva, l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero ad una mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo.

Appello al mondo

 Martedì scorso il ministero della sanità locale ha lanciato un appello urgente all’Oms per la fornitura di apparecchiature mediche di fronte alla possibilità di una larga diffusione del coronavirus a Gaza, stretta nel blocco israeliano da 13 anni. “Chiediamo alla comunità internazionale di darci un supporto immediato, compresi i respiratori e le apparecchiature di terapia intensiva”, ha detto il portavoce del ministero della sanità, Ashraf al-Qudra. A Gaza, ha spiegato al Qudra, sono necessari almeno 150 respiratori contro gli attuali 45. 

Per ora si registra l’arrivo dell’aiuto annuale di 82 milioni di euro all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, da parte dell’Unione europea che va ad aggiungersi ai 150 milioni di dollari per Gaza nei prossimi sei mesi stanziati dal Qatar.

Proprio l’Unrwa ha dovuto interrompere le sue operazioni a Gaza. Gli aiuti alimentari a Gaza sono temporaneamente sospesi finché non si troverà un modo più sicuro per erogarli”, ha comunicato un portavoce spiegando che si tratta di «una misura precauzionale per mantenere la sicurezza del personale e dei beneficiari degli aiuti» ed evitare il contagio da coronavirus. Parole che non hanno rassicurato centinaia di migliaia di profughi e il resto della popolazione di Gaza dove l’annuncio dei primi contagi ha suscitato angoscia e paura.

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Secondo il The Jerusalem Post, saranno costruite due serie di strutture nel nord e nel sud della Striscia di Gaza, con un totale di 500 stanze per gli individui che richiedono la quarantena. Il direttore del dipartimento per la sanità e l’ambiente del Comune di Rafah, Mohammed Mohammed, ha spiegato che la struttura vicino a Rafah sarà costruita su un terreno ad ovest della città. Sarà coordinato dal comune, dal comitato di sorveglianza del governo, dai servizi idrici locali e dalla compagnia elettrica. Fonti locali confermano a globalist che il leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya al-Sinwar, sta supervisionando personalmente i lavori di costruzione in entrambe le aree.

“La Striscia di Gaza è un’area densamente popolata, dove il virus potrebbe diffondersi molto rapidamente”, ha detto un funzionario. “Il sistema sanitario nella Striscia di Gaza non ha gli strumenti ed il personale per gestire decine di casi infetti. Abbiamo 11 grandi ospedali e decine di cliniche, ma non saranno in grado di ricevere un gran numero di pazienti. Ciò potrebbe provocare una crisi umanitaria reale e senza precedenti”.

Le possibilità di trattamento e isolamento del virus sono molto deboli a Gaza – dice a Repubblica  Rana, insegnante e traduttrice, che da anni si occupa di infanzia e di donne – gli ospedali non sono attrezzati con le terapie intensive, non ci sono medicinali per tutti e sarebbe un disastro…”. “Hanno imposto anche il coprifuoco – ha spiegato Rana – e la sospensione dell’orario di lavoro nelle scuole e nelle istituzioni educative, come il nostro centro. Anche le cliniche dell’Unrwa hanno dichiarato lo stato di emergenza, ci sono punti di isolamento obbligatori o una quarantena per coloro che mostrano qualche sintomo strano”. Molti palestinesi sono rientrati negli ultimi giorni da Gerusalemme est, dopo aver avuto il permesso di recarsi in ospedali per cure specifiche e ora hanno paura di portare il contagio. Proprio per questo hanno creato anche al valico di Erez  dei centri di quarantena”

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Cartoline dall’inferno

Il gel disinfettante per le mani è sempre stato quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di settimane. Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva, l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero ad una mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo.

A ciò si aggiunge la mancanza cronica di medicine e prodotti sanitari di base, senza contare l’inadeguatezza delle strutture sanitarie in caso di ricoveri in terapia intensiva e un sistema già al collasso da mesi. A gennaio infatti l’Ong B’Tselem ha pubblicato un report in cui evidenziava la difficoltà degli ospedali della Striscia nel curare le centinaia di persone rimaste ferite durante le manifestazioni al confine con Israele.

“Ogni anno vediamo un aumento del 13-14 per cento nel numero di pazienti ricoverati con problemi renali”, dice il dottor Abdallah al Kishawi, primario della nefrologia all’ospedale Shifa a Gaza City. Questi problemi renali, aggiunge, “hanno origini note come il diabete e le malattie ereditarie ma non c’è dubbio che anche sul peso dell’inquinamento delle acque. L’elevata salinità può causare calcoli renali e problemi del tratto urinario”.

In un recente editoriale, Ramzy Baroud, direttore di Palestine Chronicle,  ha scritto: La verità è che nessuna ‘preparazione’ a Gaza – o, francamente, ovunque nella Palestina occupata – può fermare la diffusione del Coronavirus. Ciò che è necessario è un cambiamento fondamentale e strutturale che possa emancipare il sistema sanitario palestinese dall’orribile impatto dell’occupazione israeliana, dalle politiche di assedio perpetuo del governo israeliano e dalle ‘quarantene’ imposte politicamente, note anche come Apartheid”.

La paura si estende anche alla Cisgiordania, dove una donna di 63 anni è morta per il coronavirus  e un intero villaggio, Biddu, dove si sono registrati la prima vittima palestinese e 18 casi positivi, da questa mattina è chiuso in un completo isolamento come Betlemme, Beit Sahour e Beit Jala.

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