Libia, il Coronavirus non ferma la "Fabbrica della Tortura"
Top

Libia, il Coronavirus non ferma la "Fabbrica della Tortura"

Globalist non spegne i “riflettori” su crimini contro l’umanità verso i quali l’Europa, e in essa l’Italia, sono stati silenti se non addirittura finanziatori.

Migranti in Libia
Migranti in Libia
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

19 Marzo 2020 - 15.21


ATF

Libia, l’orrore non ha anticorpi. Libia, “la Fabbrica della Tortura”. Libia, un inferno in terra, alle porte dell’Italia. Un inferno nel quale la tortura è istituzionalizzata, finalizzata a ottenere denaro e a sottomettere i migranti. Anche le forme della più impensabile depravazione sono finalizzate al massimo profitto politico ed economico. L’emergenza Coronavirus totalizza l’informazione, come se gli orrori di guerre e abusi fossero stati messi in quarantena. Dimenticati. Ma quelle guerre, quegli orrori continuano. Globalist non spegne i “riflettori” su crimini contro l’umanità verso i quali l’Europa, e in essa l’Italia, sono stati silenti se non addirittura finanziatori.

Racconti dall’inferno

Eravamo in 350 in quella prigione, ci sono rimasto per 5 mesi, fino al dicembre scorso. Dentro Ossama Prison ci hanno picchiato e torturato. Vedi la ferita qui sull’orecchio? Me l’hanno fatta con un lucchetto», racconta un sudanese di 19 anni giunto in Sicilia dopo essere stato messo su un gommone partito da Zawiyah.

La Libia è stato un inferno. Io sono maledetta, sono proprio maledetta”. Lo ripete più volte, Sabha, originaria della Costa D’Avorio. Dal settembre 2016 all’aprile 2017 è stata in uno dei centri di detenzione di Sabha: “Mi hanno preso e portato in prigione, volevano da me dei soldi. Sono stata lì sette mesi: mi hanno fatto di tutto. Ogni giorno ci prendevano e ci portavano da alcuni uomini per soddisfare le loro voglie. Mi hanno preso da davanti, da dietro, erano così violenti che dopo avevo difficoltà anche a sedermi. Mi filmavano mentre mi violentavano. Mi urinavano addosso. Un giorno mi hanno costretta ad avere un rapporto con un cane e loro mi hanno filmato. Sono maledetta”. La sua testimonianza, raccolta nel Cara di Mineo, fa parte del report “La Fabbrica della Tortura”, reso noto, nei giorni scorsi, da Medici per i diritti umani (Medu)

 Il rapporto si basa su oltre tremila testimonianze dirette di migranti transitati dalla Libia, raccolte dagli operatori di Medici per i Diritti Umani nell’arco di sei anni (2014- 2020). Nel periodo considerato sono sbarcati in Italia 660mila migranti, il 90 per cento è passato per il Paese, provenendo dall’Africa occidentale o dal Corno d’Africa, ma anche da alcuni Paesi extra africani come la Siria e il Bangladesh. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per i migranti (Oim), sono circa 636mila i migranti presenti oggi in Libia (dicembre 2019), mentre sono 48mila i rifugiati e richiedenti asilo registrati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).

Leggi anche:  A Porto Empedocle, gli artisti di Farm Cultural Park colorano l'hotspot

Radiografia di un crimine senza confini

Le informazioni sono state raccolte in particolar modo in Sicilia, nell’hotspot di Pozzallo, nei centri di accoglienza di Ragusa e Mineo, e a Roma, nei luoghi informali di accoglienza e presso il Centro Psyché per la riabilitazione delle vittime di tortura. Altre testimonianze sono state raccolte ad Agadez, in Niger.

L’età media dei migranti e rifugiati (88 per cento di sesso maschile e 12 per cento di sesso femminile) assistiti e intervistati da Medu è di 26 anni. Tra di loro sono presenti oltre 300 minori (13 per cento), incontrati negli insediamenti informali di Roma e presso il sito umanitario di Agadez. Le principali nazionalità dei testimoni sono Eritrea, Nigeria, Gambia, Sudan, Senegal, Etiopia, Mali, Costa d’Avorio, Somalia. L’85 per cento ha subito abusi, torture, stupri. Secondo i dati raccolti da Medici per i diritti umani, nel periodo che va dal 2014 al 2020, l’85 per cento dei migranti e rifugiati giunti dalla Libia ha subito in quel Paese torture e trattamenti inumani e degradanti e nello specifico il 79 per cento è stato detenuto/sequestrato in luoghi sovraffollati e in pessime condizioni igienico sanitarie, il 75 per cento ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche, il 65 per cento gravi e ripetute percosse. Inoltre, un numero inferiore, ma comunque rilevante, di persone ha subito stupri e oltraggi sessuali, ustioni provocate con gli strumenti più disparati, fa-laka (percosse alle piante dei piedi), scariche elettriche e torture da sospensione e posizioni stressanti (ammanettamento, posizione in piedi per un tempo prolungato, sospensione a testa in giù, ecc).

Questa tendenza è rimasta invariata – o addirittura si è aggravata – nel corso degli ultimi tre anni, a partire dal 2017, anno di sigla del Memorandum Italia-Libia sui migranti. Tutti i migranti detenuti hanno subito continue umiliazioni e in molti casi oltraggi religiosi e altre forme di trattamenti degradanti. Nove migranti su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso o torturato. Alcuni sopravvissuti sono stati costretti a torturare altri migranti per evitare di essere uccisi. Numerosissime le testimonianze di migranti costretti ai lavori forzati o a condizioni di schiavitù per mesi o anni.

“Questi dati, probabilmente addirittura sottostimati, rappresentano, a nostro avviso, un quadro fedele delle violenze sistematiche a cui vengono sottoposti pressoché tutti i migranti e rifugiati che giungono dalla Libia nel nostro Paese”, spiega Medu..Uno studio clinico da noi realizzato e recentemente pubblicato sull’European Journal of Psychotraumatology conferma questi dati complessivi. “I 120 partecipanti allo studio erano tutti richiedenti asilo e rifugiati che si erano rivolti, o erano stati inviati, ai nostri centri clinici per una condizione di disagio psichico legata a eventi traumatici occorsi nel Paese di origine o lungo la rotta migratoria, ed in particolare in Libia”.

Leggi anche:  A Porto Empedocle, gli artisti di Farm Cultural Park colorano l'hotspot

Salute mentale: l’80 per cento ha un disturbo da stress post traumatico. L’80% dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati assistiti all’interno dei progetti di riabilitazione medico-psicologica per le vittime di tortura di Medu in Sicilia e a Roma (circa 800 pazienti) presentava ancora segni fisici compatibili con le violenze riferite. Oltre ai segni fisici vi sono poi, spesso più insidiose e invalidanti, le conseguenze psicologiche e psico-patologiche della violenza intenzionale. Tra i disturbi psichici più frequentemente rilevati dai medici e dagli psicologici di Medu, vi sono il disturbo da stress post traumatico (Ptsd) e altri disturbi correlati ma anche depressione, somatizzazioni legate al trauma, disturbi d’ansia e del sonno. Spesso questi disturbi ricevono meno attenzione delle malattie fisiche, vengono ignorati o diagnosticati in ritardo. Questo, oltre a comportare un peggioramento e una cronicizzazione del quadro clinico, provoca gravi difficoltà al percorso di integrazione dei migranti e rifugiati nei paesi di accoglienza.

Secondo lo studio di Medu, il 79% dei pazienti presentava un disturbo da stress post-traumatico. Tra i sintomi più frequenti: ricordi e/o incubi ricorrenti degli eventi traumatici; persistenti stati emotivi negativi (paura, orrore, rabbia, colpa, vergogna); difficoltà di concentrazione; sentimenti di estraneità e di distacco rispetto agli altri; ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme; perdita di interesse e di partecipazione per attività significative; insonnia severa. Un terzo dei pazienti presentava poi una forma particolarmente grave di disturbo post-traumatico complesso, caratterizzato da importanti alterazioni nella regolazione affettiva, convinzioni negative relative a sé stessi, relazioni interpersonali compromesse.

 Un rapporto basato su una tale mole di prove da ricordare il “Nunca mas” argentino, il poderoso atto d’accusa contro la “fabbrica dei desaparecidos”.

“Basta con i ritorni in Libia”

 “Ricordiamo agli Stati – si in una nota diffusa dall’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (OIM) – che salvare vite umane deve rimanere la priorità numero uno e che rispondere a chiamate di soccorso in mare ed è una responsabilità legale e morale. L’Organizzazione umanitaria) ribadisce la sua richiesta alla comunità internazionale affinché venga istituito un chiaro e rapido meccanismo di sbarco che ponga fine ai ritorni in Libia e alla detenzione di migranti vulnerabili in quel paese. Appare necessario – si legge ancora – adottare un modello di risposta alternativo che preveda per tutti gli Stati europei si prendano uguali responsabilità e si rendano disponibili a fornire un porto sicuro alle persone soccorse o intercettate in mare”.
 Desaparecidos

Leggi anche:  A Porto Empedocle, gli artisti di Farm Cultural Park colorano l'hotspot

La Guardia costiera ha riportato oltre 2.500 persone in Libia quest’anno e tra queste alcune fatte sbarcare a Tripoli poche ore dopo che il porto principale della città subisse pesanti bombardamenti. Solo nelle ultime 48 ore oltre 400 uomini, donne e bambini sono stati riportati a Tripoli dalla Guardia costiera libica, nelle cui fila, anche in ruoli di comando, vi sono ex trafficanti di esseri umani ancora in affari con le organizzazioni criminali e le milizie che controllano le aree da dove partono le carrette del mare.  La maggior parte degli intercettati sono stati portati in un centro di detenzione gestito dal ministero dell’Interno. Almeno 600 migranti riportati in Libia e trasferiti in questa struttura risultano dispersi da gennaio.

L’Oim segnala ancora l’assoluta insicurezza delle persone che sono detenute nelle strutture carcerarie libiche e attende ancora una risposta dalle autorità di quel Paese a cui sono stati chiesti chiarimenti su quanto accaduto ai quei migranti, di cui non si hanno più notizie. 

Intanto, si attendono le risposte del capo del Governo di Accordo Nazionale (Gna) Fayez al-Sarraj e del suo nemico, l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar,  alla richiesta dell’Onu e della comunità internazionale di una tregua umanitaria. Obiettivo: permettere alla Libia di affrontare l’emergenza del Coronavirus. Il Gna, seppure non si è espresso ufficialmente, fa capire di essere disposto a fermare le ostilità. Ciò, però, a patto che l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) , al servizio di Haftar, per primo cessi ogni attacco o bombardamento a sud di Tripoli. In particolare contro gli aeroporti di Mitiga e Misurata. Questi saranno fondamentali nel caso dell’eventuale scoppio della pandemia. Da Bengasi, invece, non giunge ancora nessun segnale. Inoltre, i soldati del Generale hanno cominciato ad aumentare il pressing su Ain Zara, cercando di rompere le linee di difesa nemiche. La risposta sono stati alcuni bombardamenti delle forze del Gna ad al-Washka.

Una cosa è certa: il Coranavirus non ferma la guerra per procura che sta devastando il Paese nordafricano, né ha posto fine ai crimini contro l’umanità commessi nei centri di detenzione di migranti, pagati anche con i soldi italiani. La Libia era e resta la” Fabbrica della Tortura”.

 

 

Native

Articoli correlati