Libia, la barzelletta dell'embargo e la missione di guerra dell'"ammiraglio" Di Maio
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Libia, la barzelletta dell'embargo e la missione di guerra dell'"ammiraglio" Di Maio

Sia alla conferenza di Berlino che nella risoluzione Onu si ribadisce che tutti debbano rispettare l’embargo, ma non sono previste sanzioni contro chi lo viola.

Luigi Di Maio
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

17 Febbraio 2020 - 16.48


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Ora se ne sono accorti anche al Palazzo di Vetro. L’embargo sulle armi per la Libia? “Una barzelletta”.. È impietosa Stepanie Williams, vice dell’inviato speciale delle Nazioni UniteGhassam Salamè, assente alla conferenza sulla sicurezza in Baviera – conclusasi ieri – per motivi di salute.

La tregua regge ma “è appesa a un filo” ha avvertito Williams “Dobbiamo davvero fare un passo avanti. È complicato perché ci sono state 150 violazioni, di terra, mare e aria. Il cessate il fuoco – ha sottolineato – deve essere monitorato e serve un sistema di attribuzione delle responsabilità”. Secondo gli esperti, l’unica possibilità per fermare l’escalation di violenza è bloccare il traffico di armi e sistemi per Sarraj e Haftar. “ma, né la recente Conferenza di Berlino sulla Libia né la risoluzione Onu affrontano in maniera efficace il tema, rimarca Francesco Bussoletti su Difesa&Sicurezza -. Si ribadisce che tutti debbano rispettare l’embargo, ma non sono previste sanzioni contro chi lo viola.

Barzelletta e ripetitività

“Dobbiamo tenere il punto sull’embargo della armi. Ci vuole una missione dell’Unione Europea che sia in grado di bloccare l’ingresso delle armi in Libia. Crediamo che oltre al cessate il fuoco serva una missione di monitoraggio”, ha ribadito il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che in più sedi ha sottolineato come diversi Paesi continuano ad interferire nel conflitto nonostante gli impegni sottoscritti a Berlino. “La minaccia terroristica in Libia, così come in altre aree, ad esempio il Sahel, è autentica e l’Italia è pronta, attraverso un approccio olistico ma con una visione più ampia che affronti questioni tra loro legate” afferma, in un’intervista al  La Stampa, il titola della Farnesina.  “Non bisogna essere Alice nel paese delle meraviglie – aggiunge -, lo vedo che continuano a esserci razzi su Mitiga, che si combatte, che ci sono violazioni della tregua. Ho visto Haftar il 17 dicembre, era refrattario ad accettare un percorso come quello avviato il 19 gennaio a Berlino. L’ho incontrato questa settimana, ora riconosce che quella via può essere la soluzione”. Sarà. Ma di questa rivelazione di Di Maio sul campo di battaglia libico non si trova traccia.  Riguardo poi alla questione del blocco dei pozzi petroliferi, Di Maio ha detto che, nel suo recente incontro con Khalifa Haftar, ha trovato il generale “diciamo disposto al dialogo, ma da qui a dire che toglierà il blocco nei prossimi giorni è prematuro”. “Questo è un tema chiave, non solo lo stop alla produzione sta paralizzando e impoverendo il Paese e la gente, ma fra un po’ Tripoli dovrà attingere alle riserve – ha detto ancora Di Maio – Il governo non avrà più i soldi per pagare gli stipendi, anche a quelli della Cirenaica, e la situazione diventerà ancora più instabile”.

L’enigma della missione

C’è un accordo di massima tra tutti i Paesi Ue per l’avvio di una missione che blocchi l’ingresso delle armi in Libia. Nonostante lo scetticismo che circolava prima del Consiglio dei ministri degli Esteri europei, manifestato anche dall’Alto rappresentante per la Politica Estera, Josep Borrell, che aveva predetto una fumata nera nella giornata di oggi, all’uscita dal meeting Luigi Di Maio ha annunciato che “tutti gli Stati Ue sono d’accordo per creare una missione che blocchi l’ingresso delle armi in Libia. Adesso l’Ue si impegna con una missione navale, aerea e con disponibilità anche terrestre, per bloccare l’ingresso delle armi in Libia. Sono molto contento”. 

Il capo della diplomazia di Roma ha però puntualizzato, come richiesto nelle scorse settimane dall’Italia e da altri Paesi che si sono schierati contro il ripristino della missione Sophia, come ad esempio Austria e Ungheria, che “le navi disposte in mare siano nella zona est della Libia”, dove ci sono i traffici di armi. “Se dovessero scatenare un pull factor“, cioè un effetto richiamo per i migranti, la missione si blocca”. “Cosa porta a casa l’Italia? L’operazione Sophia non esiste più – ha aggiunto – Quest’ultima è una novità, perché l’Ue nella sua dichiarazione riconosce l’esistenza del pull factor“.

Il risultato di oggi, esulta Di Maio “significa finalmente che in Ue si è deciso di ascoltare l’Italia. Torniamo come Ue e come Italia ad essere protagonisti in Libia, ma con la postura di chi vuole la pace e non di chi vuole alimentare la guerra”, ha concluso.

Al  titolare della Farnesina, andrebbe ricordato che la sospensione del pattugliamento navale fu causata proprio dall’Italia e dalla posizione dell’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini contro il piano operativo della missione che, ricalcando le operazioni Frontex, prevedeva lo sbarco solo in Italia dei migranti eventualmente salvati anche da navi di altri Paesi Ue. E di quel Governo, il Conte I, “Giggino” era, assieme a Salvini, vice premier.

Prima dell’incontro, Borrell, influenzato dall’intransigenza del governo austriaco che aveva di nuovo sottolineato che “Sophia non esiste più“, si era detto scettico sulla possibilità di mettere d’accordo tutti gli Stati membri sulla missione Ue: “Penso che più di uno Stato membro sia contrario a rilanciare l’operazione Sophia, non penso che oggi ce la faremo“, aveva ammesso. La preoccupazione dei Paesi contrari era legata soprattutto al fatto che riportare le navi europee nel Mediterraneo potesse stimolare l’incremento delle partenze dei migranti dalle coste libiche, mentre l’obiettivo del programma è esclusivamente quello di garantire l’embargo sugli armamenti verso il Paese in guerra.

Ma anche lui, all’uscita dall’incontro, ha confermato il risultato positivo: “Dopo una lunga discussione, i ministri hanno trovato un accordo all’unanimità, che solo stamani pensavo fosse impossibile. L’operazione Sophia sarà chiusa alla scadenza del suo mandato, il 20 marzo”, e sarà sostituita “da una nuova missione nel Mediterraneo, per l’attuazione dell’embargo Onu sulle armi. Questo dimostra che quando c’è volontà politica niente è impossibile”.

Borrell aveva poi puntato il dito contro Vienna per l’intransigenza con cui portava avanti la trattativa con gli altri membri Ue: “Nel caso in cui un solo Paese, che neppure ha una sua Marina, dicesse di no al ripristino di una missione europea marittima, non si può rispondere ‘peccato, non c’è l’unanimità’. Questo è ridicolo“. 

Ma gli interrogativi sui caratteri di questa nuova missioni sono molteplici e riguardano anzitutto le regole d’ingaggio. Contrastare i trafficanti di esseri umani significa agire militarmente, altrimenti si fa un buco nell’acqua. Ed ancora:  per essere davvero incisiva questa missione, come ha accennato Di Maio, deve mettere in conto anche una presenza militare sul terreno. Un terreno minato. La missione riguarderebbe anche l’embargo sulle armi fino ad oggi evaso. Ma a fornire armi ai due contendenti, Sarraj e Haftar, sono Paesi che non stanno nell’Unione europea e non saranno coinvolti nell’operazione: Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti in primis. Si pensa di prendere a cannonate le navi di questi Paesi? E Non basta: per essere davvero incisiva, le navi impegnate in questa indefinita operazione dovrebbero agire all’interno delle acque territoriali libiche. Quando questa ipotesi era stata prospettata, l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, aveva chiarito che se ciò fosse avvenute, si sarebbe trattato di una “dichiarazione di guerra”, una violazione della sovranità libica e la risposta sarebbe stata “devastante”. La missione europea dovrebbe far rispettare una risoluzione Onu, ma se così, confidano a Globalist fonti diplomatiche, sarebbe necessario un passaggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per una nuova risoluzione che contempli anche una parte operativa.

La parola chiave, quella impronunciabile è un’altra. Quella parola è “combattere”. Che non è la traduzione italiana di “peacekeeping”. Combattere significa definire regole d’ingaggio non difensive; significa impegnarsi attivamente non solo nell’addestramento di ciò che resta dell’esercito libico, ma agire per disarmare le milizie, liberare i centri occupati dalle diramazioni nordafricane dello Stato islamico. Significa mettere in campo, in una prospettiva di medio termine, non qualche migliaio di uomini, ma una forza, concordano gli analisti, di almeno 50mila unità. Combattere a terra, e non solo con missioni aeree o bombardamenti navali. Significa preparare l’opinione pubblica a situazioni di rischio e anche a pagare un tributo di sangue. In una parola, significa prepararsi a una guerra. Alle porte dell’Italia.

L’illusione di una “nuova Libia”.

Khalifa Haftar “non è un partner per la pace” perché “non possiamo negoziare finché siamo bombardati e ci sono spargimenti di sangue e la distruzione delle infrastrutture”. Questo è quanto ha dichiarato al-Sarraj durante una conferenza stampa trasmessa in diretta televisiva. Il primo ministro ha chiesto “severe misure internazionali” per far finire le continue violazioni del cessate il fuoco. In caso contrario il suo governo “sarà costretto a ritorsioni”. Il leader libico ha quindi ammonito che il sostegno straniero servirebbe solo “a prolungare” il conflitto nel Paese. “I sostenitori di Haftar devono capire di aver perso la scommessa” appoggiando il Generale, ha detto Sarraj. Ma a nove anni dal crollo del regime di Gheddafi e dell’eliminazione del Colonnello, la “nuova Libia” è questa: uno Stato senza potere. Un contropotere (armato) che si fa Stato. “Signori della politica” che per contare davvero sono costretti a trasformarsi in capi fazione con tanto di scherani assoldati con i proventi petroliferi. Trafficanti di uomini che moltiplicano a dismisura il proprio fatturato, salvo poi a sparare addosso a migranti che non rispettano ordini o pagamenti, o che diventano di intralcio per altre operazioni via mare. E ancora: un territorio in cui agiscono ancora circa 300 gruppi armati, tra milizie e tribù, filiali locali di al-Qaeda, gruppi jihadisti salafiti, compagnie di ventura. Se ciò non bastasse, la “nuova Libia” è anche il teatro di una a contesa dove anche i Paesi stranieri entrano con coalizioni composite e sovrapposte, appoggiando ora l’uno ora l’altro: dalla Nato -Turchia e Francia appartengono alla medesima alleanza ma Parigi appoggia Haftar mentre Erdogan solidarizza con al-Sarraj -; all’Onu – Russia e Francia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, non appoggiano il leader che le Nazioni Unite hanno ufficialmente riconosciuto come unico e legittimo -. Da ultimo il mondo sunnita – Egitto e Arabia Saudita sono nemici dei Fratelli Musulmani che invece la Turchia e il Qatar sostengono anche finanziariamente. La “barzelletta” dell’embargo diventa una tragica farsa in questo contesto. Qualcuno provi a spiegarlo all’”ammiraglio” Di Maio.

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