Per gli ingabbiati di Gaza, il Coronavirus è una condanna a morte
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Per gli ingabbiati di Gaza, il Coronavirus è una condanna a morte

Due milioni di esseri umani che vivono nello spazio di soli 365 chilometri quadrati. Uno dei luoghi più densamente popolati del Pianeta Terra, confinato in una gabbia da cui non possono fuggire.

Paura del Coronavirus a Gaza
Paura del Coronavirus a Gaza
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

20 Marzo 2020 - 16.47


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Nell’”era” del Coronavirus la più grande preoccupazione tanto dell’autorità palestinese quanto di quella israeliana è la diffusione del virus nella Striscia di Gaza. “Immagina due milioni di esseri umani che vivono nello spazio di soli 365 chilometri quadrati. Uno dei luoghi più densamente popolati del Pianeta Terra, confinato in una gabbia da cui non possono fuggire. Questi due milioni di persone non possono andarsene, anche se volessero, senza grandi difficoltà. Devono vivere la propria vita entro i confini di questa zona di terra in rapido deterioramento, alcuni persistono nella speranza che un giorno le cose possano cambiare, ma molti sopravvivono con la consapevolezza che nulla cambierà, se non in peggio. Indipendentemente dal loro grado di ottimismo o pessimismo, tutti sono isolati dal resto del mondo. Chiamiamo questo posto la Striscia di Gaza , ed è stato bloccato da Israele dal 2007”, scrive su Haaretz, il quotidiano progressista israeliano, Shannon Marre Torrens, avvocato internazionale e per i diritti umani, con una vasta esperienza in materia: ha lavorato presso i tribunali e tribunali penali internazionali delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia, Ruanda, Sierra Leone e Cambogia e con il Tribunale penale internazionale. 

Tragedia annunciata

Il titolo dell’articolo è, insieme, una drammatica constatazione di fatta e un disperato appello alla comunità internazionale: “Coronavirus è una condanna a morte per i Palestinesi ingabbiati a Gaza”. Nella prima fase della diffusione del virus molti articoli definivano Gaza il luogo più sicuro in cui trovarsi, elogiando i risvolti positivi che le restrizioni alla libertà di movimento per e dalla Striscia imposta da 13 anni da Israele avevano avuto fino sul contenimento del Covid-19. Ad un mese dall’inizio del contagio, le valutazioni sulla Striscia sono decisamente cambiate: adesso la diffusione del virus nell’exclave palestinese è descritta dalla Sicurezza israeliana come un “God-save-us scenario”.

Ad oggi non ci sono ancora stati casi di contagio nella Striscia, ma l’Egitto ha imposto dei controlli ancora più rigidi al valico di Rafah, dove è stata anche predisposta una struttura per i pazienti ritenuti positivi, e Israele sta valutando il ritiro dei 7mila permessi concessi recentemente ai gazawi per uscire dalla Striscia. Lo stesso Hamas sta decidendo se imporre a sua volta un’ulteriore restrizione ai movimenti dei cittadini di Gaza, ben consapevole degli effetti disastrosi che la diffusione del virus avrebbe nel territorio sotto il suo controllo.  Secondo il The Jerusalem Post, saranno costruite due serie di strutture nel nord e nel sud della Striscia di Gaza, con un totale di 500 stanze per gli individui che richiedono la quarantena. Il direttore del dipartimento per la sanità e l’ambiente del Comune di Rafah, Mohammed Mohammed, ha spiegato che la struttura vicino a Rafah sarà costruita su un terreno ad ovest della città. Sarà coordinato dal comune, dal comitato di sorveglianza del governo, dai servizi idrici locali e dalla compagnia elettrica.

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Fonti locali confermano a globalist che il leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya al-Sinwar, sta supervisionando personalmente i lavori di costruzione in entrambe le aree. I funzionari sanitari palestinesi hanno espresso preoccupazione per il fatto che se e quando verranno rilevati casi di Coronavirus nella Striscia, gli ospedali locali non saranno in grado di far fronte ad un gran numero di pazienti infetti. “La Striscia di Gaza è un’area densamente popolata, dove il virus potrebbe diffondersi molto rapidamente”, ha detto un funzionario. “Il sistema sanitario nella Striscia di Gaza non ha gli strumenti ed il personale per gestire decine di casi infetti. Abbiamo 11 grandi ospedali e decine di cliniche, ma non saranno in grado di ricevere un gran numero di pazienti. Ciò potrebbe provocare una crisi umanitaria reale e senza precedenti”. Il 97% di tutta l’acqua di Gaza non è adatta al consumo umano, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità),  il che pone un interrogativo estremamente urgente: come potrebbero gli ospedali di Gaza affrontare l’epidemia di Coronavirus quando, in alcuni casi, l’acqua pulita non è nemmeno disponibile allo Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza? 

Senza acqua potabile

Anche nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri ed il personale sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima qualità di quest’ultima. 

Il gel disinfettante per le mani è sempre stato quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di settimane. Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva, l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero ad una mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo.

A ciò si aggiunge la mancanza cronica di medicine e prodotti sanitari di base, senza contare l’inadeguatezza delle strutture sanitarie in caso di ricoveri in terapia intensiva e un sistema già al collasso da mesi. A gennaio infatti l’Ong B’Tselem ha pubblicato un report in cui evidenziava la difficoltà degli ospedali della Striscia nel curare le centinaia di persone rimaste ferite durante le manifestazioni al confine con Israele.

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“Basti pensare – scrive Oxfam in un suo recente rapporto  – che il 95% della popolazione, anche solo per bere e cucinare, dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40 mila abitanti non sono allacciati alla rete. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini”.  Due milioni di palestinesi di Gaza dipendono da aziende private ​​che purificano l’acqua, il più delle volte con esiti non soddisfacenti. Le conseguenze per la salute sono ampie.

“Ogni anno vediamo un aumento del 13-14 per cento nel numero di pazienti ricoverati con problemi renali”, dice il dottor Abdallah al Kishawi, primario della nefrologia all’ospedale Shifa a Gaza City. Questi problemi renali, aggiunge, “hanno origini note come il diabete e le malattie ereditarie ma non c’è dubbio che anche sul peso dell’inquinamento delle acque. L’elevata salinità può causare calcoli renali e problemi del tratto urinario”.

In un recente editoriale, Ramzy Baroud, editore di Palestine Chronicle,  ha scritto: La verità è che nessuna ‘preparazione’ a Gaza – o, francamente, ovunque nella Palestina occupata – può fermare la diffusione del Coronavirus. Ciò che è necessario è un cambiamento fondamentale e strutturale che possa emancipare il sistema sanitario palestinese dall’orribile impatto dell’occupazione israeliana, dalle politiche di assedio perpetuo del governo israeliano e dalle “quarantene” imposte politicamente, note anche come Apartheid.

 Gruppi per i diritti umani nella Striscia di Gaza hanno chiesto mercoledì scorso alle autorità di occupazione di consentire l’ingresso delle forniture mediche necessarie per combattere la pandemia di coronavirus nel territorio assediato. E’ quanto è stato dichiarato in una conferenza stampa da Omar al-Qarout, direttore esecutivo del Centro Hemaya per i diritti umani, a nome dei gruppi per i diritti umani nella Striscia di Gaza.

Al-Qarout ha invitato le autorità israeliane ad assumersi le proprie responsabilità legali nei confronti della Striscia di Gaza assediata e fornirle forniture mediche, e ha invitato la comunità internazionale a fare pressione sulle autorità israeliane affinché revochino le restrizioni all’ingresso di forniture mediche, attrezzature e farmaci necessari per affrontare il coronavirus nella Striscia di Gaza. Ha anche chiesto all’OMS di aprire un ufficio regionale nei Territori palestinesi per monitorare la diffusione del coronavirus.

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Senza speranza

Stando alle ultime informazioni riferite il 16 marzo, il bilancio dei contagi ha raggiunto quota 39, situati perlopiù a Betlemme. Di questi, 37 persone sono risultate essere infette dopo che un gruppo di 51 turisti religiosi provenienti dalla Grecia e giunti a Betlemme nei primi di marzo, è risultato positivo una volta tornato nel proprio Paese. Le autorità greche hanno informato il governo palestinese di quanto scoperto e quest’ultimo, al canto suo, ha rintracciato nell’immediato tutti coloro che avevano avuto contatti con i turisti greci. 

Gli ultimi due casi, invece, sono stati registrati nella città settentrionale di Tulkarem. Qui, un operaio che lavora in Israele ha affermato di essere stato contagiato dal proprio datore di lavoro, il quale, a sua volta, aveva contratto il virus nel corso di un viaggio all’estero. L’ultimo caso riguarda, invece, uno studente di medicina ritornato a casa il 9 marzo dalla Polonia, dove frequenta l’università. Ciò è stato reso noto il 16 marzo dal primo ministro palestinese, Mohammad Shtayyeh.

Il governo palestinese si è attivato sin da subito. Appena dopo la scoperta dei primi contagi, l’intera città di Betlemme è stata chiusa ed è stata avviata una vasta campagna di test per il coronavirus, mentre i casi sospetti sono stati posti immediatamente in quarantena. Secondo quanto riferito dal portavoce del governo, Ibrahim Melhim, l’Autorità Palestinese ha adottato una strategia su più fronti, con il fine di frenare la diffusione del virus. Tuttavia, secondo quanto riferito, sono stati profusi altresì sforzi per aggiornare la popolazione ed evitare, al contempo, dicerie e cattiva informazione. A tale scopo, è stato creato un sito web dove è possibile consultare le informazioni relative ai contagi, tra cui anche età, sesso e progressi medici. Inoltre, al momento, 3.570 cittadini sono in quarantena, di cui 2.676 nella Striscia di Gaza, e tutti i palestinesi musulmani sono stati esortati a limitare le preghiere nelle proprie abitazioni, senza recarsi in moschea. Un rapporto diffuso negli anni passati dalle Nazioni Unite fissa al 2020 l’anno in cui Gaza non sarà più vivibile. Il Coronavirus rende ancor più immanente questa apocalisse.

 

 

 

 

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